Codesto deplorevole esodo è dovuto certamente all’insufficienza e al falso spirito delle nostre leggi di protezione artistica, le quali, mentre hanno severissime disposizioni relative all’esportazione di un quadro e d’una statua, sono mute per quanto riguarda quella di un capolavoro di oreficeria e di ogni altro appartenente alle cosiddette arti minori[1]
La citazione
proviene dalle pagine di cronaca e
notizie della rivista “L’Arte”, del
1900. Nel denunciare ai lettori
l’avvenuto acquisto da parte del Museo
del Louvre del celebre rilievo eburneo
paleobizantino noto come Avorio
Barberini[2],
il giovane Stanislao Fraschetti[3],
autore della nota, non lesinava parole
amare, persino caustiche; parole ancora
più significative se si rammentano gli
accesi dibattiti che in quegli anni
coinvolgevano gli intellettuali in
merito alla tutela legislativa dei beni
artistici italiani[4].
È un passo
breve, ma – mi sembra – assai
rappresentativo di quel crescente
interesse che, negli anni a cavallo tra
Ottocento e Novecento, le arti suntuarie
paleocristiane e bizantine sembravano
destare negli studiosi italiani, che
cominciavano ad occuparsene con sempre
maggiore frequenza tra le pagine dei
volumi e dei periodici specializzati. Di
tale attenzione si faceva in particolar
modo portavoce “L’Arte” (già “Archivio
storico dell’Arte”, la prestigiosa
rivista diretta da Adolfo Venturi che, a
partire dal 1888 – anno della sua
fondazione per volontà di Domenico Gnoli
– si era subito imposta come sede ideale
per gli studi storico-artistici più
avanzati e aggiornati in Italia[5].
In risposta (e talora in parallelo) ai
molteplici stimoli intellettuali
provenienti dalle ricerche
internazionali, le indagini su
oreficeria, miniatura e microscultura
trovavano spazio all’interno di un
consistente numero di articoli, note e
recensioni, assumendo un ruolo, se non
ancora di primo piano, tuttavia senza
dubbio rilevante nel dibattito critico
sulle arti dell’età di mezzo[6].
Adottando
proprio la rivista diretta da Adolfo
Venturi come campo d’osservazione
privilegiato, il presente contributo
vuole soffermarsi in particolar modo
sugli oggetti paleocristiani e bizantini
in avorio, allo scopo di presentare una
ricostruzione generale dello sviluppo
degli studi su tale argomento in Italia
tra la fine del XIX e l’inizio del XX
secolo. Studi che, a partire da alcuni
pioneristici contributi pubblicati già
negli anni ‘80 dell’Ottocento, godettero
di una rapida e inconsueta fioritura a
cavallo dei due secoli, per poi
diventare sempre più sporadici e
occasionali parallelamente al graduale
affievolirsi dell’interesse per Bisanzio
alle soglie della Prima Guerra Mondiale.
Si tratta,
nello specifico, di un tema solo
apparentemente marginale, ma capace in
realtà di far emergere dati molto
interessanti per valutare il grado e il
tenore della riscoperta dell’arte
bizantina nella storiografia del nostro
Paese. Soprattutto in Italia, infatti,
l’emergere di una vera e propria
considerazione critica delle peculiarità
dell’arte dell’Impero Romano d’Oriente
sembra dipendere molto dal progressivo
accrescimento e approfondimento delle
conoscenze sulle arti suntuarie, e
segnatamente della produzione eburnea.
Del resto, per quanto si debba ancora
completare un’indagine ampia e
approfondita sull’argomento[7],
la semplice lettura dei contributi
pubblicati lascia emergere una
situazione piuttosto eterogenea rispetto
a quella degli altri paesi europei[8].
Alla quasi totalità degli specialisti
italiani sembra infatti essere mancato
per molto tempo la possibilità (o
l’interesse) per condurre indagini
autoptiche sull’arte monumentale
bizantina più “autentica”, quella cioè
sopravvissuta in Turchia, Grecia,
Balcani e nel Vicino Oriente
mediterraneo, aree che più direttamente
e più a lungo furono soggette al dominio
di Costantinopoli. Per gli studi
italiani, affrontare tale argomento
significava il più delle volte discutere
di “arte italo-bizantina”, ovvero
descrivere edifici, pitture e mosaici
conservati nelle aree della Penisola
che, nel corso dei secoli, avevano
subìto la dominazione o l’influsso di
Bisanzio (Ravenna, Venezia, l’Italia
meridionale e, in modo più controverso,
Roma)[9].
Di fronte ad un’ottica così “parziale” e
condizionata, non stupisce che buona
parte delle nozioni in materia d’arte
bizantina dovesse provenire soprattutto
dall’osservazione diretta dei prodotti
delle arti suntuarie o “industriali”:
codici miniati, gioielli e reliquiari,
intagli in avorio e osso, presenti in
gran numero nelle collezioni italiane
pubbliche e private. Le ricerche su tali
opere, precedentemente considerate
soprattutto appannaggio di archeologi,
filologi, amatori e cultori delle
“antichità cristiane”, trovarono proprio
ne “L’Arte” di Venturi un nuovo terreno
particolarmente fecondo, anche grazie
all’interesse che lo stesso direttore
nutriva per i problemi del
collezionismo, della musealizzazione e
della catalogazione[10].
Le numerose rubriche, che comprendevano
resoconti dei corrispondenti
dall’estero, e soprattutto ricchi e
puntuali bollettini bibliografici,
rappresentavano inoltre un importante
strumento di aggiornamento costante.
L’approfondimento delle conoscenze sugli
avori paleocristiani e bizantini era
favorito non soltanto dalla cospicua
presenza di pezzi sul suolo italiano, ma
anche e soprattutto da un’autorevole
tradizione di studi di respiro ormai
internazionale, che alla fine del XIX
secolo metteva a disposizione degli
specialisti alcuni repertori moderni e
funzionali. Chi voleva affrontare questo
argomento era comunque prevalentemente
portato a rivolgersi alla più recente
produzione scientifica internazionale[11].
Vi si trovava infatti l’esteso catalogo
di John Westwood, il repertorio di opere
altomedievali di Georg Stuhlfauth, e
soprattutto la grande impresa di Émile
Molinier, già autore della descrizione
degli avori del Louvre[12]:
un ampio capitolo del primo volume della
sua monumentale Histoire générale des
arts appliqués à l’industrie[13]
era proprio dedicato ai manufatti
eburnei bizantini, analizzati nelle loro
peculiarità tecniche e stilistiche, e
classificati in ordine rigorosamente
cronologico.
Ai molteplici
contatti instaurati da Adolfo Venturi
con i principali intellettuali e
specialisti stranieri[14]
si devono i primi interventi del
finlandese Johan Jakob Tikkanen[15]
pubblicati sull’“Archivio”, nei quali
venivano espressamente illustrate anche
alcune opere eburnee paleocristiane e
bizantine. Molto noto è il saggio del
1888 dedicato ai rapporti tra i cicli
musivi dell’atrio di San Marco a Venezia
e le miniature della cosiddetta Genesi
Cotton, considerato un vero e proprio
classico della bizantinistica, i cui
risultati sono ancora oggi
sostanzialmente condivisibili[16].
Fin dalle prime pagine, lo studioso
chiamava in causa l’ampia produzione in
avorio e osso d’età medievale, con la
volontà di offrire al lettore quanti più
riferimenti visuali possibili a sostegno
del suo discorso sull’iconografia della
Genesi. In linea con il taglio del suo
contributo, però, Tikkanen non forniva
una vera e propria analisi stilistica
dei pezzi, limitandosi a trarne di volta
in volta i possibili confronti per le
composizioni musive di San Marco. Più
rilevante per il presente discorso
risulta invece un secondo e più tardo
intervento di Tikkanen sulle pagine
dell’“Archivio”, ovvero la sua
recensione al controverso volume di
Josef Strzygowski Das
Etschmiadzin-Evangeliar del 1891[17].
Il giudizio
di Tikkanen, moderatamente favorevole –
anche se critico nei confronti degli
eccessi di “orientalismo” manifestati
dall’autore – era preceduto da
un’interessante introduzione di
carattere metodologico dedicata alle
indagini sull’«arte cristiana antica».
Tra i diversi problemi ancora da
affrontare – dichiarava lo studioso
finlandese – quello della corretta
interpretazione iconografica e
stilistica dei manufatti in avorio
doveva essere considerato di primaria
importanza: «questi» infatti «ci
forniscono i più nobili esempi del gusto
e della capacità artistica di allora»[18].
Le difficoltà di datazione e
classificazione di tali prodotti, che
avevano di fatto impedito di andar oltre
una sommaria suddivisione in «lavori
romani occidentali e in lavori
bizantini», avrebbero richiesto un più
intenso lavoro di ricerca, per tentare
di valutare i confini e le interferenze
tra i «due cieli artistici»[19].
Si giungeva poi a mettere lucidamente in
discussione alcune opinioni all’epoca
assai diffuse e accreditate tra gli
specialisti, ma di fatto derivate da un
erroneo accostamento tra i metodi di
lavorazione delle arti “maggiori” e
quelli delle arti “minori”: Tikkanen
contestava infatti l’idea dell’effettiva
esistenza storica di molteplici “scuole”
di produzione, tutte dotate di
riconoscibili elementi caratterizzanti,
e il più delle volte identificate con
gli stessi luoghi nei quali i manufatti
eburnei si trovavano ad essere
conservati. Si caldeggiava invece
l’adozione di un metodo di ricerca che
fosse specificatamente elaborato per lo
studio delle «opere d’arti minori», le
quali, data la loro natura di oggetti
portatili, assai raramente vengono oggi
a trovarsi nelle sedi di produzione
originaria:
[…]
trattandosi d’opere d’arti minori,
bisogna essere molto prudenti nel voler
dedurre dal luogo dove presentemente si
trovano quello della loro provenienza,
giacché i piccoli lavori dell’epoca
antica si trovano oramai sparsi per
tutto il mondo, e spesso lontani dalla
loro patria. Dov’è, ad esempio, la prova
che gli avori del Duomo di Milano siano
stati eseguiti proprio in quella città?[20]
L’intervento
di Tikkanen offre un esempio molto
significativo di come si configurasse
una riflessione aggiornata e di ampio
respiro sulle arti suntuarie dei primi
secoli del Medioevo alla fine
dell’Ottocento. Lo studioso aveva
infatti ben individuato i problemi che
la ricerca coeva doveva ancora
affrontare e risolvere: in particolare,
la necessità di acquisire strumenti
critici moderni in grado di evidenziare
le peculiarità tecniche e formali degli
oggetti eburnei, nonché un vocabolario
specialistico capace di distinguere ciò
che realmente poteva chiamarsi
“bizantino” (perché prodotto a Bisanzio,
o sotto il suo evidente influsso) e ciò
che, in modo ancora assai nebuloso,
veniva più genericamente definito come
“cristiano”[21].
L’impostazione innovativa dei contributi
di Tikkanen non rappresentava comunque
la “norma” per l’epoca, e il confronto
con gli scritti di altri studiosi
operanti in Italia in quegli anni lo
dimostra chiaramente. Nell’illustrare le
numerose opere in avorio che tra il 1888
e il 1889 erano giunte al Museo
Nazionale del Bargello di Firenze dalla
collezione di Louis Carrand, Umberto
Rossi[22]
ometteva il più delle volte qualsiasi
indicazione di carattere cronologico, e
nel contempo dimostrava la persistenza
di idee estetiche e pregiudizi di stampo
ancora nettamente classicista. Nelle sue
descrizioni, infatti, abbondavano
commenti sulla «decadenza», sulla
«rigidità» e su «quegli strani sbagli di
prospettiva che tanto urlano nell’arte
bisantina»; la datazione di una
cassettina con scene profane, riprodotta
con una bella tavola fotoincisa, veniva
fissata all’inizio del IX secolo, per
avvicinarla il più possibile al
revival classico d’età carolingia,
mentre della celebre placca eburnea con
ritratto di imperatrice si apprezzava
sostanzialmente la sola fattura delle
aquile nella parte superiore («si
direbbero studiate dal vivo»)[23].
Approcci del genere, parziali e
storicamente “sfocati”, si riscontrano
anche nel breve intervento di Xavier
Barbier de Montault, pubblicato nella
sezione “Miscellanea” nel 1893, e
dedicato agli avori bizantini conservati
presso il Museo Cristiano della
Biblioteca Vaticana[24].
Lo studioso sceglieva di approfondire il
discorso su una tavoletta d’età macedone
raffigurante la Natività (proveniente
dalla collezione di Seroux d’Agincourt,
e confluita nella sede attuale
all’inizio dell’Ottocento[25].
La descrizione fornita da Barbier de
Montault risentiva ancora delle
convenzioni della scienza antiquaria
ottocentesca, e, lontanissima dal nuovo
lessico critico messo a punto dagli
specialisti europei più all’avanguardia,
assumeva toni marcatamente retorici:
Quantunque la
Vergine non abbia sentito alcuno dei
dolori del parto e che abbia messo al
mondo il suo Divin Figlio senza sforzo
né sofferenza, come un fiore che produce
il suo frutto o un astro che invia nello
spazio un raggio luminoso, i Greci […]
hanno costantemente dato a Maria questa
attitudine di riposo, che è propria
delle madri che hanno partorito secondo
le leggi ordinarie della natura e che
qui significa semplicemente la maternità[26].
L’avvicinarsi
del nuovo secolo segnò un momento di
grandi trasformazioni per l’“Archivio
Storico dell’Arte”. Con il passaggio
dalla direzione Gnoli a quella Venturi,
la rivista romana mutava non solamente
il nome, ma anche l’impostazione
generale dei fascicoli, che si
arricchivano di nuove rubriche (come le
pagine riservate a “Domande e risposte”[27]),
nonché di ampie sezioni riservate alle
notizie inviate da numerosi
corrispondenti, in Italia e all’estero.
A questo clima di rinnovata
collaborazione internazionale, che
tendeva a moltiplicare il numero delle
voci critiche in gioco, si deve
probabilmente il sensibile aumento di
articoli, note brevi, recensioni e
annunci dedicati alle arti suntuarie
medievali e bizantine, e segnatamente
agli avori.
In questo
senso, il biennio 1898-1899 si rivelò
particolarmente fecondo. Il primo
fascicolo del nuovo periodico “L’Arte”
si apriva infatti con un saggio a firma
di Federico Hermanin[28]
dedicato al nucleo di opere eburnee
conservato nella grande raccolta romana
del conte Grigorij Stroganoff, figura di
primissimo piano nel panorama del
collezionismo dell’epoca in Italia[29].
Il contributo presentava interessanti
elementi di novità: si tentava infatti
di individuare la cronologia dei pezzi
concentrandosi in prevalenza sugli
aspetti stilistici, e avanzando
considerazioni particolarmente minuziose
sulla composizione delle scene, sui
panneggi, sulle cornici e sugli altri
elementi ornamentali. Nonostante la
persistente tendenza a valutare
l’aspetto qualitativo delle opere in
base alla loro aderenza alla «buona
tradizione classica», emergeva comunque
la volontà di distaccarsi dai metodi
classificatori tipici dei “conoscitori”,
adottando piuttosto moderni criteri
d’analisi formale, simili a quelli già
diffusi per gli altri campi della storia
dell’arte. Utile in questo senso è il
confronto tra l’articolo di Hermanin e
il contemporaneo saggio di Josef Wilpert
dedicato alla storia dell’abbigliamento
della tarda antichità[30].
Lo studioso, a quel tempo certamente uno
dei massimi esperti europei nel campo
dell’archeologia cristiana[31],
presentava ai lettori de “L’Arte”
un’ampia selezione di opere risalenti
soprattutto ai secoli IV-VI[32],
tra le quali anche parecchi intagli in
avorio; essi venivano tuttavia esaminati
secondo un’ottica esclusivamente
iconografica, come semplici spunti per
una lunga ed erudita esposizione
riguardante le modalità di trasmissione
di alcuni capi di vestiario
dall’antichità classica al medioevo.
Wilpert seppe comunque introdurre a
supporto delle sue ricerche alcune
innovazioni interessanti, talora persino
bizzarre, che sembrano anticipare le
moderne ricostruzioni virtuali: si veda
la sorprendente tavola fotografica che
accompagna il suo saggio, nella quale
alcuni giovanissimi modelli apparivano
teatralmente abbigliati con accurate
riproduzioni di abiti tardoantichi e
immortalati nelle identiche pose
attestate da alcuni dittici consolari[33].
Tra gli
interventi sull’argomento comparsi sulla
rivista in quegli stessi anni[34],
vanno ricordate la descrizione a cura di
Adolfo Venturi della cassettina
proveniente dalla collezione Rospigliosi
(accompagnata da una splendida
fotoincisione Danesi[35],
e soprattutto le varie segnalazioni[36]
che annunciavano l’uscita del seminale
Frühchristliche und mitteralterliche
Elfenbeinwerke di Hans Graeven, la
cui versione completa venne pubblicata
proprio a Roma nel 1900, a cura
dell’Istituto Storico Germanico[37].
Frutto di una concezione editoriale
modernissima, il volume presentava un
formato molto più ridotto e maneggevole
rispetto agli standard correnti, ed era
arricchito dal più ampio repertorio
fotografico allora disponibile per lo
studio degli avori paleocristiani e
bizantini, in un periodo in cui la
consuetudine di illustrare le opere con
incisioni e disegni non era stata ancora
abbandonata del tutto[38].
La redazione de “L’Arte” dimostrò di
recepire appieno l’importanza dell’opera
di Graeven, pubblicando a sua firma nel
1899 un lungo contributo dedicato
all’iconografia di Adamo ed Eva sulle
cassette eburnee bizantine[39].
Si trattava di una ricerca elaborata in
occasione del XII Congresso
Internazionale degli Orientalisti[40],
nella quale si presentava una rassegna
di cofanetti con soggetti cristiani,
messi a confronto con opere d’arte di
genere differente, tra le quali
figuravano anche manufatti bronzei come
la porta del Duomo di Pisa di Bonanno.
Negli accenti spiccatamente profani che
permeavano i rilievi figurati delle
cassettine – anche nel caso di
rappresentazioni di episodi biblici –
Graeven individuava una forte componente
di sopravvissuta classicità, non più
descritta in senso vago e generico, ma
specificatamente ricondotta alla
conoscenza delle sculture e delle
oreficerie greco-romane «di cui
Costantinopoli possedeva una quantità
enorme prima del sacco fatale del 1204».
L’articolo presentava un approccio nuovo
e multiforme all’argomento, non
limitandosi a proporre una
classificazione iconografica delle scene
veterotestamentarie raffigurate sui
cofanetti, ma tentando di individuare il
motivo del grande successo di questi
prodotti presso il pubblico bizantino;
si giungeva così a proporre
considerazioni decisamente originali,
quasi sconfinanti nella sociologia:
La ragione
per cui si preferiva questo soggetto è
certamente il riguardo al gusto dei
compratori, ai quali piaceva di vedere
sui cofanetti delle figure ignude. E
soltanto la storia della creazione dava
agli artisti la possibilità
d’accontentare il gusto del pubblico,
una volta che – forse per influenza del
clero – le rappresentazioni profane
dovevano essere sostituite da cristiane.
Un fenomeno analogo troviamo nell’arte
inglese. Chi percorre l’Inghilterra un
Museo che contenga dei lavori dei primi
decenni del nostro secolo sarà sorpreso
del numero eccessivo delle statue di
Eva. Il fatto si spiega con quel
rigorismo degl’Inglesi, che fino agli
ultimi tempi non permetteva agli
scultori di rappresentare ed esporre
altra donna ignuda[41].
L’anno
successivo (1901) il panorama italiano
degli studi storico-artistici fu
indelebilmente segnato dalla
pubblicazione per i tipi di Hoepli del
primo volume della Storia dell’arte
italiana di Adolfo Venturi[42],
dedicato all’età paleocristiana fino a
Giustiniano; fece seguito nel 1902 il
secondo volume, incentrato sull’arte
“barbarica” fino all’XI secolo. I
paragrafi che Venturi riservava alle
arti di Bisanzio, pur integrati
all’interno di un più ampio discorso
sulla genesi e lo sviluppo dell’arte
nazionale, sono stati a ragione definiti
come la prima effettiva esposizione
generale su questo tema ideata da uno
studioso italiano[43].
Dal nostro punto di vista, l’opera
assume particolare interesse per la
notevole percentuale di oggetti in
avorio e osso esaminati nel corso della
trattazione, illustrati da un’amplissima
selezione di immagini, di certo la più
ricca disponibile a quei tempi in
Italia. Lo stesso frontespizio del primo
tomo, concepito e realizzato dall’abile
pittore e illustratore Giuseppe Cellini,
appariva come una fantasiosa
composizione marcatamente ispirata ai
rilievi fitomorfi della cattedra eburnea
di Massimiano a Ravenna, e comprendeva
persino due originali monogrammi
richiamanti i nomi di Venturi e di
Hoepli[44].
Sfogliando il volume, ci si trova di
fronte a una ininterrotta sequenza di
pissidi istoriate, dittici consolari,
cofanetti, trittici e rilievi di
soggetto cristiano, raggruppati
approssimativamente per tipologie, ma
senza un ordine rigoroso, tanto che
molte opere bizantine risultano
mescolate a pezzi di produzione più
specificatamente occidentale, come
quelli salernitani. L’avorio veniva
considerato come una sorta di materiale
“alternativo” più prezioso rispetto alla
pietra o al marmo, e dunque le opere
eburnee erano collocate all’interno
della più generale trattazione sulla
scultura, secondo un sistema di
classificazione già adottato in Italia
da Raffaele Garrucci nella sua seminale
Storia dell’Arte Cristiana[45].
I manufatti
venivano descritti in modo sintetico,
talora sbrigativo, sfruttando largamente
citazioni e richiami alla folta
bibliografia straniera sull’argomento.
Più raramente – e soprattutto nel
secondo tomo dedicato alle “arti
barbariche” – il discorso di Venturi
poteva farsi più approfondito, come
accade per il caso particolare dei
cofanetti a rosette con rilievi profani
(noti come “cassettine civili”[46]).
Nel ripercorrere brevemente il dibattito
critico sulla cronologia di tali
manufatti[47]
– da alcuni considerati d’età
mediobizantina, da altri ritenuti di
IV-V secolo – lo studioso rivelava
appieno l’impronta in parte ancora
classicista del proprio giudizio,
ritenendo impossibile che opere come il
celebre Cofanetto di Veroli[48],
così impregnate di memorie desunte
dall’arte antica, potessero essere state
realizzate in un periodo posteriore
all’età teodosiana.
L’impresa di
Venturi, accolta favorevolmente da più
parti[49],
fu tuttavia oggetto di contestazioni per
l’eccessiva stringatezza del testo e per
i numerosi errori ivi contenuti. In una
lunga e severa recensione apparsa su
“Archivio Storico Italiano”, Laudadeo
Testi valutò il primo volume della
Storia dell’Arte come «non
all’altezza degli studi moderni e del
sapere del Venturi», e pur apprezzando
la ricchezza della sezione dedicata agli
avori intagliati, si scagliava contro
l’autore sia per le datazioni da lui
attribuite alla Cattedra di Massimiano e
all’Avorio Barberini (V secolo), sia per
la sua convinzione nel voler anticipare
all’età paleobizantina la produzione
delle cassettine a rosette, «che per
comune consenso sono collocate fra il IX
e il XII […]. Altre considerazioni
potrei aggiungere, ma francamente non mi
pare che l’argomento valga la pena»[50].
La questione della cronologia della
Cattedra di Massimiano fu poi anche
causa di aspre critiche da parte di
Alfredo Melani (sulle pagine di “Napoli
Nobilissima”[51]),
e soprattutto di Corrado Ricci,
all’epoca probabilmente il massimo
conoscitore dell’arte ravennate, già
coinvolto come collaboratore e
corrispondente per “L’Arte”[52].
Attraverso i mordaci editoriali
pubblicati su “Rassegna d’Arte” –
la rivista di
cui era co-direttore[53]
– Ricci pareva dubitare delle capacità
di Venturi di poter valutare
correttamente un manufatto come la
cattedra – opera che si dimostrava
«senza dubbio» di VI secolo – e
lamentava la sua abitudine di far spesso
leva sulle opinioni degli studiosi
stranieri (Graeven in primis):
È chiaro
quindi che il Venturi, da quell’uomo
avveduto che è, più che badare agli
argomenti e ai fatti, ha citati nomi
stranieri per sorprendere il lettore.
L’arte è vecchia, ed io avrei buon
giuoco a ribatterlo se volessi riportare
quanto di acerbo hanno scritto critici
stranieri contro di lui[54].
Il dibattito
tra i due studiosi degenerò in un
infuocato contraddittorio[55],
che fu presumibilmente tra le cause
della temporanea “estromissione” di
Ricci dalle pagine della rivista romana[56].
In prospettiva alcune delle accuse di
“approssimazione” ricevute da Venturi
appaiono in qualche modo giustificate, e
Testi e Ricci avevano ragione nel
contestare le molte datazioni poco
convincenti. Tuttavia, va certamente
riconosciuto all’autore della Storia
dell’arte il primato di aver diffuso
la conoscenza delle opere eburnee
paleocristiane e bizantine presso un
pubblico più vasto e variegato rispetto
a quello delle riviste e delle
monografie scientifiche, nonché il
merito di aver sottolineato la necessità
di considerare lo studio di tali opere
come elemento integrante per la
comprensione degli sviluppi dell’arte
italiana.
Con
l’istituzione della Scuola di
Perfezionamento in Storia dell’Arte
Medioevale e Moderna diretta da Venturi
a Roma[57],
una nuova generazione di giovani e
promettenti studiosi fece il proprio
ingresso tra le fila de “L’Arte”. Se a
Pietro Toesca, il più importante
medievista uscito dalla scuola
venturiana, si devono tutto sommato
pochi contributi di bizantinistica in
senso stretto[58],
lo stesso non si può dire di un altro
celebre allievo, ovvero Antonio Muñoz,
che esordisce su “L’Arte” nel 1903,
ancora diciannovenne[59].
A partire dal 1904, e fino all’inizio
del decennio successivo, l’attenzione di
Muñoz si concentrò prevalentemente sullo
studio dell’arte paleocristiana e
bizantina[60],
con una serie di scritti di vario
argomento, assai aggiornati sui
risultati della più importante
produzione scientifica estera,
soprattutto di area austriaca e russa:
dotato di una discreta conoscenza
diretta dell’arte costantinopolitana e
del Mediterraneo orientale[61]
(conoscenza che, come si è detto, il più
delle volte sembrava mancare a gran
parte degli altri specialisti), per
almeno sette anni Antonio Muñoz fu
senz’altro lo studioso italiano più
avanzato in materia d’arte bizantina[62].
In stretto
contatto con il mondo del collezionismo
romano (Grigorij Stroganoff su tutti[63]),
e forte dei rapporti amichevoli
instaurati con Rodolfo Kanzler – già
autore del sontuoso catalogo delle opere
eburnee conservate presso la Biblioteca
Vaticana[64]
– Muñoz si interessò anche allo studio
degli avori, con pochi ma puntuali
contributi. La sua prima esperienza in
quest’ambito coincise con un evento di
notevolissimo interesse nel panorama
culturale dell’epoca: in occasione della
mostra d’arte bizantina organizzata tra
1905 e 1906 presso la Badia Greca di
Grottaferrata[65],
gli venne infatti affidata la
compilazione del catalogo ufficiale,
edito in lingua francese per i tipi di
Danesi[66].
Il volume forniva una presentazione
generale dei pezzi esposti, accompagnata
da taluni approfondimenti nel caso di
manufatti ritenuti particolarmente
significativi. Prevalevano le opere
d’arte suntuaria o comunque portatile,
ordinatamente suddivise per “generi” o
“materiali”: subito dopo la pittura su
tavola e le miniature, veniva il turno
degli intagli in avorio e steatite, ai
quali era dedicato un capitolo
indipendente[67].
Del nucleo complessivo di oggetti
eburnei esposti, provenienti dalla
Biblioteca Vaticana e dal Museo Civico
di Bologna, Muñoz scelse di illustrare i
soli pezzi romani, fornendo così una
sorta di catalogo “parallelo” rispetto a
quello di Kanzler, pubblicato solo due
anni prima. Scorrendo le descrizioni
delle opere, appare evidente come il
giovane studioso potesse contare su una
preparazione ben aggiornata ai più
recenti contributi sull’argomento, e
manifestasse uno spirito critico già
autonomo e originale. Non mancavano
commenti lievemente polemici nei
confronti del volume di Kanzler, del
quale si segnalavano talora alcune
imprecisioni nelle descrizioni
iconografiche[68],
e, per quanto riguarda il noto trittico
eburneo con Cristo, Vergine e santi,
anche la scarsa fedeltà delle
fotoincisioni (considerate non
corrispondenti al reale colore
dell’opera. Proprio nella sua analisi
del trittico[69],
Muñoz si dichiarava completamente in
disaccordo con l’ipotesi di datazione
avanzata qualche anno prima da Émile
Molinier, il quale, sulla scia di De
Linas, aveva accostato il pezzo vaticano
a quello un tempo conservato nella
Biblioteca Casanatense (e confluito dal
1920 al Museo di Palazzo Venezia),
collocando la cronologia di entrambi al
XV secolo[70].
Attraverso un’attenta analisi
stilistica, Muñoz riteneva di trovare
maggiori affinità tra il trittico
vaticano e l’altrettanto noto trittico
del Louvre (cosiddetto Harbaville,
anticipandone la datazione al X secolo,
e giudicandolo come uno dei migliori
prodotti della microscultura in avorio.
Particolarmente interessanti appaiono le
riflessioni conclusive, nelle quali
l’autore manifestava una visione moderna
e personale dell’arte bizantina:
L’ideé, tant
de fois répetée mal à propos, de
l’esprit conservateur de l’art byzantin,
a paru à tout le monde un argument
decisif pour condamner l’ivoire du
Vatican, sans prendre garde que, si dans
l’art byzantin les formes
iconographiques resterènt identiques,
l’esprit qui les animait changea, de
même que la technique qui les exprimait
et la manière de comprendre les figures
et le choses[71].
Muñoz ebbe
occasione di affrontare nuovamente lo
studio degli avori bizantini tra 1910 e
1912, quando, a pochi mesi dalla morte
di Grigorij Stroganoff[72],
venne incaricato di inventariare le
opere della sua ricchissima collezione,
e di compilarne il catalogo[73].
Come nel volume della mostra criptense,
anche in questo gli oggetti furono
raccolti in un capitolo autonomo[74],
quali opere dotate di una propria
distinta peculiarità tecnica e materica;
le preziose tavole fotoincise, ciascuna
illustrante un singolo pezzo della
raccolta, erano accompagnate da schede
descrittive in francese, piuttosto
sintetiche ma precise e aggiornate. Il
catalogo rappresentò per Muñoz l’ultimo
significativo intervento nel campo delle
ricerche sugli oggetti eburnei
bizantini. Attraverso le pagine de
“L’Arte”, nei contributi da lui firmati
e nelle recensioni dei suoi lavori, si
coglie con lampante chiarezza il
graduale spostamento dei suoi interessi
verso campi d’indagine eterogenei (la
scultura rinascimentale e barocca, la
pittura manierista, i problemi relativi
al restauro dei monumenti romani). La
lunga attività istituzionale in qualità
di ispettore generale delle Antichità e
Belle Arti negli anni del Fascismo
(1928-1944) lo indussero ad abbandonare
del tutto le precedenti posizioni
“orientaliste” in virtù di
un’incondizionata difesa dell’origine
totalmente romana dell’arte medievale
italiana: un atteggiamento che Massimo
Bernabò ha icasticamente definito « uno
dei casi più palesi di apostasia»[75].
Il passaggio
della “meteora” Muñoz non sembrerebbe
aver condizionato particolarmente lo
stato degli studi italiani sugli avori
bizantini, la cui occorrenza sulle
pagine delle riviste scientifiche, con
il progredire degli anni, sembra
divenire sempre più sporadica. Nel 1911
compariva su “L’Arte” un saggio di
Lionello Venturi dedicato al tesoro di
San Pietro in Carnia di Zuglio, nel
quale era custodita la teca oggi al
Museo Diocesano d’Arte Sacra di Udine[76].
La breve analisi che l’autore forniva
del pezzo – un assemblaggio di placche
eburnee bizantine e lamine d’argento
sbalzato di produzione norditaliana –
presentava poche ma precise notazioni
d’ordine stilistico, e ambiva
soprattutto a ricostruire la
configurazione originale degli avori,
che facevano presumibilmente parte di un
trittico d’età mediobizantina (si
proponeva il secolo XI). La bibliografia
citata si mostrava tuttavia assai
scarna, comprendendo sostanzialmente
solo qualche nota tratta da un testo non
certamente incentrato sull’argomento,
ovvero l’Epopée
byzantine di Gustave
Schlumberger[77].
Due anni
dopo, il saggio redatto da Camillo
Scaccia-Scarafoni sul tesoro del duomo
di Veroli[78]
dedicava pochissime righe alla nota
cassettina eburnea con rilievi profani
(già allora a Londra), limitandosi a
rimandare agli interventi più recenti
sull’opera, senza entrare nel dibattito
in merito alla sua collocazione
cronologica, all’epoca ancora piuttosto
controversa[79].
L’affievolirsi dell’interesse specifico
nei confronti degli avori si coglie con
particolare evidenza nel corso del
secondo decennio del ‘900, quando anche
i contributi dedicati più in generale
alle arti di Bisanzio sembrano divenire
sempre più sporadici[80].
In questo senso, va certamente ricordato
l’album di Arduino Colasanti, L’arte
bisantina in Italia[81],
una pubblicazione assai pregiata che
dichiarava fin dal titolo il taglio
esclusivamente “italo-bizantino” delle
opere rappresentate. Il sontuoso volume,
pure piuttosto aggiornato sulle
discussioni critiche in corso,
illustrava di fatto una ristretta
percentuale di manufatti eburnei,
raccolti in sole due tavole
fotografiche, e limitati sostanzialmente
alle cassettine “civili” e,
naturalmente, all’onnipresente Cattedra
di Massimiano, per la quale si proponeva
una sintesi delle opinioni più
accreditate[82].
Un ruolo ben
più consistente spetta senza dubbio al
Medioevo di Pietro Toesca[83],
studioso caratterizzato da
un’equilibrata ma ben definita posizione
critica a favore del riconoscimento del
ruolo dell’Oriente e di Bisanzio nella
formazione dell’arte europea. La
produzione in avorio trovava spazio già
nel primo capitolo sulle “arti minori”,
uscito sotto forma di dispense tra 1914
e 1915, e in volume nel 1927. Si
trattava di una breve ma puntuale
analisi dei pezzi più significativi,
accompagnata da un’attenta selezione
bibliografica, nella quale comparivano
in sequenza la rassegna di Molinier, i
primi tre volumi della Storia
dell’Arte di Venturi, il sesto tomo
di Garrucci e il volumetto di Graeven,
mentre si definiva “sconvolta quasi del
tutto” la vecchia classificazione
topografica per “scuole” proposta da
Stuhlfauth[84].
Più incentrata sull’Occidente (e
segnatamente sulla cosiddetta “scuola
salernitana”) risulta la trattazione del
volume dedicato ai secoli XI-XIII, che
aggiungeva rimandi ad alcune
pubblicazioni più recenti[85].
Fatta
eccezione per i pochi nomi appena
citati, il progressivo “allontanamento”
della storiografia italiana dallo studio
degli avori bizantini (e, in generale,
dalla bizantinistica tout-court)
sembra procedere parallelamente ad un
fenomeno di irrevocabile “chiusura” nei
confronti di quanto di più moderno e
aggiornato si produceva in ambito
internazionale sui medesimi argomenti.
Non esiste di fatto alcuna iniziativa
italiana, per esempio, che possa
paragonarsi alle grandi esposizioni
organizzate dalle principali istituzioni
museali inglesi, che proprio tra gli
anni ‘10 e ‘20 ponevano sotto gli occhi
della comunità scientifica
internazionale i cospicui nuclei di
oggetti eburnei conservati presso le
loro sedi[86].
Ben pochi cenni relativi alle più
interessanti pubblicazioni sul tema si
trovano sulle pagine delle riviste, e un
solo scarno paragrafo dell’altrimenti
notevole saggio di Giusta Nicco sui
principi compositivi dell’arte bizantina
(1925) risulta dedicato alla produzione
in avorio[87].
Un’esemplare testimonianza di questo
ormai insanabile divario, che avrebbe
caratterizzato per molti anni lo stato
degli studi italiani, è certamente
rappresentata dal saggio di Pericle
Ducati apparso sul “Bollettino d’Arte”
del 1923, e incentrato sulla collezione
di pezzi eburnei custodita nel Museo
Civico di Bologna[88].
All’interno di tale contributo, ben due
eclatanti falsificazioni ottocentesche
in osso (un dittico anepigrafe e un
rilievo con Cristo in trono) vennero
inspiegabilmente giudicate del tutto
genuine, ed esaltate come eccezionali
prodotti della migliore arte
dell’intaglio in avorio, nonostante
almeno una di esse fosse stata
chiaramente riconosciuta come non
autentica già vent’anni prima da Graeven[89]:
uno specialista la cui opera, come si è
visto, non era certamente sconosciuta
agli studiosi italiani, almeno nei due
decenni precedenti.
Nell’autunno del 1931 la rubrica
del bollettino bibliografico de
“L’Arte”, a quel tempo affidata ad Anna
Maria Brizio[90],
annunciava la chiusura dell’importante
Exposition internationale d’art
byzantin di Parigi, e la
pubblicazione del corrispettivo
catalogo, con prefazione di Charles
Diehl[91].
La mostra veniva singolarmente ricordata
come «la prima del genere», dimenticando
del tutto la pionieristica iniziativa di
Grottaferrata, risalente a venticinque
anni prima. Il brevissimo testo della
Brizio riassumeva tuttavia piuttosto
lucidamente il carattere tutto
metodologico dei problemi che la
bizantinistica internazionale si trovava
ad affrontare:
Questi scritti ribadiscono i
concetti della vitalità e della
grandezza dell’arte bizantina contro il
preconcetto classicistico di decadenza.
È veramente da augurarsi che i prossimi
studi non si limitino a queste
considerazioni generiche e non
continuino a rimanere irretiti nella
questione storicistica di Oriente o
Roma, ma, prendendo da quest’esposizione
nuovo impulso, si volgano a considerare
e definire con metodo storico concreto
gli aspetti dei vari gruppi e momenti
stilistici dell’arte bizantina.
Si trattava di un appello a cui
gli studiosi italiani avrebbero risposto
con difficoltà, e ciò vale non solo nel
campo specifico delle opere in avorio
che abbiamo qui preso in considerazione.
Salvo poche voci più o meno isolate, per
molti anni ancora Bisanzio e la sua arte
sarebbero rimaste lontane dagli
interessi nazionali e nazionalistici
della critica italiana[92].
[1]
S.
Fraschetti,
Esodo
di
oggetti
d’arte,
in
“L’Arte”,
III,
1-4,
1900,
pp.
178-179.
[2]
La
tavoletta,
oggi dai
più
ritenuta
come
un’opera
risalente
alla
prima
metà del
VI
secolo
raffigurante
l’imperatore
Giustiniano,
era in
quegli
anni
oggetto
di un
dibattito
critico
piuttosto
acceso,
con
datazioni
talora
arretrate
fino
all’età
costantiniana.
All’interno
della
sua
nota,
Fraschetti
forniva
una
sintetica
descrizione
del
pezzo, e
interveniva
brevemente
nel
dibattito
sulla
cronologia
proponendo
una
datazione
al V
secolo,
in base
al
«carattere
[…]
assai
antico
delle
figure».
Per un
resoconto
sullo
stato
degli
studi
sull’Avorio
Barberini
all’inizio
del
‘900,
cfr. R.
Delbrueck,
Die
Consulardiptychen
und
verwandte
Denkmäler,
De
Gruyter,
Leipzig-Berlin
1929,
trad.
italiana
Dittici
consolari
tardoantichi,
a cura
di M.
Abbatepaolo,
Edipuglia,
Bari
2009,
pp.
303-311;
più
recentemente,
D.
Gaborit-Chopin,
in
Byzance,
l’art
byzantin
dans les
collections
publiques
françaises,
catalogo
della
mostra
(Parigi
1992-1993)
a cura
di J.
Durand,
Ed.
De La
Réunion
Des
Musées
Nationaux,
Paris
1993,
scheda 20,
pp. 63-66;
A.
Cutler,
Barberiniana
Notes on
the
Making,
Content,
and
Provenance
of
Louvre
OA
9063,
in
Tesserae:
Festschrift
für
Josef
Engemann,
in “Jahrbuch
für
Antike
und
Christentum”,
XVIII,
1993,
pp.
329-339.
In
particolare
sulla
storia
collezionistica
dell’opera,
cfr. S.
Moretti,
Roma
bizantina.
Opere
d’arte
dall’impero
di
Costantinopoli
nelle
collezioni
romane,
Edizioni
Nuova
Cultura,
Roma
2007,
pp.
63-68.
[3]
La breve
carriera
di
Stanislao
Fraschetti,
già
autore
di una
monografia
su
Bernini
(S.
Fraschetti,
Il
Bernini:
la sua
vita, la
sua
opera,
il suo
tempo,
prefazione
di A.
Venturi,
Hoepli
editore,
Milano
1900),
fu
precocemente
interrotta
dalla
morte
nel
1902, a
soli 27
anni.
Cfr. il
necrologio
di V.
Leonardi,
Stanislao
Fraschetti,
in
“L’Arte”,
V, 3-4,
pp.
135-136.
[4]
Sulle
problematiche
della
tutela
in
Italia
prima
della
legge
364 del
1909,
rimando
al
recente
studio
di F.
Papi,
Cultura
e tutela
nell’Italia
unita,
1865-1902,
Tau,
Assisi
2008,
con
bibliografia.
[5]
Su
“Archivio
Storico
dell’Arte”
e
“L’Arte”,
cfr.
soprattutto
G.
Agosti,
La
nascita
della
storia
dell’arte
in
Italia.
Adolfo
Venturi:
dal
museo
all’università
1880-1940,
Marsilio,
Venezia
1996,
pp.
75-79,
140-143,
213-216;
M.
Mimita
Lamberti,
Dal
carteggio
di
Adolfo e
Lionello
Venturi:
il
programma
della
nuova
serie de
«L’Arte»,
in
Adolfo
Venturi
e
l’insegnamento
della
storia
dell’arte,
Atti del
convegno,
(Roma
14-15
dicembre
1992), a
cura di
S.
Valeri,
Lithos,
Roma
1996,
pp.
60-66;
L’Archivio
Storico
dell’Arte
e le
origini
della
“Kunstwissenschaft”
in
Italia,
a cura
di G.C.
Sciolla,
F.
Varallo,
Edizioni
dell’Orso,
Alessandria
1999.
Più
recentemente
S.
Valeri,
Materiali
per una
storia
della
storiografia
dell’arte
in
Italia.
Adolfo
Venturi,
Scriptaweb,
Napoli
2004,
passim;
G.C.
Sciolla,
Il
ruolo
delle
riviste
di
Adolfo
Venturi,
in
Adolfo
Venturi
e la
Storia
dell’arte
oggi,
Atti del
Convegno,
Roma
25-28
ottobre
2006, a
cura di
M.
D’Onofrio,
Franco
Cosimo
Panini,
Modena
2008,
pp.
231-236;
F. Papi,
Adolfo
Venturi
fra
letterati
e
connaisseurs:
la
fondazione
dell’“Archivio
Storico
dell’Arte”
attraverso
le
lettere
edite e
inedite
di
Venturi,
Gnoli e
Cantalamessa,
in
Adolfo
Venturi
e la
Storia...,
pp.
237-244.
[6]
L’importanza
del
ruolo
delle
riviste
scientifiche
per la
diffusione
in
Italia
della
conoscenza
delle
arti
suntuarie
medievali
è stata
messa in
luce
solo
parzialmente.
Per
quanto
riguarda
le
ricerche
sulla
miniatura,
cfr. il
recente
contributo
di A.
Iacobini,
Adolfo
Venturi
pioniere
di una
disciplina
nuova:
la
Storia
della
miniatura,
in
Adolfo
Venturi
e la
Storia...,
pp.
269-286,
in
particolare
p. 282,
nota 3.
[7]
In
merito
alla
nascita
e lo
sviluppo
degli
studi di
storia
dell’arte
bizantina
in
Italia,
la
bibliografia
disponibile
offre
una
visione
ancora
parziale,
molto
spesso
incentrata
sulla
storia
della
cultura
tout-court,
piuttosto
che
sulla
storiografia
artistica
vera e
propria.
Tra i
contributi
più a
fuoco
sull’argomento,
cfr. in
particolare
A.
Muñoz,
Origini
e
svolgimento
dell’arte
cristiana
nei
primi
secoli
secondo
gli
studii
recenti,
in
“Rivista
storico-critica
delle
scienze
teologiche”,
III,
1907,
pp.
923-944,
e IV,
1908,
pp.
1-32,
ristampato
in Id.,
Studi
d’Arte
Medioevale,
W. Modes
Editore,
Roma
1909,
pp.
49-91;
Id.,
Gli
studi
sull’arte
bizantina
in
Italia
negli
ultimi
vent’anni,
in
“L’Europa
Orientale”,
IV, 6-7,
1924,
pp.
302-311;
Id.,
Studi di
arte
bizantina
in
Italia,
in
“Studi
bizantini”,
V, 1924,
pp.
210-219;
G.
Nicco,
Ravenna
e i
principi
compositivi
dell’Arte
Bizantina,
in
“L’Arte”,
XXVI,
1925,
pp.
195-216,
246-268.
Cfr. poi
S.
Bettini,
Gli
studi
sull’arte
bizantina,
in
“Annali
della
Scuola
Normale
Superiore
di Pisa.
Lettere
e
filosofia”,
s. 2,
XXIII,
1954,
pp.
13-32;
F.
Burgarella,
Tendenze
della
storiografia
italiana
tra
Ottocento
e
Novecento
nello
studio
dell’Italia
Bizantina,
in
“Mélanges
de
l’Ecole
française
de Rome,
moyen
âge-temps
modernes”,
CI,
1989,
pp.
13-41;
M.
Bernabò,
Ossessioni
bizantine
e
cultura
artistica
in
Italia,
Liguori
Editore,
Napoli
2003; M.
Andaloro,
Verso
l’Ellenismo:
a Roma,
a
Bisanzio,
nel
Novecento,
in
Medioevo:
il tempo
degli
antichi,
Atti del
IV
Convegno
Internazionale
di
Studi,
(Parma
24-28
settembre
2003), a
cura di
A.C.
Quintavalle,
Electa,
Milano
2006,
pp.
96-116;
S.
Moretti,
Roma
Bizantina…,
pp.
141-155.
[8]
Cfr.
nota
precedente.
Per
limitarsi
alle
pubblicazioni
di
carattere
generale,
ricordo
come a
partire
dalle
ricerche
degli
studiosi
russi
(soprattutto
N.
Kondakoff,
Istoriia
vizantiiskago
iskusstva
i
ikonografii
po
miniaturam’
griecheskikh’
rukopisei,
Ul’rikha
i
Shul’tse,
Odessa
1876,
tradotta
in
francese
come
Id.,
Histoire
de l’art
byzantin
considéré
principalement
dans les
miniatures,
Librairie
de
l’art,
Paris-London
1886-1891)
si
assistette
alla
comparsa
–
soprattutto
in
Francia
e in
Germania
– di un
buon
numero
di
contributi
dedicati
alle
arti di
Bisanzio.
Tra le
sintesi
principali,
si
vedano
soprattutto
C.
Bayet,
L’art
byzantin,
Quantin,
Paris
1883; G.
Millet,
L’art
byzantin,
in
Histoire
de l’art
depuis
les
premiers
temps
chrétiens
jusqu’à
nos
jours
publiée
sous la
direction
de
André
Michel,
I, Albin
Michel,
Paris
1905,
pp.
127-301;
C.
Diehl,
Manuel
d’art
byzantin,
I-II,
Piccard,
Paris
1910;
O.M.
Dalton,
Byzantine
Art and
Archaeology,
Clarendon
Press,
Oxford
1911; O.
Wulff,
Altchristliche
und
byzantinische
Kunst,
II, Die
byzantinische
Kunst
von der
ersten
Blüte
bis zu
ihrem
Ausgang,
Akademische
Verlagsgesellschaft
Athenaion,
Berlin-Neubabelsberg
1914. I
limiti
storico-geografici
della
coeva
produzione
italiana
si
manifestano
chiaramente
fin dal
titolo
dell’unica
pubblicazione
monografica
sul tema
pubblicata
in
quegli
anni nel
nostro
Paese,
ovvero
A.
Colasanti,
L’Arte
Bisantina
in
Italia,
Bestetti
e
Tumminelli
Editori
d’Arte,
Milano
1912,
per il
quale si
veda
infra.
Esempi
abbastanza
indicativi
si
trovano
anche
nella
produzione
di
stampo
più
divulgativo,
come per
esempio
il
fortunatissimo
volumetto
di A.
Melani,
L’arte
di
distinguere
gli
stili,
I,
Architettura-Scultura
applicata-Arte
decorativa,
Ulrico
Hoepli
Editore,
Milano
1918,
terza
edizione
Milano
1929,
pp.
263-306:
a p. 278
si
afferma
perentoriamente
che «Il
capitello
bisantino
per
eccellenza
è il
pulvinato
di San
Vitale
[…] gli
altri
sono
adesioni
allo
stile
bisantino».
[9]
Un’eccezione
sembra
essere
costituita
dalle
ricerche
di
Antonio
Muñoz,
per il
quale
vedi
infra,
e note
59-73.
[10]
Rimando
all’esaustivo
contributo
di M. Di
Macco,
Il
museo
negli
studi e
nell’attività
di
Adolfo
Venturi
(dal
1887 al
1901),
in
Adolfo
Venturi
e la
Storia…,
pp.
219-230.
[11]
Non
vanno
tuttavia
trascurati
almeno
due
importanti
classici
comparsi
in
Italia
nel
XVIII e
XIX
secolo,
ovvero
A.F.
Gori,
Thesaurus
veterum
diptychorum
consularium
et
ecclesiasticorum…,
I-III,
Typographia
Caietani
Albizzini,
Firenze
1759;
J.B.
Seroux
d’Agincourt,
Histoire
de l’Art
par les
monuments,
depuis
sa
décadence
au IVe
siècle
jusq’à
son
renouvellement
au XVIe,
I-VI,
Paris
1823,
traduzione
italiana
Id.,
Storia
dell’arte
dimostrata
coi
monumenti
dalla
sua
decadenza
nel IV
secolo
fino al
suo
risorgimento
nel XVI,
I-VIII,
Frat.
Giachetti,
Prato
1826.
[12]
Rispettivamente,
J.
Westwood,
A
Descriptive
Catalogue
of the
Fictile
Ivories
in the
South
Kensington
Museum,
George
E. Eyre
and
William
Spottiswoode,
London
1876; G.
Stuhlfauth,
Die
altchristliche
Elfenbeinplastik,
J.C.B.
Mohr,
Freiburg-Leipzig
1896;
E.
Molinier,
Catalogue
des
ivoires,
Librairies-Imprimeries
Réunies,
Paris
1896.
[13]
E.
Molinier,
Histoire
générale
des arts
appliqués
à
l’industrie
du Ve à
la fin
du VIIIe
siécle,
I,
Ivoires,
Paris
1896,
pp.
63-116.
Un
importante
precedente
all’opera
di
Molinier
è J.
Labarte,
Histoire
des arts
industriels
au Moyen
Age et à
l’epoque
de la
Renaissance,
I, Paris
1864,
pp.
210-216.
In
merito
alla
graduale
rivalutazione
delle
cosiddette
“arti
minori”
d’età
medievale
nel
corso
della
seconda
metà
dell’800,
si
vedano i
contributi
di
sintesi
di L.
Castelfranchi
Vegas,
Le
arti
minori
nel
Medioevo,
Jaca
Book,
Milano
1994, in
particolare
pp.
9-25;
Ead.,
Il ruolo
delle
arti
minori
nel
Medioevo,
in L.
Castelfranchi
Vegas,
C.
Piglione,
Arti
minori,
Jaca
Book,
Milano
2000,
pp.
13-36,
in
particolare
pp.
15-18.
[14]
Rimando
per
questo a
G.
Agosti,
La
nascita
della
storia
dell’arte…,
pp.
72-75, e
ai vari
contributi
in
Adolfo
Venturi
e la
Storia…,
pp.
125-132
e
165-208.
[15]
Sulla
figura
di
Tikkanen,
e sui
rapporti
con
Adolfo
Venturi,
si
vedano i
recenti
J.
Vakkari,
Adolfo
Venturi,
Johan
Jakob
Tikkanen
e i
paesi
scandinavi,
in
Adolfo
Venturi
e la
Storia…,
pp.
179-186;
G.C.
Sciolla,
J.J.
Tikkanen
and the
Origin
of
“Kunstwissenschaft”
in
Italy,
in
Towards
a
Science
of Art
History:
J. J.
Tikkanen
and Art
Historical
Scholarship
in
Europe,
Acts of
the
International
Conference,
(Helsinki
7-8
december
2008),
edited
by C.
Hoffman,
J.
Vakkari,
Taidehistorian
Seura,
Helsinki
2009,
pp.
95-102.
[16]
J.J.
Tikkanen,
Le
rappresentazioni
della
Genesi
in S.
Marco a
Venezia
e loro
relazione
con la
Bibbia
Cottoniana,
in
“Archivio
Storico
dell’Arte”,
I, 1888,
pp.
212-223,
257-267,
348-363.
Versione
in
tedesco
Id.,
Die
Genesismosaiken
von S.
Marco in
Venedig
und ihr
Verhältniss
zu den
Miniaturen
der
Cottonbibel
nebst
einer
Untersuchung
über den
Ursprung
der
mittelalterlichen
Genesisdarstellung
besonders
in der
byzantinischen
und
italienischen
Kunst,
Druckerei
der
Finnischen
Litteratur-Ges,
Helsingfors
1889.
[17]
J.J.
Tikkanen,
L’arte
cristiana
antica e
la
scienza
moderna,
in
“Archivio
Storico
dell’Arte”,
IV,
1891,
pp.
376-384.
Il
volume
recensito
è J.
Strzygowski,
Das
Etschmiadzin-Evangeliar:
beiträge
zur
geschichte
der
armenischen,
ravennatischen
und
syro-ägyptischen
Kunst,
Druck
und
Verlag,
Wien
1891. La
bibliografia
sulla
figura
di
Strzygowski
è
estremamente
ampia.
Per la
sua
produzione
tra 1900
e 1901,
cfr. J.
Elsner,
The
Birth of
the Late
Antiquity,
in “Art
History”,
XXV, 3,
2002,
pp.
358-379.
Sull’accoglienza
delle
teorie
di
Strzygowski
in
Italia,
cfr.
l’interpretazione
di M.
Bernabò,
Ossessioni
bizantine…,
pp.
79-82,
101-102.
[18]
J.J.
Tikkanen,
L’arte
cristiana
antica…,
p. 376.
[19]
Ibid.,
pp.
376-377.
[20]
Ibid.,
p. 382.
[21]
Sulla
questione
della
differenza
effettiva
tra
l’arte
bizantina
e quella
“cristiana”
si è
bene
espressa
S.
Moretti,
Roma
bizantina…,
pp.
21-25 e
note
11-12,
in
merito
ai
problemi
della
storia
del
collezionismo.
Da un
punto di
vista
più
genericamente
storiografico,
e più
specificatamente
nel
campo
della
storia
degli
studi
delle
opere
eburnee,
ricercare
una
netta
distinzione
tra
pezzo
“cristiano”
e pezzo
“bizantino”
è
probabilmente
poco
proficuo:
in
Italia
tale
distinzione,
infatti,
non
risulta
fosse
ancora
avvertita
con
chiarezza
dagli
studiosi,
soprattutto
in un
ambito
di
ricerca
nel
quale la
provenienza
e la
datazione
di gran
parte
dei
manufatti
erano
ancora
particolarmente
dibattute
(Oriente
o
Occidente?
Età
paleocristiana
o
mediobizantina?).
Pertanto,
in
questa
sede si
è
preferito
riportare
per
quanto
possibile
le
opinioni
critiche
espresse
in
quegli
anni, e
dare
conto di
volta in
volta
degli
studi
più
aggiornati
relativi
ai pezzi
descritti.
[22]
U.
Rossi,
La
collezione
Carrand
nel
Museo
Nazionale
di
Firenze,
in
“Archivio
Storico
dell’Arte”,
II, 1,
1889,
pp.
10-23,
in
particolare
pp.
10-13.
Sulla
donazione
Carrand,
G. Gaeta
Bertelà,
La
donazione
Carrand
al Museo
Nazionale
del
Bargello,
in
Arti del
medio
evo e
del
Rinascimento:
omaggio
ai
Carrand,
1889-1989,
catalogo
della
mostra
(Firenze
1989), a
cura di
G. Gaeta
Bertalà,
B.
Paolozzi
Strozzi,
S.P.E.S.,
Firenze
1989,
pp.
1-38.
[23]
U.
Rossi,
La
collezione
Carrand…,
p. 11;
sull’opera,
si
vedano
R.
Delbrueck,
Dittici
consolari…,
pp.
319-324;
D.
Angelova,
The
Ivories
of
Ariadne
and
Ideas
about
Female
Imperial
Authority
in Rome
and
Early
Byzantium,
“Gesta”,
XLIII,
2004,
pp.
1-15.
[24]
X.
Barbier
de
Montault,
Avorio
bizantino
della
fine
dell’XI
secolo,
nel
Museo
cristiano
del
Vaticano,
in
“Archivio
Storico
dell’Arte”,
VI,
1893,
pp.
304-307.
L’autore
presentava
una
lista
complessiva
di dieci
pezzi,
ripubblicati
pochi
anni
dopo nel
catalogo
ufficiale
di R.
Kanzler,
Gli
avori
del
Museo
Profano
e Sacro
della
Biblioteca
Vaticana,
Officina
Danesi,
Roma
1903.
[25]
Si veda
S.
Moretti,
Roma
bizantina…,
pp.
100-101
e nota
388, con
rimandi
bibliografici.
Pochi
anni
dopo la
segnalazione
di
Barbier
de
Montault,
lo
studio
del
pezzo fu
affrontato
da R.
Kanzler,
Gli
avori
del
Museo
Profano
e Sacro…,
p. 24,
tavola
VI, 4;
A.
Muñoz,
L’art
byzantin
a
l’exposition
de
Grottaferrata,
Danesi,
Roma
1906, p.
113,
figura
76.
[26]
X.
Barbier
de
Montault,
Avorio
bizantino…,
p. 304.
[27]
La
rubrica
nasceva
proprio
con lo
scopo di
incoraggiare
lo
scambio
di
opinioni
tra
studiosi
di
diversa
estrazione
e
nazionalità:
«Seguendo
l’esempio
di
riviste
scientifiche
nazionali
e
estere,
apriamo
questa
rubrica
che può
riuscire
di
grande
aiuto
agli
studi.
Molto
spesso,
per
mancanza
di
scambio
d’idee
tra gli
studiosi,
preziosi
frutti
di
ricerche
rimangono
ignorati
e
sterili.
Noi
diamo
modo
quindi
di far
comunicare
i nostri
lettori
fra
loro».
Vedi
“L’Arte”,
I, 1,
1898, p.
87.
Molte
delle
domande
e delle
risposte
pubblicate
nella
rubrica
– che
durò di
fatto
per sole
due
annualità
–
riguardarono
opere
d’arte
eburnee,
in
particolare
dittici
consolari
o
imperiali.
Vedi
“L’Arte”,
I, 1898,
pp. 88,
216-217,
220,
365-367,
500,
504;
“L’Arte”,
II,
1899, p.
123.
[28] F.
Hermanin,
Alcuni
avori
della
collezione
del
Conte
Stroganoff
a Roma,
in
“L’Arte”,
I, 1898,
pp.
1-11.
[29]
Sul
nucleo
di opere
bizantine
presente
nella
collezione
del
conte
Stroganoff
rimando
ai
puntuali
studi di
S.
Moretti,
Il
collezionismo
d‘arte
bizantina
tra Otto
e
Novecento:
il caso
Stroganoff
, in
Bisanzio,
la
Grecia e
l‘Italia,
Atti
della
giornata
di studi
sulla
civiltà
artistica
bizantina
in onore
di Mara
Bonfioli,
(Roma 22
novembre
2002), a
cura di
A.
Iacobini,
Foroellenico,
Roma
2003, p.
89-102;
Ead.,
Gregorio
Stroganoff:
il
collezionismo
russo e
l‘arte
bizantina
a Roma
tra il
XIX e il
XX
secolo,
in Il
collezionismo
in
Russia:
da
Pietro I
all‘Unione
Sovietica,
Atti del
convegno,
Napoli
2-4
febbraio
2006, a
cura di
L.
Tonini,
Artistic
&
Publishing
Company,
Formia
2009,
pp.
115-129;
S.
Moretti,
Sulle
tracce
delle
opere
d’arte
bizantina
e
medievale
della
collezione
di
Grigorij
Sergeevic
Stroganoff,
in La
Russie
et
l’Occident.
Relations
intellectuelles
et
artistiques
au temps
des
révolutions
russes,
Actes du
colloque,
(Lausanne
20-21
mars
2009), a
cura di
I.
Foletti,
Viella,
Roma
2010,
pp.
97-121.
[30]
G.
Wilpert,
Un
capitolo
di
storia
del
vestiario.
Tre
studi
sul
vestiario
dei
tempi
postcostantiniani,
in
“L’Arte”,
I, 1898,
pp.
89-120;
II,
1899,
pp.
1-50.
[31]
Su Josef
Wilpert,
si
vedano
R.
Sörries,
Josef
Wilpert.
Ein
Leben im
Dienste
der
christlichen
Archäologie
1857-1944,
Bergstadtverlag
Wilhelm
Gottlieb
Korn,
Würzburg
1998;
Giuseppe
Wilpert
archeologo
cristiano,
Atti del
Convegno,
(Roma
16-19
maggio
2007), a
cura di
S. Heid,
PIAC,
Città
del
Vaticano
2009.
[32]
Comparivano
tuttavia
anche
alcune
opere di
X-XI
secolo,
come il
trittico
eburneo
del
Museo di
Palazzo
Venezia
(all’epoca
ancora
conservato
nella
Biblioteca
Casanatense)
e le
miniature
del
Menologio
di
Basilio
II: vedi
G.
Wilpert,
Un
capitolo
di
storia
del
vestiario…,
pp. 38,
45. Per
il
trittico,
cfr.
infra,
nota 71.
Per il
Menologio,
cfr.
El
«Menologio
de
Basilio
II»,
Città
del
Vaticano,
Biblioteca
Apostolica
Vaticana,
Vat. gr.
1613.
Libro de
estudios
con
ocasión
de la
edición
facsímil,
dirigido
por F.
D’Aiuto,
edición
española
a cargo
de I.
Pérez
Martín,
Città
del
Vaticano-Atenas-Madrid
2008.
[33]
G.
Wilpert,
Un
capitolo
di
storia
del
vestiario…,
p. 121.
Le pose
dei
bambini
richiamano
in
particolar
modo
quelle
dei
dittici
della
prima
metà del
VI
secolo,
come
quelli
di
Anastasio
o
Aerobindo.
Vedi per
esempio
R.
Delbrueck,
Dittici
consolari…,
pp.
224-225,
tavola
19
(dittico
di
Anastasio
presso
la
Biblioteca
Capitolare
di
Verona);
E.
Ravegnani,
Consoli
e
dittici
consolari
nella
tarda
antichità,
Aracne,
Roma
2006,
pp.
138-139.
[34]
Vedi
supra,
nota 25;
E.
Mauceri,
Cofanetto
bizantino
della
Cappella
Palatina
di
Palermo,
in
“L’Arte”,
V, 1902,
pp.
45-46;
E.
Modigliani,
Una
tavoletta
della
cattedra
di
Massimiano,
in
“L’Arte”,
VI,
1903, p.
224. Con
quest’ultimo
intervento
si
annuncia
la
volontà
del
conte
Stroganoff
di
restituire
alla
Cattedra
di
Massimiano
una
tavoletta
ad essa
pertinente,
conservata
nella
sua
collezione
romana.
Cfr. S.
Moretti,
Roma
bizantina…,
p. 135.
[35]
A.
Venturi,
Di
una
nuova
cassettina
civile
bizantina,
in
“L’Arte”,
I, 1898,
p. 212.
La
cassettina
è oggi
custodita
al Museo
del
Louvre.
Nella
breve
segnalazione,
Venturi
non
dichiarava
con
esattezza
la sede
di
collocazione
dell’opera,
limitandosi
a
parlare
di «casa
privata
romana».
Si veda
S.
Moretti,
Roma
bizantina…,
pp.
105-106,
con
cenni
bibliografici.
[36]
“L’Arte”,
I, 1898,
pp. 86,
214.
[37] H.
Graeven,
Frühchristliche
und
mitteralterliche
Elfenbeinwerke
in
photographischer
Nachbildung
Nr. 1-80
(aus
Sammlungen
in
Italien),
Istituto
Archeologico
Germanico,
Roma
1900.
Dell’abbondante
produzione
dello
studioso
dedicata
agli
avori,
si
vedano
almeno
Id.,
Entstellte
Consulardiptychen,
in
“Mittheilungen
des
kaiserlich
deutschen
archaeologischen
Instituts”,
VII,
1892,
pp.
204-221;
Id.,
Antike
Vorlagen
byzantinischer
Elfenbeinreliefs,
in
“Jahrbuch
der
Preußischen
Kunstsammlungen”,
XVIII,
1897,
pp.
3-23.
[38]
Basti
ricordare
che solo
pochi
anni
prima
Molinier
si
scusava
con i
lettori
per non
aver
potuto
esaminare
lo stile
di molti
pezzi da
lui
pubblicati,
a causa
della
scarsissima
qualità
delle
incisioni
disponibili.
Si veda
E.
Molinier,
Histoire
générale
des arts
appliqués…,
I, 1896,
pp.
74-76
(relativamente
all’Avorio
di
Treviri).
In
generale
sulla
questione
dell’introduzione
della
tecnica
fotografica
negli
studi di
storia
dell’arte,
si veda
l’ampia
bibliografia
in R.
Cassanelli,
Fotografia,
storiografia
artistica,
restauro.
Qualche
indizio
di
percorsi
incrociati
a Milano
intorno
al 1850,
in
Fare
storia
dell’arte:
studi
offerti
a Liana
Castelfranchi,
a cura
di M.G.
Balzarini,
R.
Cassanelli,
Jaca
Book,
Milano
2000,
pp.
227-235,
in
particolare
pp.
227-228,
nota 1.
Più
nello
specifico,
S.
Valeri,
Fotografia
e
critica
d’arte
nell’Ottocento:
Domenico
Gnoli,
Adolfo
Venturi
e
l’Archivio
Storico
dell’Arte,
in
Gioacchino
di Marzo
e la
critica
d’arte
nell’Ottocento
in
Italia,
Atti del
convegno,
(Palermo
15-17
aprile
2003), a
cura di
S. La
Barbera,
Officine
Tipografiche
Aiello e
Provenzano,
Bagheria
2004,
pp.
292-300.
[39]
H.
Graeven,
Adamo
ed Eva
sui
cofanetti
d’avorio
bizantini,
in
“L’Arte”,
II,
1899,
pp.
297-315.
[40]
Si veda
anche la
notizia
di S.
Fraschetti,
L’arte
al
Congresso
degli
Orientalisti,
in
“L’Arte”,
II,
1899,
pp.
414-415.
[41]
H.
Graeven,
Adamo
ed Eva…,
p. 299.
[42]
A.
Venturi,
Storia
dell’arte
italiana,
I-XI,
Ulrico
Hoepli
Editore,
Milano
1901-1940;
I –
Dai
primordi
dell’arte
cristiana
ai tempi
di
Giustiniano,
Milano
1901; II
–
Dall’arte
barbarica
alla
romanica,
Milano
1902.
Cfr. da
ultimo
S.
Valeri,
I
volumi
della
Storia
dell’Arte
Italiana,
in
Adolfo
Venturi
e la
Storia…,
pp.
37-42.
[43]
Cfr. M.
Bernabò,
Ossessioni
bizantine…,
pp.
66-67.
[44]
I due
monogrammi
furono
conservati,
con
qualche
piccola
modifica,
anche
nel
frontespizio
del
secondo
volume,
un
pastiche
di
motivi
decorativi
ispirati
a stoffe
e codici
miniati
altomedievali.
In
merito
all’intervento
di
Giuseppe
Cellini
nei
lavori
di
Adolfo
Venturi
e dei
suoi
allievi,
cfr.
C.M.
Camagni,
Il
contributo
di
Giuseppe
Cellini
alla
grafica
d’arte,
in
Adolfo
Venturi
e
l’insegnamento…,
pp.
90-95;
Ead.,
Le
copertine
di
Giuseppe
Cellini
per le
opere di
Adolfo
Venturi,
in
Adolfo
Venturi
e
l’insegnamento
della
storia
dell’arte,
catalogo
della
mostra
(Roma
1992-1993)
a cura
di S.
Valeri,
Tip. F.
Albanese,
Roma
1992, p.
130.
[45]
Raffaele
Garrucci
aveva
infatti
inserito
la
trattazione
degli
avori
all’interno
dell’ultimo
volume
della
sua
Storia
dell’arte
cristiana,
dedicato
genericamente
alle
«Sculture
non
cimiteriali».
Cfr R.
Garrucci,
Storia
della
arte
cristiana
nei
primi
otto
secoli
della
chiesa,
VI,
Guasti,
Prato
1880,
passim.
[46]
Sui
cofanetti
bizantini,
rimando
agli
studi
generali
di
A.
Goldschmidt,
K.
Weitzmann,
Die
byzantinische
Elfenbeinskulpturen
des
X-XIII
Jahrhunderts,
I,
Kästen,
Bruno
Cassirer,
Berlin
1930;
A.
Cutler,
On
Byzantine
Boxes,
in “The
Journal
of the
Walters
Art
Gallery”,
XLII-XLIII,
1984-1985,
pp.
32-47;
Id.,
Mistaken
Antiquity:
Through
on Some
Recent
Commentary
on the
Rosetta
Caskets,
in
Aetos:
Studies
in
Honour
of Cyril
Mango,
edited
by I.
Ševčenko,
I.
Hutter,
B.G.
Teubner,
Stuttgart-Leipzig
1998,
pp.
46-54.
[47]
A.
Venturi,
Storia
dell’arte
italiana…,
II, pp.
512-530,
in
particolare
p. 512,
nota 1
(«Bibliografia
sulle
cassettine
civili
d’avorio»).
[48]
Sul
cofanetto
di
Veroli,
si
vedano
in
generale
J.
Beckwith,
The
Veroli
Casket,
HMSO,
London
1962; P.
Williamson,
Medieval
Ivory
Carvings.
Early
Christian
to
Romanesque,
V&A
Publishing,
London
2010,
pp.
76-83,
numero
15 (con
bibliografia).
[49]
Tra le
molte
penne a
favore
di
Venturi,
spicca
quella
di E.
Bertaux,
L’art
italien
au Moyen
Âge,
in
“Journal
des
Savants”,
n.s.,
III,
1904,
pp.
152-162,
recensione
nella
quale
vengono
vagliati
i primi
tre
volumi
dell’opera
dello
studioso
italiano:
«Quelque
confusion
est
inévitable
dans un
précis
d’histoire
qui ne
veut
sacrifier
aucun
détail
digne
d’intérét».
[50]
L.
Testi,
Osservazioni
critiche
sulla
storia
dell’arte.
A
proposito
di
un’opera
recente,
in
“Archivio
Storico
Italiano”
s.V,
XXIX,
1902,
pp.
12-44.
Le
citazioni
sono
rispettivamente
dalle
pp. 18 e
41. Cfr.
anche G.
Agosti,
La
nascita
della
storia
dell’arte…,
pp.
155-157.
[51]
A.
Melani,
lettera
pubblicata
su
“Napoli
Nobilissima”,
X, 3,
1901,
pp.
45-48;
interessante
la
piccata
risposta
di A.
Venturi,
lettera
pubblicata
su
“Napoli
Nobilissima”,
X, 4,
1901,
pp.
61-64,
in
particolare
p. 61,
ove lo
studioso
difende
il
proprio
metodo
di
lavoro:
«Nonostante
che
sfilino
sotto
gli
occhi
del
lettore
tutti i
più
moderni
e
accreditati
illustratori
di
avori,
si vuol
far
credere
che io
abbia
attinto
le mie
notizie
dal
Lacroix,
che non
cito
neppure.
Anche in
questi
appunti,
di niun
conto,
si rende
chiara
la
ricerca
fatta a
caso,
senza
ragione,
senza
fondamento,
per
screditarmi».
Cfr. poi
A.
Melani,
lettera
pubblicata
su
“Napoli
Nobilissima”,
X, 5,
1901, p.
80; Don
Ferrante,
in
“Napoli
Nobilissima”,
X, 6,
1901, p.
96.
[52]
Si veda
per
esempio
C.
Ricci,
Corriere
di
Romagna,
in
“L’Arte”,
I, pp.
186-188,
intervento
dedicato
ai
restauri
degli
edifici
di
Ravenna,
e
sottotitolato
significativamente
«dalla
città
bizantina».
La
Cattedra
di
Massimiano
rappresentava
uno
degli
argomenti
di punta
per
Corrado
Ricci,
che
dedicò
ad essa
molte
pagine
della
sua
ampia
produzione
scientifica.
Cfr. per
esempio
Avori
di
Ravenna,
in
“L’Arte
Italiana
Decorativa
e
Industriale”,
VII, 5,
1898,
pp.
42-43.
Su
Ricci,
In
memoria
di
Corrado
Ricci.
Un
saggio
inedito,
nota
delle
pubblicazioni,
scritti
di amici
e
collaboratori,
Arti
Grafiche
F.lli
Palombi,
Roma
1935, in
particolare
pp.
15-62
(bibliografia);
Corrado
Ricci:
storico
dell’arte
tra
esperienza
e
progetto,
Atti del
Congresso,
(Ravenna
27-28
settembre
2001), a
cura di
A.
Emiliani,
D.
Domini,
Longo,
Ravenna
2004.
[53]
Si
vedano
gli
editoriali
e le
lettere
pubblicate
su
“Rassegna
d’Arte”
I, 1,
1901, p.
16; I,
5, 1901,
p. 80;
I, 12,
1901, p.
192; II,
4, 1902,
p. 63;
II, 5,
1902, p.
76.
Sulla
“Rassegna
d’Arte”,
rimando
ai
recenti
A.
Rovetta,
Gli
esordi
della
“Rassegna
d’arte”,
Milano
1901-1907,
in
Riviste
d’arte
fra
Ottocento
ed età
contemporanea:
forme,
modelli
e
funzioni,
Atti del
Convegno,
(Torino
3-5
ottobre
2002), a
cura di
G.C.
Sciolla,
Skira,
Milano
2003,
pp.
101-122;
G.C.
Sciolla,
Corrado
Ricci
dalla
“Rassegna
d’arte”
alla
“Rivista
d’arte”,
in
Corrado
Ricci…,
pp.
165-179.
[54]
C.
Ricci,
lettera
pubblicata
su
“Rassegna
d’Arte”,
II, 4,
1902, p.
63.
[55]
Si veda
la
risposta
di A.
Venturi,
Per
fatto
personale,
in
“L’Arte”,
V, 1902,
pp.
32-33.
[56]
Il
successivo
intervento
di Ricci
su
“L’Arte”,
ancora
diretta
da
Adolfo
Venturi,
risale
infatti
a ben
dieci
anni
dopo.
Cfr. C.
Ricci,
Per
la
storia
della
pittura
forlivese,
in
“L’Arte”,
XIV,
1911,
pp.
81-92.
[57]
Sul
rapporto
tra
Adolfo
Venturi
e il
mondo
accademico,
e
sull’istituzione
della
Scuola
di
Perfezionamento,
si
vedano
G.
Agosti,
La
nascita
della
storia
dell’arte…,
pp.
161-186;
M.
Moretti,
Adolfo
Venturi
e
l’università
italiana
fra
Ottocento
e
Novecento:
dal
carteggio
presso
la
Scuola
Normale
Superiore
di Pisa,
in
Adolfo
Venturi
e la
Storia…,
pp.
83-89.
[58]
Soprattutto
P.
Toesca,
Cimeli
bizantini:
il
calamaio
di un
calligrafo,
in
“L’Arte”,
IX,
1906,
pp.
35-44.
Sugli
aspetti
“filobizantini”
del
pensiero
di
Toesca,
si veda
la
ricostruzione
di M.
Bernabò,
Ossessioni
bizantine…,
pp.
117-130.
Si
vedano
anche G.
Agosti,
La
nascita
della
storia
dell’arte…,
pp.
164-166;
M.
D’Onofrio,
Gli
allievi
medievisti,
in
Adolfo
Venturi
e la
Storia…,
pp.
93-99,
in
particolare
pp. 94,
98 nota
7.
[59]
A.
Muñoz,
Mobilio
italiano
del
Rinascimento,
in
“L’Arte”,
VI,
1903,
pp.
21-27.
Il primo
contributo
di
argomento
“orientalista”
è Id.,
Un
affresco
cimiteriale
scoperto
a
Tripoli,
ibid.,
pp.
96-98.
In
generale
su
Muñoz,
si
vedano
gli
interventi
in sua
memoria
su
“L’Urbe”,
XXIII,
2-3,
1960; C.
Bellanca,
Antonio
Muñoz,
La
politica
di
tutela
dei
monumenti
di Roma
durante
il
Governatorato,
L’Erma
di
Bretschneider,
Roma
2003.
[60]
Una
lista
dei suoi
scritti
su tali
argomenti
è
pubblicata
in A.
Muñoz,
Studi
d’arte
bizantina…,
p. 217.
[61]
Un
resoconto
“scientifico”
del suo
soggiorno
a
Istanbul
nel 1905
è A.
Muñoz,
Notizie
da
Costantinopoli,
in
“L’Arte”,
VI, 1,
pp.
60-62.
Si veda
anche C.
Bellanca,
Antonio
Muñoz…,
p. 397.
[62]
La
figura
di Muñoz
come
studioso
di arte
bizantina
è stata
delineata
in modo
ancora
molto
incompleto.
La sua
capacità
di
“assorbire”
i più
aggiornati
risultati
della
bibliografia
estera e
di
rielaborarli
nel
contesto
culturale
italiano
è bene
esemplificato
dal poco
noto A.
Muñoz,
Origini
e
svolgimento….
In
questo
contributo,
l’autore
“traduce”
e
“riassume”
importanti
saggi e
contributi
tedeschi,
austriaci
e russi
incentrati
sul tema
dell’origine
dell’arte
bizantina,
fornendo
un vero
e
proprio
“compendio”
di
risultati
scientifici
atti ad
incoraggiare
nuove
ricerche
sull’argomento.
Ancora
nel
1925,
quando
Muñoz
aveva
già da
qualche
anno
abbandonato
l’approccio
“orientalista”
al
Medioevo,
Giusta
Nicco lo
ricordava
principalmente
come uno
storico
dell’arte
bizantina:
G.
Nicco,
Ravenna…,
p. 201.
In tempi
recenti,
si
vedano:
G.
Leardi,
Una
mostra
d’arte
bizantina
a
Grottaferrata,
in
“Studi
Romani”,
L, 1-2,
2002,
pp.
311-333,
in
particolare
p. 329,
nota 70
(si nega
l’esistenza
di un
filone
bizantinistico
nei suoi
studi);
M.
Bernabò,
Ossessioni
bizantine…,
p. 65,
definisce
come
«eclettico»
il suo
metodo
di
studio;
molto
poco
spazio
alla
produzione
giovanile
dello
studioso
è
riservato
in C.
Bellanca,
Antonio
Muñoz….
In S.
Moretti,
Roma
bizantina…,
pp.
152-153,
e Ead.,
Gregorio
Stroganoff…,
si mette
correttamente
in luce
l’interesse
di Muñoz
per i
temi
bizantini;
da
ultimo,
si veda
l’intervento
di A.
Iacobini,
La
Sapienza
bizantina:
il
contributo
della
storia
dell’arte
(1896-1970),
in
Sapienza
Bizantina.
Un
secolo
di
ricerche
sulla
civiltà
di
Bisanzio
all’Università
di Roma,
Atti
della
giornata
di
studi,
(Roma 10
ottobre
2008), a
cura di
A.
Acconcia
Longo,
G.
Cavallo,
A.
Guiglia,
A.
Iacobini,
in corso
di
stampa.
[63]
Vedi
supra,
nota 29.
[64]
R.
Kanzler,
Gli
avori
del
Museo
Profano
e Sacro….
La
pubblicazione,
originariamente
affidata
a
Stevenson,
era
estremamente
lussuosa,
e
accompagnata
da
tavole
indipendenti
con
splendide
fotoincisioni.
L’opera
incontrò
tiepida
accoglienza
sulle
pagine
de
“L’Arte”,
come si
legge in
A.
Rossi,
Recensione
a R.
Kanzler,
Gli
avori…,
in
“L’Arte”,
VII,
3-5, pp.
199-204:
si
riteneva
il
volume
di
Kanzler
esteticamente
pregevole,
ma
accompagnato
da testi
non
sufficientemente
approfonditi
da un
punto di
vista
scientifico.
Un nuovo
catalogo
aggiornato
venne
predisposto
trent’anni
dopo da
C.R.
Morey,
Gli
oggetti
di
avorio e
di osso
del
Museo
Sacro
Vaticano,
Biblioteca
Apostolica
Vaticana,
Città
del
Vaticano
1936.
[65]
Inaugurata
il 15
marzo e
organizzata
in
occasione
del nono
centenario
della
fondazione
dell’abbazia,
l’esposizione
rappresentò
un’iniziativa
culturale
senza
precedenti
in
Italia.
Se ne
trova
notizia
su
“L’Arte”
già da
gennaio
1905,
con
ripetuti
annunci
che
richiedevano
la
collaborazione
degli
studiosi
e dei
collezionisti
per
l’invio
di
contributi
scientifici
e opere
d’arte.
Cfr.
Cronaca,
in
“L’Arte”,
VIII,
1-2,
1905,
pp.
62-63;
ibid.,
3-4, pp.
140-141;
IX,
1906, p.
310.
Sulla
medesima
rivista,
compaiono
anche i
contributi
di A.
Muñoz,
L’arte
bizantina
all’esposizione
di
Grottaferrata,
in
“L’Arte”,
VIII,
5-6,
1905,
pp.
161-170,
e A.
Venturi,
Dittico
attribuito
a
Cimabue
nell’esposizione
di
Grottaferrata,
ibid.,
pp.
199-201.
In
generale
sulla
mostra e
sulla
sua
ricezione,
cfr. il
recente
studio
di G.
Leardi,
Una
mostra
d’arte
bizantina….
Cfr.
anche S.
Moretti,
Roma
bizantina…,
pp. 137,
note
572-573,
pp.
152-153,
note
636-637.
[66]
A. Muñoz,
L’art
byzantin…,
1906.
Nel
volume,
di
formato
maneggevole
e
accompagnato
da buone
riproduzioni,
non
tutte le
opere
esposte
furono
illustrate.
Il
catalogo
era
stato
preceduto
da una
versione
più
sintetica,
ovvero
Esposizione
d’arte
italo-bizantina
nella
Badia
greca di
Grottaferrata,
Tipografia
dell’Unione
Cooperativa
Editrice,
Roma
1905,
con
introduzione
di Muñoz.
Si noti
come
nell’edizione
definitiva
in
francese,
destinata
ad un
pubblico
internazionale,
il
prefisso
“italo-”
sia
stato
soppresso.
[67]
A.
Muñoz,
L’art
byzantin…,
pp.
97-124.
[68]
Per
esempio
nell’identificazione
del
soggetto
del
rilievo
illustrato
in A.
Muñoz,
L’art
byzantin…,
p. 113,
figura
75,
correttamente
individuato
come un’Apparizione
alle
Donne,
e non
con una
Trasfigurazione
come in
R.
Kanzler,
Gli
avori…,
p. 24.
[69]
A. Muñoz,
L’art
byzantin…,
pp.
103-113,
figure
65,
70-71.
[70]
Rispettivamente
Ch. De
Linas,
Le
tryptique
byzantin
de la
collection
Harbaville
à Arras,
in
“Revue
de l’Art
Chrétien”,
XXXV,
1885,
pp.
13-40;
Id.,
Le
tryptiques
byzantins
conservés
au Musée
chrétien
du
Vatican
et à la
bibliotheque
du
Convent
de la
Minerve
à Rome,
in
“Revue
de l’Art
Chrétien”,
XXXVI,
1886,
pp.
157-169;
E.
Molinier,
Catalogue
des
ivoires…,
pp.
31-37,
in
particolare
p. 37;
E.
Molinier,
Histoire
générale
des arts
appliqués…,
I,
pp.
109-110,
115-116.
Per la
storia
critica
più
recente,
S.
Moretti,
Roma
bizantina…,
pp.
196-203,
in
particolare
pp.
199-200,
nota 757
(bibliografia
sui
trittici
del
Vaticano
e del
Louvre);
Gesù:
il
corpo,
il volto
nell’arte,
catalogo
della
mostra
(Venaria
Reale
2010), a
cura di
T.
Verdon,
Cinisello
Balsamo
2010,
pp.
283-285,
numero
6.3
(trittico
del
Vaticano,
scheda
di G.
Cornini);
Byzantium
330-1453,
catalogo
della
mostra
(London
2008-2009),
a cura
di R.
Cormack,
M.
Vassilaki,
London
2008,
pp.
400-401,
numero
77
(trittico
del
Louvre,
scheda
di J.
Durand).
[71]
A. Muñoz,
L’art
byzantin…,
pp.
112-113.
[72]
Su
“L’Arte”
del 1910
comparve
per
l’occasione
un
necrologio
particolarmente
significativo:
«[…]
raccolse
nella
sua
dimora
esempi
artistici
di ogni
tempo,
rallegrandosi
di un
cimelio
cristiano
dei
bassi
tempi,
come del
tabernacoletto
dipinto
dal
Beato
Angelico
[…] noi
ricordiamo
con
gratitudine
il dono
fatto da
Gregorio
Stroganoff
dell’avorio
della
Cattedra
di
Massimiano
di
Ravenna,
tornato
a
riunirsi
al
monumento
dal
quale
era
stato
anticamente
strappato»:
in
“L’Arte”,
XIII,
1910, p.
391. Si
veda
anche il
ricordo
di A.
Muñoz,
Il
conte
Stroganoff,
in Id.,
Figure
Romane,
Staderini
Editore,
Roma
1944,
pp.
133-150;
S.
Moretti,
Roma
bizantina…,
pp.
134-136;
Ead.,
Gregorio
Stroganoff….
[73]
A.
Muñoz,
Pièces
de choix
de la
collection
du Comte
Grégorie
Stroganoff,
II,
Moyen
Âge -
Renaissance
- Epoque
moderne,
Imprimerie
de
L’Unione
Editrice,
Roma
1911.
[74]
Ibid.,
pp.
155-176,
in
particolare
pp.
155-168.
[75]
M.
Bernabò,
Ossessioni
bizantine…,
p. 107.
[76]
L.
Venturi,
Opere
d’arte a
Moggio e
a San
Pietro
di
Zuglio,
in
“L’Arte”
XIV,
1911,
pp.
469-478,
in
particolare
p.
472-476.
Sulla
teca, si
vedano
A.
Goldschmidt,
K.
Weitzmann,
Die
byzantinischen
Elfenbeinskulpturen
des
X-XIII
Jahrhunderts,
II,
Reliefs,
Bruno
Cassirer,
Berlin
1934, p.
53,
numero
92,
tavola
XXXVI;
Splendori
di
Bisanzio,
testimonianze
e
riflessi
d’arte e
cultura
bizantina
nelle
chiese
d’Italia,
catalogo
della
mostra
(Ravenna
1990), a
cura di
G.
Morello,
Fabbri,
Milano
1990,
pp.
158-159,
numero
60
(scheda
di C.
Rizzardi).
[77]
G.
Schlumberger,
L’Epopée
Byzantine
à la fin
du
dixième
siècle,
I-III,
Hachette,
Paris
1896-1905.
[78]
C.
Scaccia-Scarafoni,
Il
tesoro
sacro
del
Duomo di
Veroli
ed i
suoi
cimeli
medioevali,
in
“L’Arte”,
XVI,
1913,
pp.
181-205,
289-306,
in
particolare
pp.
303-304.
[79]
La
cassetta
era
stata
acquistata
dal
South
Kensington
Museum
di
Londra
(poi
Victoria
and
Albert
Museum)
nel
1861. Si
veda
supra,
nota 48.
[80]
In
tempi
recenti
si è
identificata
la
ragione
di
questo
disinteresse
con il
clima
culturale
emerso
allo
scoppio
della
Prima
Guerra
Mondiale,
che
avrebbe
visto la
gran
parte
degli
studiosi
italiani
“chiudersi”
nell’esaltazione
dell’origine
tutta
italiana
– e
specificatamente
romana –
dell’arte
nazionale.
Si veda
M.
Bernabò,
Ossessioni
bizantine…,
pp. 87 e
seguenti.
Insieme
a tale
fattore,
senza
dubbio
rilevante
e
amplificatosi
a
dismisura
durante
il
ventennio
fascista,
va
comunque
considerata
la
persistenza
di un
“fronte
romanista”
che
anche
negli
anni
precedenti
aveva
sempre
conservato
un certo
scetticismo
nei
confronti
delle
teorie
orientaliste.
Joseph
Wilpert
parla,
in tono
quasi
sprezzante,
di
«smodato
entusiasmo
per
l’Oriente»:
G.
Wilpert,
Il
frammento
del
Cristo
di
Berlino
e la
coppa di
Costantino
a Londra,
in
“L’Arte”,
XXIII,
1920,
pp.
157-159,
in
particolare
p. 157.
[81]
A.
Colasanti,
L’Arte
Bisantina….
[82]
Ibid.,
p. 6,
tavole
XLI-XLV.
[83]
P.
Toesca,
Storia
dell’arte
italiana.
Il
Medioevo,
I-III,
Unione
Tipografico-Editrice
Torinese,
Torino
1927.
[84]
Ibid.,
I, pp.
321-330.
[85]
P.
Toesca,
Il
Medioevo...,
III, pp.
1127-1132,
nota 37:
tra le
opere
citate
spicca
la
sintesi
di O.M.
Dalton,
Byzantine
Art and
Archaeology….
[86]
Si veda
per
esempio
l’importante
catalogo
di E.
Maclagan,
Catalogue
of an
Exhibition
of
Carvings
in Ivory,
Burlington
Fine
Arts
Club,
London
1923; se
ne trova
memoria
in
“L’Arte”,
XXVII,
1924, p.
176.
[87]
G.
Nicco,
Ravenna…,
pp.
265-266.
[88]
P.
Ducati,
Alcuni
avori
del
Museo
Civico
di
Bologna,
in
“Bollettino
d’Arte”,
XV,
1922,
pp.
481-497.
[89]
Si
tratta
del
rilievo
con il
Cristo
in
trono.
Cfr.
H.
Graeven,
Frühchristliche
und
mitteralterliche
Elfenbeinwerke…,
pp.
9-10,
numero
10.
Sulla
vicenda,
si
vedano
I.
Nikolajević,
Gli
avori e
le
steatiti
medievali
nei
Musei
Civici
di
Bologna,
Grafis,
Casalecchio
di Reno
1991,
pp.
33-46;
G.
Gasbarri,
Gli
avori
bizantini
del
Museo
Civico
Medievale
di
Bologna:
arte,
collezionismo
e
imitazioni
in stile,
in
Vie per
Bisanzio,
Atti del
VII
Congresso
Nazionale
dell’Associazione
Italiana
di Studi
Bizantini,
(Venezia,
25-28
novembre
2009),
in corso
di
stampa.
[90]
M.
Mimita
Lamberti,
Dal
carteggio
di
Adolfo e
Lionello
Venturi…,
pp.
64-65.
[91]
“L’Arte”,
XXXIV,
1931, p.
456. Il
catalogo
recensito
era
Exposition
internationale
d’art
byzantin,
catalogo
della
mostra
(Parigi
1931), a
cura di
C. Diehl,
Impr.
Frazier
Soye,
Paris
1931.
[92]
Sulle
vicende
della
bizantinistica
italiana
tra gli
anni ‘20
e gli
anni ‘40
ha
offerto
la più
recente
interpretazione
M.
Bernabò,
Ossessioni
bizantine…,
pp.
149-215.
Nel
campo
degli
avori,
rara
eccezione
è la
sontuosa
impresa
editoriale
di C.
Cecchelli,
La
Cattedra
di
Massimiano
ed altri
avorii
romano-orientali,
Libreria
dello
Stato,
Roma
1936-1944.
Un
ritorno
dell’interesse
generale
sull’argomento
si avrà
soltanto
con le
due
esposizioni
monografiche
(Ravenna
e
Bologna)
organizzate
negli
anni
‘50. Si
vedano
G.
Bovini,
Gli
Avori
del
Museo
Nazionale
di
Ravenna
e del
Museo
Civico
di
Bologna
che
figureranno
prossimamente
in una
mostra
ravennate,
“Felix
Ravenna”,
LXX,
1956,
pp.
50-77;
Mostra
degli
Avori
dell’alto
Medioevo,
catalogo
della
mostra
(Ravenna
1956), a
cura di
G.
Bovini,
L. Bona
Ottolenghi,
Ravenna
1956;
Lavori
in osso
e avorio
dalla
preistoria
al
rococò,
catalogo
della
mostra
(Bologna
1959),
a cura
di L.
Laurenzi,
Bologna
1959-1960.