Questo
scritto
apre uno
spazio
di
riflessione
su una
lacuna
visibile
negli
studi
sulle
grandi
mostre
periodiche
d’arte
contemporanea,
ovvero
il tema
delle
pubblicazioni
cui esse
danno
luogo,
costituendone
la
premessa
e
insieme
il
risultato.
Nello
specifico
si
intende
esplorare,
con
strumenti
semiotici,
l’identità
narrativa
del
catalogo
della
Biennale
Arte di
Venezia[1].
Giunti
alla 53ª
edizione
del più
importante
Salone
internazionale
d’arte
contemporanea,
si
ritiene
utile
mettere
a fuoco,
a
ritroso,
i
cambiamenti
avvenuti
nel
tempo, a
livello
formale
e
sostanziale.
L’argomento
è
stimolante
soprattutto
in
un’ottica
epistemologica[2],
perché
palesa
una
continua
attività
di
rifigurazione
e
modellizzazione
dell’esperienza,
nella
tensione,
che
emerge
sempre
ed è
ogni
volta da
negoziare,
tra
gerenza
della
mostra e
gerenza
del
catalogo.
A
tutt’oggi
non
esistono
ricognizioni
storiche
né studi
sistematici
sul
catalogo
della
Biennale
arte di
Venezia.
La
letteratura
scientifica
è
limitata
ad
articoli
su
rivista
o a
contributi
all’interno
di
ricerche
più
estese.
È facile
capire
il
perché.
A una
prima
occhiata
emerge
un
panorama
frastagliato,
drenato
da mille
rivoli,
irto di
contraddizioni
e
rispetto
al quale
fornire
un
ragguaglio
è
riduttivo.
Sorge il
dubbio
che si
possa
ancora
parlare
di
“catalogo”
per
questo
oggetto
molto
cambiato
negli
ultimi
decenni
e che
difficilmente
discretizza
la
mostra.
È in
lavorazione
una
monografia
ad
hoc,
che
accolga
i dovuti
approfondimenti.
In
questa
sede si
tratterà
di
individuare
i primi
tratti
salienti,
sollevare
dei
problemi
e
formulare
dei
pronostici.
Si
toccheranno
questioni
relative
al
catalogo
in sé,
nel suo
formato,
per come
si è
funzionalmente
evoluto
in
termini
di
dimensioni
e di
maneggevolezza,
e nel
suo
essere
un
prodotto
unico
che,
negli
anni, ha
incentivato
una
filiera
di
tipologie
aggiuntive
o
alternative
(cataloghi
particolari
dei
padiglioni,
short
guide,
riviste),
con
conseguenze
nella
ridefinizione
del suo
status e
della
sua
identità.
Si
guarderà
alla
forma
espressiva
del
catalogo,
secondo
i
“percorsi
del
gusto”,
tenendo
conto
delle
relazioni
tra
grafica
e
immagine,
dell’uso
del
colore,
dell’ambizione
di
mostrare
una
rilevanza
estetica
al passo
coi
tempi.
Se ne
indagheranno
quindi
alcuni
tratti
semantici,
quali
l’autoreferenzialità
– il suo
parlare
di sé
per
propagandare
la
mostra[3]
–
l’andirivieni
tra
localismo
e
internazionalismo,
la
specifica
struttura
di
appello
al
lettore
e, negli
ultimi
decenni,
per la
necessità
del
gioco
d’anticipo,
la
sfasatura
temporale
rispetto
alle
opere
esposte:
suppliscono
alla
loro
mancanza
riproduzioni
di
progetti
e
disegni
e
fragranti
fotografie
di
installazione.
I tre
punti
indicati
–
catalogo
come
oggetto
in sé,
forma
espressiva,
tratti
semantici
–
incroceranno
indagini
quali:
i) la
fortuna
a fasi
alterne
delle
pagine
critiche;
ii) la
costruzione
del
“lettore”:
strategie
di
coinvolgimento,
dalla
concezione
dei
testi
fino
alla
grafica
e
all’uso
delle
immagini;
iii) i
regimi
differenti
di
discorso
nelle
scelte
della
direzione
e poi
del
curatore:
l’elenco,
la
tabella,
il
racconto;
iv) le
reazioni
al
titolo
della
mostra
centrale,
come
motivo
conduttore
o
slogan,
a
partire
da
quando
le
rassegne
hanno
assunto
un
carattere
tematico
(anni
Settanta);
v) le
tracce
in
negativo,
ossia
l’ombra
e il
riflesso
della
“concorrenza”:
dialogo
con i
cataloghi
di
mostre
consimili
e
relazioni
con
l’editoria
di
settore
sia
periodica
sia
saggistica.
Prodromi
Collezione
e
catalogo
Victor
Stoichita
(1993)
stabilisce
un
rapporto
di
interdipendenza
reciproca
tra
collezione,
il
colligere,
atto che
presuppone
la
selezione
e la
combinazione,
e
catalogo.
Scrive:
nel caso
di una
collezione
(di ogni
collezione)
ciò che
la
riflette
e che in
fin dei
conti le
conferisce
coscienza
di sé è
il
catalogo.
Il
catalogo
è una
specie
di
specchio:
è, da un
punto di
vista
intellettuale,
qualcosa
di più
della
collezione
stessa e
ha un
grado di
coesione
e di
coerenza
che la
collezione
non può
conseguire,
se non
nei
sogni
del
collezionista.
Il
catalogo
è il
sogno di
ogni
collezione
o, se si
vuole, è
la
collezione
come
puro
concetto[4].
Lo
storico
dell’arte
ritiene
che
questo
rapporto
fosse
insito
nell’“invenzione”
di
Vincenzo
Borghini
per lo
studiolo
di
Francesco
de’
Medici a
Firenze
(1570-73):
un
sistema
coerente
di
“luoghi”
(gli
armadi)
e di
“immagini”
(i
quadri
che ne
ornavano
le
ante).
L’insieme
di
quadri
forniva
“un
segno”
delle
cose che
in essi
erano
conservate.
Già lo
studiolo
funzionava
dunque
come una
collezione
non di
dipinti,
ma di
naturalia,
ordinati
entro
alcuni
armadi,
e con un
sistema
di
quadri
che li
ricopriva
e
fungeva
da
catalogo
allegorico
della
collezione.
A detta
di
Borghini,
bisognava
«accomodare
le
storie
ai
luoghi e
non i
luoghi
alle
storie»
e stare
sempre
attenti,
distribuendo
le
immagini,
a «non
entrar
in
qualche
gran
lecceto
et anche
di non
lasciare
nulla
vuoto»[5].
Nel Nord
Europa,
il
problema
del
“raccoglitore”
visivo
della
collezione
è
trattato
a
partire
dal XV
secolo,
almeno
in area
tedesca.
Adalgisa
Lugli
ricorda
le
grandi
macchine-reliquiario
con
sportelli
e
scomparti
riassunte
magistralmente
nelle
incisioni
degli
Heiligtumsbücher,
cataloghi
a stampa
in forma
di unica
tavola
con
didascalie[6].
Sono
rivolti
al
pubblico
che
acquista
le
immagini
sacre
vendute
intorno
ai
santuari
e ne
hanno la
stessa
funzione
di
“ricordo”
devozionale.
I grandi
fogli,
incisi
dapprima
su
matrice
lignea e
più
avanti
su rame,
nel XVI
e XVII
secolo,
sono
commemorativi
di un
evento
particolare,
come un
pellegrinaggio
o
l’esposizione
del
tesoro
ai
fedeli
durante
una
festività.
In
quest’ultimo
caso –
afferma
Lugli[7]
-
assumono
più che
mai il
carattere
di un
catalogo,
con
preciso
intento
didattico
nello
spiegare
e
documentare
l’origine
e il
valore
dei
singoli
pezzi.
Le
prime
collezioni,
nel
Cinquecento,
risultano
essere
dispositivi
di
rappresentazione
e
prevedono
già un
kata-logos,
per
quanto
ancora
immateriale
e
invisibile,
come
logica
di
posti,
strutturazione
secondo
un
ordine.
In
origine,
quindi,
il
catalogare
appare
consustanziale
al
collezionare,
pratica
che si
discosta
dall’accumulare
indiscriminatamente.
Il primo
vero
catalogo
pervenuto
è
probabilmente
quello
di
Antoine
Agard di
Arles,
datato
1611 e
intitolato
Discorso
e ruolo
di
medaglie
e altre
antichità,
sia
pietre
preziose,
che
incisioni,
che
rilievi,
e altre
pietre
naturali
mirabili,
diverse
antiche
figure e
statue
in
bronzo
con
statue
in
terracotta
alla
maniera
egizia,
e
diverse
rare
antichità
che sono
state
raccolte
e si
trovano
ora
indicate
nel
cabinet
del
signor
Antoine
Agard,
mastro
gioielliere
e
antiquario
della
città di
Arles in
Provenza.
I due
termini
di
apertura
fanno
capire
che gli
oggetti
sono
dispiegati,
concatenati
(“discorso”),
e
riuniti
non in
maniera
affastellata,
ma
secondo
un
ordine
di
importanza
(“ruolo”).
Agard
aggiunge,
sottolineando
lo
sforzo
selettivo:
Restano
(amico
lettore)
mille
altre
piacevolezze,
non
scritte
per
evitare
una
prolissità
troppo
grande,
& pezzi
rarissimi
che col
mio
piccolo
lavoro &
ricerca
io
rinvengo
sovente
per
saziare
la tua
curiosità,
se essa
ti porta
a
venirmi
a
trovare,
& a
toccare
con mano
tutto
quello
che io
ti ho
segnalato[8].
Un
eccetera
verbale
– “mille
altre” –
salva da
una
lista
infinita
di
oggetti,
suscita
interesse
per la
raccolta
e
rimanda
al
titolo
in
quanto
definizione
della
capienza
del
catalogo[9].
Antoine
Furetière
(1690)
si cura
di
distinguere
l’inventario,
Descrizione
e
enumerazione
che si
fa per
iscritto
dei
mobili &
delle
carte
che si
trovano
all’interno
di una
casa,
dal
catalogo,
Elenco &
memoria
comprendente
numerosi
nomi di
persone,
oppure
di libri
disposti
secondo
un certo
ordine[10].
Stoichita
osserva
che, ad
eccezione
di
questa
più
precisa
occorrenza,
la
storia
del
collezionismo
è
caratterizzata
da una
grande
difficoltà
nell’espressione
del
concetto
di
“catalogo”.
Nel XVII
secolo
si
impiega
il nome
della
collezione
per
designare
il
catalogo
–
Kunstkammer,
Gazophylacium,
Thesaurus,
Museum,
Cabinet.
Poi,
quando
nasce la
parola,
si sente
il
bisogno
di
spiegarla:
Index
sive
catalogus,
Catalogue
&
Description,
Catalogus
oder
eine in
ördentlichen
Classen
abgetheilte
specification[11].
Lugli
(1987)
precisa
che la
più
elementare
forma di
catalogo
è
l’inventario
–
obbedisce
a
criteri
di
registrazione
utilitaristica
e
documenta
lo
status
quo
dei
materiali
allorché
non ha
ancora
un
rilievo
programmatico.
A
differenza
dell’inventario,
il
catalogo
è
un’operazione
difensiva
da parte
del
collezionista:
fissa il
momento
aureo
della
collezione
prima
della
dispersione.
Di qui
«l’orgoglio
di
figurare
insieme
alla
propria
collezione»
(molti
cataloghi
di musei
si
aprono
con il
ritratto
del
collezionista)[12].
Il
fatto
che
nelle
Fiandre
del 1700
non vi
sia
traccia
di
cataloghi,
ma
emerga
il
genere
dei
“Cabinet
d’amateur”,
porta
Stoichita[13]
a
introdurre
la
categoria
dei
quadri-cataloghi:
«non
venivano
esposti
nella
collezione.
Erano
dei
regali
da
esporre
altrove,
dei
quadri-cataloghi
da
destinarsi
ad
amici,
colleghi,
parenti.
Erano
immagini
della
collezione».
L’esempio
più
prestigioso
sono i
dipinti
di David
Teniers
II che
riproducono
la
Galleria
dell’arciduca
Leopoldo
Guglielmo
a
Bruxelles.
Le opere
ivi
presentate
sono
facilmente
riconoscibili,
c’è un
ingranaggio
intertestuale
tale per
cui
risultano
raggruppate
per
sezioni
(ritratti,
paesaggi,
scuola
italiana)
e su
ciascuna
cornice
è
riportato
il nome
dell’autore.
In un
Paese e
in
un’epoca
dove
l’impulso
alla
compravendita
d’arte
raggiunge
uno
sviluppo
senza
precedenti,
il passo
da
questa
congiuntura
fondamentale
al
catalogo-libro
è breve.
Nel 1658
viene
pubblicato,
in
latino,
il
Theatrum
Pictorium
Davidis
Teniers
Antverpensis
(Anversa,
Verdussen),
un
libro-catalogo
con 264
incisioni
che
riproducono
i
pastiche
di
Teniers
dei
capolavori
italiani
della
collezione
dell’arciduca.
A ogni
pagina
corrisponde
un
dipinto,
mentre
nell’ultima
è
significativamente
stampato
l’interno
di una
galleria
di
quadri.
Più
tardi,
nel
Prodromus
Theatri
Artis
Pictoriae
(Vienna
1735) di
Frans
von
Stampaert
e Anton
von
Prenner,
la
pagina
si
presenterà
come una
parete
interamente
ricoperta
di
quadri.
Un
corrispettivo
letterario
del
genere
dei
“Cabinet
d’amateur”
si
diffonde
in
Europa
con
successo
e
annovera,
tra gli
altri,
la
Galeria
di
Giovan
Battista
Marino
(1619),
il
Cabinet
di
George
de
Scudéry
(1646),
la
galleria
di
Salástano
in El
Criticón
di
Baltasar
Gracián
(1651-53)
e la
galleria
di La
Peinture
di
Charles
Perrault
(1663).
Sarebbe
interessante
confrontare
testualità
letteraria
e
immagine
sulla
presentazione
delle
opere
d’arte
nei
cataloghi
e negli
spazi
espositivi,
cominciando,
per
esempio,
dal tema
del
rapporto
pagina/parete
che si
instaura
nel XVII
secolo.
Stoichita[14]
sottolinea
che la
“parete
di
quadri”
è un
fenomeno
moderno:
«Contrariamente
all’affresco,
che
trasformava
la
parete
in
immagine,
l’esposizione
delle
opere
secondo
i
dettami
di
Anversa
equivaleva
a
sostituire
il muro
dipinto
con un
tramezzo
mobile».
Si
discuteva
di
problemi
di
intertestualità
e
contesto
reale –
illuminazione,
materie,
segnali
di
demarcazione,…
–
dall’interno
del
genere
dei
Cabinet.
E la
questione
iconografica
nell’allestimento
era
legata,
almeno
nella
teoria
del
cardinale
Federico
Borromeo
(Musaeum,
1625),
alla
descrizione
stessa
del
museo e
alle
associazioni
che in
questo
modo
potevano
nascere.
«Accomodare
le
storie
ai
luoghi e
non i
luoghi
alle
storie».
Il motto
di
Borghini[15]
porta
inscritta,
in
nuce,
la
co-implicazione
tra la
mostra e
il suo
racconto
e
istituisce
ai poli
due
istanze
di
osservazione,
il
visitatore
e il
lettore.
È
un’isotopia
importante,
se si
considera
il
catalogo
come un
“semioforo”[16],
capace
di
indirizzare,
dalla
sua
visibilità
materiale,
a
contenuti
ancora
invisibili.
Si
comprende
allora
la
lettura
“visiva”
che
Lugli
(1987)
dà del
catalogo
quando
si
origina
il
problema
della
trasposizione
dei
materiali,
già nel
XVIII
secolo:
Ci
sono
oggetti
impossibili
da
rappresentare,
come i
noccioli
scolpiti,
il
telaio
per
tessere
la tela
di ragno
di
Settala,
il
cammello
d’avorio
che
passa
per la
cruna di
un ago.
La
tavola
iniziale
è di
sintesi,
serve a
richiamare
la
dispersione
a unità.
È
prospetticamente
orientata
secondo
un solo
punto di
vista,
anzi è
una
scatola
prospettica
aperta
sulla
quarta
parete o
una
specie
di
anamorfosi
in cui
il
visitatore
funziona
come il
cilindro
di
specchio[17].
Esposizione
e
catalogo
Walter
Benjamin
ha
acutamente
osservato
che
l’epoca
che ha
visto
moltiplicarsi
le
Esposizioni
Universali
ha anche
visto
moltiplicarsi
un certo
tipo di
pubblicazioni,
i
“libri-esposizioni”:
«contemporanea
ai
panorami
è una
letteratura
panoramatica:
Paris,
ou Le
Livre
des
Cent-et-Un
(1831-1834),
Les
Français
peints
par
eux-mêmes
(1841),
Le
Diable à
Paris
(1846),
La
Grande
Ville
(1844)»[18].
Libri
come
questi,
precursori
del
catalogo,
hanno a
che fare
con
l’esposizione
strutturalmente,
e non
soltanto
per il
loro
contenuto
o per
pura
coincidenza
storica,
aneddotica
o
metaforica[19].
Come
segnala
Philippe
Hamon,
il
paragone
letteratura-architettura
si gioca
su
livelli
di
pertinenza
differenti.
E il
termine
“esposizione”,
con la
sua
polisemia,
fa da
catalizzatore
per
esplorarli[20].
Hamon
mette in
coda la
definizione
di
Gustave
Flaubert
(Dictionnaire
des idée
reçues,
1850-1880)
–
«Esposizione:
motivo
di
delirio
del XIX
secolo»
– e
vaglia
alcune
delle
accezioni
indicate
nel
Larousse,
Grand
dictionnaire
universel
du
XIXème
siècle.
Si
sofferma
sull’idea
di
“esposizione”
come
orientamento,
posizione
in
rapporto
ai punti
cardinali.
È un
tratto
costitutivo
del
catalogo
in
quanto
guida
per un
utente,
corredata
di
mappe,
«esposizione
di un
corpo
agli
altri
corpi
degli
attori
sociali
ed
esposizione
di un
corpo
agli
agenti
naturali»[21].
Secondariamente,
c’è
l’“esposizione”
nel
senso di
una
cerimonia
che
lascia
vedere
ai
fedeli
un
oggetto
che si
vuole
offrire
alla
loro
venerazione,
una
reliquia,
ad
esempio.
Trova
fondamento
nelle
dinamiche
collettive
descritte
da
Adalgisa
Lugli
(1983) e
sopra
menzionate,
la
ratio
delle
quali è
stata
lucidamente
spiegata
da
Julius
von
Schlosser:
a
paragone
degli
antichi
tesori
dei
templi,
i tesori
delle
chiese
presentano
in
maniera
molto
più
marcata
caratteri
che
saranno
in
seguito
propri
delle
raccolte
d’arte e
di
meraviglie,
forse
per il
loro
restar
fedeli
al senso
favoloso
del
Medioevo,
al
costante
interesse,
proprio
di
quest’epoca,
per
l’importanza
del
contenuto
e ancor
di più
per il
meraviglioso,
il
singolare,
l’inconsueto[22].
Specialmente,
però,
Hamon
mette a
fuoco
l’“esposizione”
come
aspetto
della
descrizione
verbale.
Nella
tradizione
letteraria,
l’esposizione
designa
soprattutto
la
parte
inaugurale
di
un’opera
teatrale,
in cui
si
tratta
di «far
conoscere
i
personaggi,
chi
parla, a
chi si
parla,
di chi
si
parla,
il luogo
in cui
si
trovano,
il tempo
in cui
comincia
l’azione»[23].
La
scrittura-esposizione
–
continua
Hamon[24]
– mette
in
ordine
(o in
disordine,
nei
testi
ironici),
determinati
insiemi,
e fa
appello,
nel
lettore
e nello
scrittore,
a una
competenza
semiotica
paradigmatica:
classificare,
gerarchizzare,
attualizzare
lessici,
stabilire
equivalenze,
imporre
una
delimitazione.
Analogamente
all’oggetto
architettonico,
che non
è
stereotomia
della
pietra,
misurazione
quantitativa
di
un’estensione,
bensì
costruzione
di
differenze
qualitative
e
conseguenze
“imperative”,
l’esposizione
letteraria
non è
soltanto
segnalazione
di un
tempo di
lettura
e di uno
spazio
metrico
e
tipografico,
ma anche
“misura”
etica,
sistema
di
valori,
ideologia.
«Teatro
statico
– luogo
da
guardare,
da cui
si
guarda,
in cui
ci si
guarda –
ma anche
organizzatore
di
sfilate
(le
processioni
e gli
spostamenti
ritualizzati
della
vita
sociale)»[25].
Con il
catalogo
l’esposizione
diviene
un
genere
letterario
autonomo,
che ne
sussume
funzioni
e
caratteristiche.
Per
studiarlo
occorrerà
tenere
viva la
connivenza
tra i
suoi “topoi”
e i
luoghi
spaziali
deputati
alla
produzione
della
mostra.
Autori
della
propria
autorità
Le
prime
edizioni
del
catalogo
della
Biennale
sono
caratterizzate
dalla
volontà
di
legittimare
le
scelte
del
quadro
dirigente
del
Salone e
il
lavoro
dei
membri
della
giuria,
eletti
dalla
Presidenza.
Le
prefazioni
di
Riccardo
Selvatico
(1895) e
poi di
Filippo
Grimani
(1897-1914),
ma
soprattutto
le
relazioni
del
segretario
generale
Antonio
Fradeletto
(1895-1914),
curatissime
sotto il
profilo
informativo
e
documentario,
annunciano
e
giustificano
la
presentazione
di
resoconti
e
tabelle
sulle
attività
dei
membri
del
comitato.
Qualsiasi
intervento
relativo
alla
mostra,
anche
polemico,
è
registrato
nel
catalogo
e perciò
tenuto
sotto
controllo.
Si veda
l’edizione
del
1899,
dove il
verdetto
della
giuria è
seguito
da
un’avvincente
lettera
di
motivazione
a
Grimani.
Qui i
commissari
esprimono
pareri
severi
sulle
opere.
«Ci
consenta
di dirle
che nel
nostro
esame ci
siamo
imbattuti
in opere
tali da
rivelare
nei loro
autori
una
perfetta
incoscienza
dell’Arte
e
dell’altezza
intellettuale
dell’Esposizione
veneziana»[26].
Trasparenza
e
limpidezza
producono
una
comunicazione
credibile.
Il
catalogo
del 1903
riporta
perfino
la
trascrizione
delle
lettere
di
nomina,
preliminari
al
mandato
della
giuria.
E
quattro
anni
dopo,
nel
1907,
spunta
la prima
“statistica
dell’accettazione”[27].
Da tutte
queste
tattiche,
espresse
in forma
verbale,
visiva o
diagrammatica,
filtrano
i
rapporti
di forza
della
regia
della
Biennale.
Anche
l’indizione,
nel
1897,
del
concorso
per la
critica
d’arte
consolida
il suo
ruolo di
soggetto
mandante
e
giudicante.
Quell’anno
vince
Primo
Levi, a
motivo
di una
«critica
colta e
moderata»,
mentre
Vittorio
Pica
ottiene
il
secondo
premio,
ex aequo
con Ugo
Ojetti,
sulla
linea
delle
«tendenze
della
critica
militante»[28].
Le prime
pagine
critiche
compaiono
però nel
1901, a
firma di
Ojetti
su
Auguste
Rodin,
di Pica
su
Gaetano
Previati,
di Primo
Levi su
Domenico
Morelli.
Preparato
con
largo
anticipo,
il
catalogo
funge in
questi
anni da
organon
efficace
di
affermazione
e
valorizzazione
dell’ente.
Viene da
chiedersi,
tuttavia,
su che
cosa
vertano
le
scelte
della
dirigenza.
Qual è
il
compito
che la
Biennale,
per
presentare
se
stessa,
conta di
raggiungere?
Dichiarate
fin
dall’inizio
e
proclamate
a gran
voce nel
1901,
tali
scelte
riguardano
espressamente
«l’educazione
dei
nostri
artisti»,
la
didattica
delle
arti, un
problema
che
Alessandro
Stella
formalizza
nel 1912
e
suscettibile
di
raccogliere
a quel
tempo un
pieno di
consensi
nell’opinione
pubblica[29].
Il
formato
del
catalogo
è
quadrotto,
e tale
rimarrà
fino al
1950,
più per
limiti
tecnici
di
stampa
che per
ragioni
stilistiche.
Le
edizioni
degli
anni
dieci e
venti
includono,
in
sequenza:
il
regolamento,
la
prefazione
del
Presidente,
la
relazione
del
Segretario
generale
al
Presidente,
gli
elenchi
e le
descrizioni
delle
sale,
l’indice
alfabetico
degli
artisti,
le
tavole,
l’indice
delle
tavole.
La
quantità
di liste
fa
riflettere
sull’operazione
di
catalisi
della
mostra,
per via
di
classi
gerarchiche,
necessarie
ad
articolare
i
diversi
piani di
contenuto.
Una
parte
cospicua
è
destinata
agli
annunci
pubblicitari,
prevalentemente
su
servizi
e
attività
commerciali
regionali,
ivi
compresa
la
promozione
di
tariffe
agevolate
per i
viaggi
ferroviari
a
Venezia.
Per
tutti
questi
“dintorni”
delle
descrizioni
Gérard
Genette
propone
la
definizione
di
paratesto.
Il
catalogo
li
somministra
in
misura
superiore
rispetto
a
un’opera
letteraria,
dato il
suo uso
ai fini
della
mostra:
un
testo si
presenta
raramente
nella
sua
nudità,
senza il
rinforzo
e
l’accompagnamento
di un
certo
numero
di
produzioni,
esse
stesse
verbali
o non
verbali,
come un
nome
d’autore,
un
titolo,
una
prefazione,
delle
illustrazioni,
delle
quali
non
sempre è
chiaro
se
debbano
essere
considerate
o meno
come
appartenenti
ad esso,
ma che
comunque
lo
contornano
e lo
prolungano,
per
presen-tarlo,
appunto,
nel
senso
corrente
del
termine,
ma anche
nel suo
senso
più
forte:
per
renderlo
presente,
per
assicurare
la sua
presenza
nel
mondo,
la sua
“ricezione”
e il suo
consumo,
in
forma,
oggi
almeno,
di
libro.
Questo
accompagnamento,
d’ampiezza
e
modalità
variabili,
costituisce
ciò che
ho
battezzato
il
paratesto
dell’opera[30].
Diverso
è lo
statuto
della
copertina,
che fin
dall’inizio
appare
un
“vestibolo”
garante
della
qualità
della
mostra e
a doppia
focale:
interna,
che mira
a
rappresentare
l’edizione,
esemplificandola;
esterna,
volta a
presentarla
allo
spettatore,
con
adeguati
elementi
di
appeal,
plastici,
attraverso
la
lucentezza
della
luce, ad
esempio,
o
propriamente
figurativi[31].
Ma
il
catalogo,
bollettino
di
notizie
sulla
mostra e
vetrina
dell’ente,
riveste,
dapprincipio,
anche la
funzione
di
guida
agli
spazi
della
Biennale.
La mappa
dei
Giardini,
presente
dalla
prima
edizione,
e le
mappe
dei
padiglioni
stranieri,
aggiunte
nel
1909,
sono
oggetto
di
esperimenti
col
colore
già nel
1926,
quando è
presidente
Giovanni
Bordiga
(1920-1926)
e
segretario
Vittorio
Pica
(1920-1926).
Un gesto
pionieristico,
se si
pensa
che,
nell’apparato
illustrativo,
le prime
tavole a
colori
appariranno
solo nel
1962,
per poi
tornare
mestamente
al
bianco e
nero,
almeno
fino al
1978.
L’innovazione
è un
sintomo
dell’interesse
per il
visitatore,
figura
che non
coincide
a priori
con
quella
del
lettore.
Nel ‘26,
rispetto
ai
vincoli
posti, è
l’avanguardia
italiana
a
smuovere
le
acque.
Insoddisfatti
del
trattamento
riservato
loro nel
catalogo,
i
futuristi
pubblicano
un
volumetto
monografico,
curato
da
Enrico
Prampolini
e
splendidamente
illustrato,
che
svolge
le
funzioni
di un
dossier
del
padiglione
futurista[32].
L’atto
suona
come una
dichiarazione
di
indipendenza
dall’auctoritas
locale.
Un passo
avanti
nella
caratterizzazione
del
profilo
critico
del
catalogo
è
garantito,
invece,
dalla
personalità
di Ugo
Ojetti,
membro
del
consiglio
direttivo
negli
anni
della
gestione
di
Bordiga
e Pica.
In
quelle
date
oneri e
onori
della
stampa
vanno
alla
casa
editrice
d’arte
Bestetti
&
Tumminelli
(Milano),
che si
ritaglia
uno
spazio
in una
nicchia
di
mercato
dominata
dalle
edizioni
Carlo
Ferrari
(Venezia).
Per gli
stessi
tipi
esce,
nel
1922, la
rassegna
d’arte
“Dedalo”,
diretta
da
Ojetti e
con
molta
opportunità
propagandata
nel
retro
della
prima
pagina
del
catalogo.
L’edizione
del ‘30
appare
più
corposa,
a motivo
dell’investimento
politico
sulle
arti
promosso
dal
Governo
Mussolini.
A
seguito
del
R.D.L.
13
gennaio
1930, la
Biennale
è
infatti
trasformata
in ente
autonomo
e
sottratta
alla
gestione
del
Comune
di
Venezia.
Nella
prefazione
si legge
che la
Biennale
di
Venezia
«consentirebbe
un’opera
ricostruttrice
delle
generazioni
e la
ripresa
delle
gloriose
tradizioni
nazionali»[33].
Spiccano
due
pubblicazioni
supplementari
al
catalogo,
che ne
rievocano
i
trascorsi:
un
fascicolo
su I
premi
della
Biennale
di
Venezia
(1930) e
una
storia
della
Biennale
raccontata
attraverso
le sue
statistiche:
bilanci
celebrativi
con dati
posti
sotto
gli
occhi di
tutti.
Dalla
focalizzazione
esterna
dei
primi
anni,
verso un
pubblico
che
bisognava
informare,
appassionare
e
convincere,
si passa
a una
focalizzazione
interna,
caratterizzata
da
strategie
di
autoriflessività.
Il
catalogo
comincia
a
sganciarsi
dalla
mostra
in sé e
a farsi
strumento
di
rappresentanza
dell’ente,
biglietto
da
visita
dell’attualità
della
Biennale,
ma anche
della
sua
memoria.
L’artefice
del
cambiamento
è il
segretario
Antonio
Maraini
(1928-1942),
il quale
rivela
fin da
subito
elevate
qualità
dirigistiche[34].
Nomina
espressamente
un
curatore
del
catalogo,
il poeta
Domenico
Varagnolo,
che è
anche
direttore
del
neonato
“Istituto
documentario”,
oggi
ASAC,
Archivio
Storico
delle
Arti
Contemporanee
della
Biennale[35].
La
scelta è
significativa,
perché
lega la
missione
dell’ufficio,
di
documentazione
delle
arti
appunto,
all’impostazione
di
criteri
redazionali
standard
per il
volume.
Nel
catalogo
del ‘32
Varagnolo
esplicita
così le
norme da
seguire:
«la
segreteria
dirama a
ogni
artista
una
scheda
da
riempire
coi
cenni
biografici
e
artistici
della
propria
carriera.
Le
schede
vengono
raccolte
insieme
alle
foto e
alle
critiche
della
stampa»[36].
È il
backstage
di un
lavoro
febbrile,
che
spiega
perché
le
edizioni
degli
anni
Trenta
siano
così
articolate,
ricche
di
introduzioni
alle
varie
sezioni,
schede
per ogni
padiglione,
tabelle
delle
opere
esposte
e degli
artisti
espositori.
L’Istituto
documentario
diventa
il punto
vitale
dell’intera
organizzazione,
sotto la
spinta
propulsiva
di
Maraini,
che a
Venezia
aspira a
creare
un
centro
dove
l’arte
italiana
possa
trovare
il suo
perno e
di qui
irradiarsi.
Le
nuove
forme di
documentazione
influenzano
e
accrescono
anche il
valore
economico
dell’opera
d’arte.
Il
catalogo,
nel
testimoniarne
la
presenza
alla
mostra,
partecipa
alla sua
costruzione
e al suo
successo.
Funge da
certificato,
anzi da
sigillo.
Madama
Rivista.
L’alterità
del
catalogo
della
Biennale
Uscire
dal
torpore
del
dopoguerra
non è
arduo
per il
Salone
veneziano,
che con
un
direttivo
eccezionale,
composto
dal
presidente
Giovanni
Ponti
(1948-1952;
1958-1960),
dal
segretario
Rodolfo
Pallucchini
(1948-1958)
e dal
conservatore
ASAC
Umbro
Apollonio
(1950-1972),
attua
presto
un
programma
di
revisione
storica
e
culturale
del
gusto.
L’unico
retaggio
delle
Biennali
fasciste
sono i
concorsi
per il
manifesto
e per il
migliore
saggio
critico,
ora sia
italiano
che
straniero.
Pallucchini
dà
respiro
internazionale
alla
mostra e
scommette
sui
presupposti
dell’arte
astratta,
che
pensa
l’opera
non come
rappresentazione
di
oggetti,
ma come
oggetto
essa
stessa.
Già nel
‘48
l’illuminato
segretario
affianca
perciò,
alle
molte
retrospettive,
un’antologica
della
collezione
Peggy
Guggenheim.
È
ovvio
che il
pubblico
non
abituato
si
sentirà
a
disagio
di
fronte a
modi
espressivi
inusitati,
sganciati
dalla
rappresentazione
figurativa.
Ma si
ricordi
cosa è
avvenuto
con
Modigliani:
molta
parte di
quel
pubblico
che nel
1930 si
mostrava
inorridito
dinanzi
alle sue
opere,
oggi lo
ama e lo
comprende.
L’artista
è sempre
un
orologio
in
anticipo
sul
pubblico[37].
La
querelle
figurativo/astratto
è
un’occasione
per
tentare
strategie
di
avvicinamento
e
costruire
con il
pubblico
una
comunicazione
attiva.
Parallelamente,
Pallucchini
avvia un
confronto
diretto
con gli
specialisti
del
mondo
dell’arte,
uno
scambio
di idee
che è
anche
alla
base
della
cura
critica
del
catalogo.
Lo
dimostra
il fitto
carteggio
con
Roberto
Longhi.
In una
lettera
datata
26 marzo
1948 il
segretario
scrive:
rimane
la
questione
della
prefazione
all’Impressionismo
[…]. Nel
catalogo
ufficiale
della
Biennale
le tre
paginette
d’introduzione
penserei
di
affidarle
a
qualche
studioso
francese
(Cogniat,
commissario
per il
padiglione
francese,
o Bazin?)
e vi
farei
seguire
una
mezza
paginetta
per ogni
singolo
artista,
paginetta
che
potrebbe
essere
compilata
da uno
studioso
italiano
e sul
cui nome
prego di
dirmi il
pensiero[38].
In
primis,
però,
cresciuto
il
numero
dei
Paesi
partecipanti,
si
avverte
la
necessità
di
tutelare
il
monopolio
in campo
editoriale.
Le
nazioni
autogestiscono
la loro
presenza
in
Biennale,
ma
questa
autogestione
va
disciplinata.
Alla
voce
“catalogo
e
fotografie”
del
regolamento
del 1950
si
legge:
La
Biennale
pubblica
il
catalogo
ufficiale
illustrato
della
mostra,
catalogo
che è
l’unica
pubblicazione
di
carattere
ufficiale
ammessa
all’esposizione.
Le
nazioni
straniere
possono
preparare
per la
diffusione,
a scopo
di
propaganda,
cataloghi
particolari
oppure
studi
riguardanti
le varie
sezioni,
ma alla
sola
condizione
che
questi
siano
distribuiti
gratuitamente.
La
presidenza
della
Biennale
si
riserva
di
affidare
a
competenti
l’incarico
di
compilare,
per il
catalogo,
studi
relativi
ad
artisti
espositori
e a
movimenti
artistici
che
figurino
nella
mostra[39].
In
questo
centro
regolatore
di se
stesso e
che
sorveglia
ogni sua
propaggine,
deliberare
sull’elaborazione
critica
della
mostra è
un
diritto
esclusivo
del
presidente.
La
sensazione
di un
eccesso
di
autoreferenzialità
e
chiusura
è
respinta
attraverso
la
nascita
di una
rivista,
delegata
a
mantenere
viva
l’attenzione
per la
Biennale,
diversificando
l’offerta.
È La
Biennale
di
Venezia,
periodico
trimestrale
di
lusso,
in carta
patinata,
con
immagini
anche a
colori,
un’impaginazione
modernissima,
sunti in
francese,
inglese
e
tedesco
e
pubblicità
di gran
classe[40].
Risponde
a una
politica
di
ampliamento
dei
rapporti
con
l’esterno
e
soddisfa
esigenze
che il
catalogo
non può
appagare.
Innanzitutto
permette
una
lettura
della
mostra
a
posteriori,
ovviando
a quello
che è un
“deficit
genetico”
del
catalogo[41].
Propaganda
l’intero
ente,
nei
settori
di
allora,
cioè
arti
figurative,
cinema,
teatro e
musica
(opera e
balletto).
Fa poi
pubblicità
all’ufficio
vendite,
che in
quegli
anni
funziona
a pieno
ritmo, e
presenta
collezioni
d’arte
contemporanea,
di Peggy
Guggenheim
e di
Giovanni
Mattioli,
per
esempio.
Promuove
anche
altre
mostre,
come la
Biennale
di San
Paolo,
‘documenta’
di
Kassel,
la
Quadriennale
di Roma.
Insomma,
inaugura
un lungo
periodo
di
studi
sulla
Biennale,
in cui
spicca
il
coinvolgimento
pieno e
duraturo
del
mondo
accademico.
Il
comitato
scientifico
è
formato
dai
membri
interni
alla
Biennale,
ognuno
dei
quali
cura le
notizie
del suo
specifico
settore.
Significativa
è la
scelta
del
direttore
responsabile.
Ponti e
Pallucchini
affidano
inizialmente
l’incarico
a Elio
Zorzi,
che in
veste di
capo
ufficio
stampa,
garantisce
alla
rivista
un
taglio
eminentemente
informativo.
Gli
succede,
nel ‘55,
Apollonio,
il
quale,
da un
lato,
rafforza
gli
aspetti
documentativi
sulla
mostra,
dall’altro
dà
spazio
alla
critica
d’arte
nazionale
e
internazionale
e
favorisce
il
confronto
interdisciplinare[42].
Col
tempo,
tuttavia,
l’andirivieni
tra
endogeno
ed
esogeno,
finalizzato
ad
attrarre
il
maggior
numero
di
lettori,
sfocia
in una
postura
ibrida
della
rivista,
che,
come fa
notare
Giovanni
Bianchi
(2003),
non è
specializzata
tanto da
coinvolgere
critici
e
artisti
e
risulta
troppo
cara per
il
grande
pubblico.
Nel
tentativo
di
suscitare
dall’interno
il
dibattito
sulle
arti[43],
Apollonio
restringe
quindi i
temi
alla
sfera
teorica
e
riunisce
gli
aspetti
comunicativi
e di
documentazione
nel
“Bollettino
d’arte”,
che
fonda
nel
1957. È
il terzo
prodotto
editoriale
della
Biennale,
con
notizie
sulla
programmazione
delle
iniziative
del
Salone,
bibliografie
ampie e
riferimenti
all’acquisizione
di
pubblicazioni.
Una
sorta di
catalogo
dell’ASAC.
Le
dinamiche
della
rivista,
chiusa
alla
fine del
1971, si
ribattono
considerevolmente
sulla
natura
del
catalogo,
che
dalla
metà
degli
anni
cinquanta
cambia
formato,
ora
rettangolare,
offre i
primi
esempi
di
progetto
grafico
e vede
un
miglioramento
nella
qualità
della
carta.
Brilla
l’edizione
del ‘56,
che
accoglie
gli
scritti
di
Daniel-Henri
Kahnweiler
su Juan
Gris e
di
Cesare
Brandi
su
Giacomo
Manzù,
come
prefazioni
alle
retrospettive
dei due
artisti.
Nel ‘58
la nuova
normativa
sulle
pubblicazioni
è una
conferma
dei
risultati
raggiunti
dall’editoria
Biennale
e un
indizio
dell’inversione
di rotta
nel
privilegio
di
vendita.
Merito
di
Apollonio,
che
quell’anno
diventa
anche il
curatore
del
catalogo.
Sotto il
titolo
“catalogo
e
fotografie”
del
capitolo
sulle
norme si
trova
questa
volta:
«ciò non
esclude
la
possibilità
di
pubblicazioni
speciali,
purché
concordate
in
precedenza
con la
Biennale»[44].
Il
sentore
della
concorrenza
suggerisce
un
compromesso
tattico.
Correggere
il tiro.
Kassel e
le prime
mostre a
tema
della
Biennale
Alla
fine
degli
anni
Cinquanta
una
rassegna
fuori
dagli
schemi,
com’è
‘documenta’
di
Kassel,
con
un’autentica
vocazione
ideologica,
inaspettatamente
di
successo,
non può
non
comportare
una
ridefinizione
degli
scenari.
La
Biennale
– scrive
il
neosegretario
Gian
Alberto
Dell’Acqua
(1960-1970)
nel 1960
–
si
avvia
ormai ad
abbandonare
la
sorpassata
formula
della
Mostra-Salon,
per
configurarsi
[….]
quale
confronto
di
persone
artistiche,
ciascuna
presente
in
forza,
sul
piano
internazionale
[…].
Permane
a
Venezia
– né
potrebbe
essere
altrimenti,
almeno
per ora
– la
suddivisione
tra le
rappresentanze
dei vari
Paesi,
abolita
in una
mostra
recentissima
quale
“documenta
1959” di
Kassel,
ma quasi
dovunque
l’accento
è posto
su un
aperto
schieramento
di
valori
individuali[45].
‘documenta’
rivoluziona
il modo
di
trattare
l’arte:
la
sottrae
ai
vincoli
nazionalistici
e la fa
essere
l’esito
costruttivo
di una
vivace
interrogazione
culturale,
a
partire
da una
tesi o
da una
serie di
problemi.
La
risposta
a questo
approccio
non si
fa
attendere
e spinge
anzi gli
alti
funzionari
della
Biennale
a un
riposizionamento
virtuoso.
Nel ‘60
viene
emanata
la
Riforma
sulla
Commissione
giudicatrice,
che
l’ente
veneziano
rimette
al voto
dell’Associazione
Internazionale
Critici
Arte. La
giuria
della
mostra
d’arte
risulta
ora
composta
da sette
esperti,
due
italiani
e cinque
stranieri,
eletti
dal
Presidente
sulla
base di
una rosa
di nomi
suggerita
dai
commissari
stranieri.
L’intento
–
afferma
Pallucchini
a chiare
lettere
– è di
«far
coincidere
le
scelte
della
commissione
di
esperti
con il
diagramma
dello
svolgimento
del
gusto,
tracciato
dal
sismografo
sensibilissimo
qual è
la
Biennale.
Diagramma
tale da
documentare
un
processo
storico
che
nessun
critico
può
arrestare
o
frenare»[46].
In
pratica,
si
accoglie
la
ventata
di
democratizzazione
che
‘documenta’
porta e
la si
formalizza.
Ma
l’impianto
della
mostra
resta
storico,
cronologico,
tanto
nella
concezione
quanto
nel
metodo.
Sempre
nel
catalogo
del 1962
un nuovo
riferimento
normativo
articola
la
generica
voce
«pubblicazioni
speciali»,
introdotta
due anni
prima:
La
Biennale
pubblica
il
catalogo
illustrato
dell’esposizione,
catalogo
che è
l’unica
pubblicazione
ufficiale
sulla
mostra,
ammessa
alla
vendita.
I paesi
partecipanti
possono
preparare,
per la
diffusione
a scopo
di
propaganda,
pubblicazioni
particolari
riguardanti
le varie
sezioni,
a
condizione
che esse
non
contengano
il
catalogo
numerato
delle
opere
esposte.
Nessuna
delle
edizioni
esterne
alla
Biennale
può cioè
assumere
i tratti
di una
guida,
ma solo
perseguire
fini
propagandistici,
palesemente
condivisi.
Sul
piano
del
contenuto
l’invariante
del
catalogo,
acquisita
negli
anni e
insuperabile,
sembra
essere
l’expertise
della
costituzione
di una
figura
univoca,
che
riunisce
i
ruoli
attanziali
del
lettore
e del
visitatore.
Il
volume
inscrive
al suo
interno
una
pragmatica
della
comunicazione
e in
questo
modo
crea da
sé il
proprio
contesto.
Resta
l’ambiguità
sul
divieto
di
commercializzazione.
Il
catalogo
del ‘62
si
distingue
per
l’elegante
formato,
alto,
rettangolare
e la
grafica
moderna,
che
rispecchia
i
parametri
della
sua
nuova
immagine
coordinata.
L’ente
stringe
una
collaborazione
con
Massimo
Vignelli
e lo
Studio
Unimark,
per un
progetto
esteso
poi agli
altri
settori
artistici[47].
Sei anni
dopo, il
consenso
accordato
dal
pubblico
alla
formula
di
‘documenta’
e la
necessità
di
considerare
le
istanze
dei
giovani
contestatari,
rompono
il
fronte
storicista.
Werner
Haftmann
aveva
posto a
fondamento
della
mostra
di
Kassel
la
didattica
delle
arti:
«it is
devised
with our
young
generation
in mind,
and the
artists,
poets
and
thinkers
they
follow,
so that
they may
recognize
what
foundations
have
been
laid for
them,
what
inheritance
they
must
nurture
and what
inheritance
must be
overcome»[48].
È
una
prospettiva
che
Dell’Acqua
assumerà
solo nel
1968,
presentando
la XXXI
Biennale
come una
«rassegna
internazionale
pianificata
secondo
un
disegno
critico
preciso,
suddivisa
in vari
capitoli
corrispondenti
ad
altrettanti
settori
di
ricerca,
anche
con
propositi
di
chiarificazione
didattica»[49].
La
visione
è
diversa,
lontana
dagli
ideali
formativi
dello
studioso
tedesco.
Fa
capire,
però,
che ai
vertici
dell’ente
veneziano
si è
finalmente
disposti
ad
entrare
in
rapporto
dialettico
con le
trasformazioni
categoriali
avvenute.
Cruciale
è in
questo
senso
l’edizione
del
1970.
Segna,
infatti,
l’inizio
delle
biennali
a tema,
con
l’annuncio
ambizioso
di
Biennale/ricerca:
«l’intitolazione,
con cui
si è
espresso
il
significato
delle
attività
1970
dell’ente,
corrisponde
di fatto
alla
volontà
degli
organizzatori:
non si
tratta
cioè di
un’etichetta
allettante
e men
che meno
di un
emblema
propagandistico;
intende
bensì
fissare
una
situazione
oggettiva
che
andava
documentata»[50].
Fin da
subito
il tema
della
mostra
chiama a
sé
esplicitazioni
sulla
natura e
la
valenza
del
titolo:
etichetta,
slogan o
designazione
attendibile?
Apollonio
sostiene
la terza
via e
non
indugia
ad
affermare
che «la
rassegna
di
quest’anno
è
sicuramente
più
problematica,
assai
meno
“museografica”,
maggiormente
complessa
per
rapporti
più
flagranti
con
l’attualità
e per
interrogativi
di meno
facile
risoluzione»[51].
Pulsa
una vena
sperimentale,
che
sulla
base di
un
confronto
tra
metodologie
rende la
ricerca
nelle
arti
commensurabile,
per
rigore,
alla
ricerca
nel
campo
delle
scienze
naturali.
Il
nuovo
ordinamento
dell’ente
asseconda
questa
direzione.
Mario
Penelope,
vicecommissario
straordinario
della
XXXII
mostra
(1972),
ne
riporta
un passo
nella
prefazione
al
catalogo:
L’Ente
Biennale
ha lo
scopo di
fornire,
a
livello
internazionale,
documentazione
e
comunicazione
intorno
alle
arti,
assicurando
piena
libertà
di idee
e di
forme
espressive
[…].
Promuove
in modo
permanente
iniziative
idonee
alla
conoscenza,
alla
discussione
e alla
ricerca;
offre
condizioni
atte a
realizzare
nuove
forme di
produzione
artistica;
agevola
la
partecipazione
di ogni
ceto
sociale
alla
vita
artistica
e
culturale.
Alla
Sottocommissione
non
spetta
più solo
di
prescegliere
gli
artisti
italiani
da
invitare,
ma di
studiare,
proporre
e
realizzare
il piano
organico
programmatico
dell’intera
manifestazione[52].
Nell’ex
Padiglione
Italia i
commissari,
Renato
Barilli,
Francesco
Arcangeli,
Marco
Valsecchi,
propongono
inizialmente
un tema,
Opera
e
comportamento,
che poi
diventa
il filo
conduttore
di tutta
la
mostra.
La
tendenza
a un
titolo
trasversale
è forse
all’origine
delle
manovre
che
porteranno
all’«edizione
più
importante
dall’anno
dell’apertura,
capace
di
esprimere
una
dimensione
eristica,
conflittuale,
non
circoscritta
al solo
“ring”
della
critica
e degli
autori,
ma
estesa
all’opinione
pubblica»[53].
Incide
nuovamente
il
modello
di
Kassel,
con cui
si
riduce
il
divario.
Qui, dal
1972,
cioè
dalla
‘documenta
5’,
viene
definita
un’unica
cornice
tematica,
all’interno
della
quale
collocare
le opere
e che
gli
artisti
scelti
sono
chiamati
a
rappresentare.
La
mostra è
ora
sotto
l’egida
di un
direttore
artistico,
Harald
Szeemann
per la
quinta
edizione,
il quale
assume
il ruolo
di
“segretario
generale
con
pieni
poteri”.
Il
catalogo
appare
in una
veste
del
tutto
nuova,
come
raccoglitore
a schede
che
contiene
il
materiale
informativo
dell’evento
e si
apre a
una
progressività.
Acquisisce
i tratti
distintivi
di un
oggetto
diverso
e in
questo
modo
perde la
natura
del
preconfezionato.
La
pietra
di
paragone
è
chiaramente
la nota
mostra
curata
da
Szeemann
alla
Kunsthalle
di Berna
nel
1969,
When
attitudes
become
form.
Oltre a
inaugurare
una
concezione
“prossimale”
dello
spazio
espositivo,
sinergico
all’opera
d’arte,
la
rassegna
presenta,
al posto
del
catalogo,
una
rubrica
suddivisa
per
categorie.
I
singoli
artisti
sono
rintracciabili
con un
ordine
alfabetico
visibile
all’esterno
e la
cura
delle
pagine è
a carico
loro. Lo
strumento
di
conoscenza
dell’arte
diventa
opera
d’arte
esso
stesso[54].
A metà
degli
anni
Settanta,
il
presidente
Carlo
Ripa di
Meana
(1974-1978)
e il
segretario
Floris
Luigi
Ammannati
(1976-1978)
nominano
direttore
del
settore
Arti
visive e
Architettura
Vittorio
Gregotti.
La
XXXVII
Biennale
è la
prima
mostra
per
sezioni,
pensate
per
sviluppare
e
declinare
un unico
argomento,
Arte
ambiente.
Il
catalogo
generale,
in due
tomi,
accoglie
e
presenta
le
partecipazioni
italiane
e
straniere,
costruite
sul
medesimo
tema,
introduce
e
descrive
le dieci
mostre
storico-critiche
presenti,
ma è
soprattutto
la prua
di sei
monografie
autonome.
Questi
fascicoli,
integrativi
al
catalogo,
tornano
però sui
punti di
snodo
del
programma.
Ripa di
Meana[55]
li
immagina
come
«volumi
di
approfondimento
che i
lettori
potranno
conoscere
e usare
anche ad
evento
concluso».
Presentano
la
stessa
griglia
di
impaginazione,
uguale
formato
e
un’immagine
fotografica
ad hoc
per la
copertina.
Le
illustrazioni
sono
intercalate
ai
testi.
Testimoniano,
non da
ultimo,
della
fioritura
di nuovi
spazi
espositivi,
“collaterali”
rispetto
alla
sede
istituzionale
dei
Giardini.
L’esperimento
si
ripete
nel
1978,
intorno
al tema
Dalla
natura
all’arte
e
dall’arte
alla
natura,
messo a
punto da
un
collettivo
internazionale.
Achille
Bonito
Oliva,
coordinatore
della
rassegna
Sei
stazioni
x arte
natura.
La
natura
dell’arte,
individua
motivi e
tipologie
discorsive
quali
“Finestra/interno”,
“L’iconosfera
urbana”,
“La
convenzione
della
visione”[56].
Il
catalogo
generale,
edito da
Electa,
lascia
l’impressione
di una
mostra
poliedrica
ma
ordinata,
intelligibile
al
visitatore,
dove il
titolo è
un
campanello
indicatore
delle
interpretazioni
possibili.
Sbarazzarsi
dei
contenuti.
Cornici
di senso
e tenuta
del
catalogo
Le
Biennali
degli
anni
settanta
hanno il
vantaggio
di una
testualità
forse
ermetica,
ma
desiderosa
di
costruire
un’episteme.
Sono
progettate
come un
modo di
indagare
l’esperienza:
appaiono
luoghi
di
formazione
del
senso,
atti di
significazione.
Se
supportano
una
varietà
di
tematiche,
è però
all’interno
di una
semantica
specifica,
che ne
garantisce
la
coerenza.
Non si
tratta
di una
volontà
circoscritta
a una
fase
della
storia.
Reesa
Greenberg,
Bruce
Ferguson
e Sandy
Nairne
ammettono,
a metà
degli
anni
novanta,
che le
grandi
rassegne
sono i
principali
veicoli
di
disseminazione
del
sapere,
usate
come
introduzione
a
specifici
fenomeni.
Recentemente,
tuttavia,
molte di
esse
appaiono
inconsapevoli
e
acritiche,
per un
disinteresse
verso la
produzione
di
saperi[57].
A un
certo
punto si
è smesso
di
credere
che
l’arte
spinga a
pensare.
Cosa è
accaduto?
Se il
significato
di un
cambiamento
radicale
nell’approccio
all’arte
è
rimasto
latente.
Può
l’analisi
dei
processi
della
mostra
disimplicarlo?
Con la
presidenza
di
Giuseppe
Galasso
(1980-1982),
la
segreteria
di Sisto
Dalla
Palma
(1980-1982)
e la
direzione
artistica
di Luigi
Carluccio
si
ritorna
al
settore
unico.
La
Biennale
del 1980
cancella
con un
colpo di
spugna
il
modello
affermatosi.
Priva di
nutrimenti
teorici,
sposa la
formula
della
retrospettiva
e opta
per la
periodizzazione
storica.
Paradossalmente,
viene
sviluppato
il tema
dell’arte
negli
anni
Settanta.
Questo
non
impedisce
ad
Achille
Bonito
Oliva e
Harald
Szeemann
di
ideare
la
sezione
Aperto,
offrendo
anche ai
giovani
la
possibilità
di
esporre.
L’opacità
delle
idee è
il
piatto
forte
anche
dell’edizione
successiva;
la XL
Biennale,
dove si
scopre
che il
nuovo
orientamento
non è
frutto
dell’oblio,
risponde
a una
consapevole
strategia
della
vaghezza.
Il
catalogo
fornisce
documenti
preziosi
su
processi
altrimenti
incomprensibili.
Nel
“prologo-commiato”
di Sisto
Dalla
Palma si
legge
infatti:
Se
è vero
che in
tante
occasioni,
in
passato,
veniva
messo a
fuoco
programmaticamente
un
assunto
tematico,
a
evidenziare
tensioni
progettuali,
posizioni
e
correnti,
in una
parola
le
dominanti
di una
certa
fase
della
ricerca
artistica
contemporanea,
ora
l’attenzione
è volta
alle
superfici
esterne
della
nebulosa.
Si vuole
ritrovare
l’opera
come
nucleo
della
creatività
artistica[58].
Un
alibi
per
rendersi
arbitri
del
gusto e
non
mediatori
culturali,
questa
volta
con la
stessa
velocità
di
Kassel,
dove
Rudi
Fuchs,
direttore
della
‘documenta
7’
(1982),
dichiara
di
volere
liberare
l’arte
dalle
«parodie
sociali
che la
intrappolano».
La
mostra
«non può
essere
vincolata
da
concetti,
l’opera
deve
potersi
manifestare
senza
impedimenti»[59].
È una
libertà
che
nuoce
alla
tenuta
del
catalogo.
Quantomeno
Jean
Clair,
chiamato
a
presentare
la
Biennale
del
1982,
ammette
l’assurdità
dell’allestimento,
giustificandolo
con il
voler
tener
fede
agli
impegni
e alle
scelte
di un
defunto.
La morte
di
Carluccio,
nel
pieno
dei
preparativi,
aveva
ingenerato
precarietà
e
condizioni
spiacevoli.
Lo
storico
dell’arte
precorre
le
possibili
accuse:
è
perché
sono
esistiti,
in ogni
epoca
del
passato,
degli
uomini
che
ritenevano
avesse
un senso
rimanere
fedeli
ad
un’iniziativa
e
tentare
di
portarla
a
compimento
anche
dopo la
scomparsa
di chi
l’aveva
ideata
che è
esistita
una
Storia
[…]. Non
prenderne
in
considerazione
che
l’assurdità
ha
sempre
preannunciato
l’avvento
della
barbarie,
la
scomparsa
di ogni
sentimento
umano[60].
La
corporate
image
dell’istituzione
cambia
solo nel
1984,
quando
il neo
presidente
Paolo
Portoghesi
(1984-1990)
commissiona
a due
grafici
dello
Studio
Tapiro
il
progetto
per il
nuovo
marchio.
La
collaborazione
attraverserà
il
centenario
della
Biennale
e si
concluderà
nei
primi
anni del
2000.
Portoghesi
nomina
direttore
del
settore
arti
visive
Maurizio
Calvesi
e
recupera
l’uso
delle
mostre
impostate
su temi
unitari.
Ma la
XLI
Esposizione
ha un
titolo
dalle
vedute
troppo
larghe,
Arte
e arti –
Attualità
e storia,
che
difficilmente
lascia
il
segno.
Il
catalogo
generale,
ora
interamente
a colori
e con un
forte
appeal
nella
grafica,
tenta di
restituire
lo
spirito
della
mostra,
raccontandola
anche
attraverso
schede
esplicative
che
precedono
le varie
sezioni.
La
tenuta
resta
bassa.
Si
capisce,
dall’analisi,
che il
volume
sa
essere
un
riflesso
spietato
del
progetto
espositivo
a monte:
in quel
caso ne
manifesta
la
debolezza
intrinseca.
Molto
più
riuscita
è la
Biennale
del
1986,
dedicata
al tema
Arte
e
scienza
e
diretta
dallo
stesso
Calvesi.
Le
sezioni,
riportate
nel
catalogo
e
introdotte
da
schede
dei
relativi
curatori
–
“Spazio”,
“Arte e
alchimia”,
“Wunderkammer”[61],
“Arte e
biologia”,
“Colore”,
“Tecnologia
e
informatica”,
“La
scienza
per
l’arte”
–
risultano
questa
volta
isotopiche
rispetto
al
titolo.
Sono in
grado,
anzi, di
integrare
e
arricchire
la
prospettiva
sulla
mostra.
È una
congiuntura
positiva,
ma
purtroppo
isolata.
Con gli
anni, la
trasformazione
della
mostra
in una
serie di
eventi e
l’attivazione
di un
esteso
circuito
di
interessi
rendono
cogente
il
problema
del
ruolo
del
catalogo.
Tempi e
modi di
preparazione
del
volume
diventano
inidonei
a
rispecchiare
la
manifestazione.
Può
questa
difficoltà
convertirsi
in un
vantaggio?
E se il
catalogo
rinunciasse
alla
funzione
di
ordinamento
gerarchico
per
stabilire
altri
programmi
d’uso?
La
svolta
sembra
utopistica.
L’impossibilità
che il
volume
sia uno
specchio
della
mostra è
evidente
nella
Biennale
del
1990,
presieduta
da
Portoghesi
con la
segreteria
di
Raffaello
Martelli
(1990-1995)
e
diretta,
per il
settore
arti
visive,
da
Giovanni
Carandente.
Il
titolo,
Dimensione
futuro.
L’artista
e lo
spazio,
allude
alla
fuoriuscita
dell’opera
dai
limiti
della
cornice,
verso
occupazioni
ambientali
che
definiscano
nuovi
processi
di
fruizione.
Prevalgono
sculture,
installazioni,
video e
performance,
forzatamente
ridotti,
nell’economia
del
catalogo,
a
inquadrature
singole.
Angela
Vettese
(2000)
denuncia
lucidamente
l’emergere
di
questo
problema:
Le
riproduzioni
fotografiche
delle
opere
del
ventesimo
secolo,
e in
particolare
del
secondo
dopoguerra,
possono
essere
considerate
al
massimo
“prove
indiziarie”
dei loro
soggetti
[…].
L’affermarsi
di
un’arte
prettamente
ambientale,
spesso
basata
sull’interazione
diretta
tra
pubblico
e opera,
rende
l’immagine
fotografica
un
tradimento
ipostatizzante
dell’opera
più che
una sua
riproduzione;
lo
stesso
può
dirsi
per
l’affermarsi
della
corrente
ottico-cinetica,
che ha
posto il
fulcro
dell’opera
nell’inganno
percettivo
e nel
movimento
indotto
al corpo
e
all’occhio
dell’osservatore,
o per le
forme
d’arte
processuale,
come
l’happening
e la
performance,
attente
ai
metodi
operativi
più che
ai
risultati
visivi[62].
Nella
difficoltà
di
distinguere
un’alternativa,
si
prende
la via
più
facile:
l’aumento
del
numero
di
illustrazioni.
L’ipertrofia
di dati,
che
motiva
la
stabilizzazione
di un
formato
ingombrante,
da
biblioteca,
si
ottiene
a spese
dell’esaustività
sull’opera
d’arte.
Il
catalogo,
da
questo
punto di
vista,
diviene
un
modello
di
eclettismo:
è
tuttologico,
ma non
onnicomprensivo.
È
la
ragione
per cui
Catherine
David,
curatrice
di
‘documenta
X’
(1997),
decide
di
abolirlo.
Fa una
scelta
qualitativa.
Immagina
la
‘documenta’
come un
complesso
di tre
parti
equivalenti:
la
rassegna,
un forum
a lungo
termine
tra
artisti,
architetti,
scienziati
e
scrittori
– 100
giorni
per 100
ospiti
– e
un’offerta
editoriale
sfaccettata.
Commuta
il
catalogo
con un
oggetto
di
studio
autonomo,
Das
Buch
Poilitics/Poetics,
pubblicato
insieme
a
Jean-François
Chevrier,
che esce
in
anticipo
rispetto
alla
mostra e
raccoglie
saggi
sulla
teoria
critica
della
cultura
occidentale
dopo il
1945.
Aggiunge
una
short
guide
e
fascicoli
stampati
in
itinere
per
relazionare
sul
forum di
discussione[63].
Quanto
poi al
progetto
espositivo,
la David
evade
dagli
steccati
del
modello
museale
per
articolare
un
parcours
che
attraversi
Kassel e
coinvolga
cinque
diversi
spazi.
Curiosamente,
anche il
tema di
‘documenta
X’ è il
futuro.
All’accezione
spaziale
usata
nella
Biennale
del 1990
si
contrappone
qui
un’accezione
temporale.
Permane
l’idea
dell’approccio
critico
come
prognosi,
anche
nel “looking
back
into the
future”
della
David,
che la
formula
della “retroprospettiva”
mette in
atto. Ma
qui il
futuro è
in linea
diretta
e
comparativa
con il
passato:
serve a
rileggerlo,
invertendo
la
freccia
del
tempo[64].
Tra
lettura
e
visita.
Il
catalogo
venturo
Il
coordinamento
delle
attività
espositive
a fini
editoriali
è
complicato
dal
fatto
che,
come a
Kassel
dal ‘72,
anche la
Biennale
arriva a
coincidere
col
pensiero
di un
curatore
unico.
Questi
sovrintende
ai
progetti
di più
commissioni,
operative
ed
esecutive.
L’indagine
approfondita
sul
“gigantismo”
e i
rivoli
dell’arte
è
rimandata
ad altra
sede,
per
motivi
di
spazio.
Qui si
accennerà
soltanto
al
processo
di
espansione
e
diramazione
della
Mostra,
intrapreso
da
Bonito
Oliva
(1993),
portato
avanti
da
Germano
Celant
(1997) e
che
giunge a
compimento
con
Harald
Szeemann
(1999-2001).
Negli
anni
novanta
il
“Salone”
si
trasforma
in un
reticolo
di
eventi
pulsanti
nella
città di
Venezia.
Per non
soccombere
sotto il
peso
delle
informazioni,
il
catalogo
fa
allora
un passo
indietro
sul
compito
di
documentare
e tenta
di
orientare
razionalmente
il
percorso,
connotandone
le
tappe.
Da
oggetto
con
funzione
commemorativa,
diventa
una
protesi.
Un modo
estremo
per non
smarrire
la
felice
giunzione,
distintiva
del
catalogo
e
inscritta
al suo
interno,
tra
lettura
e
visita?
O anzi
per
arrivare
a
sincronizzare
i due
processi?
Se
l’obiettivo
è
questo,
cade con
decenni
di
ritardo
rispetto
al nume
di
questa
soluzione
nella
storia
del
catalogo,
che è
This is
Tomorrow,
il
volume
della
mostra
del 1956
alla
Whitechapel
Gallery
di
Londra
già
citato.
Lì
l’indice
coincide
graficamente
con la
pianta
della
galleria
e i vari
capitoli
sono
opera
del
gruppo
che ne
ha
realizzato
l’allestimento.
A
Venezia
la
geografia
verbale
indicata
da
Bonito
Oliva in
Punti
cardinali
dell’arte
(1993)
diventa
geografia
visiva
solo con
il
catalogo-dizionario
a/z e
l’immagine
della
via
lattea
in
copertina
di
Celant
(1997)[65].
Questi
trasferisce
astutamente
la
funzione
documentativa
del
volume
all’interno
di un
nuovo
prodotto
editoriale,
La
Biennale
di
Venezia
dal vivo.
È la
prima
guida
separata
nella
storia
della
Mostra,
un
vademecum
di
facile
lettura[66]
che
adombra
il
destino
del
catalogo.
Infine
le
dimensioni
individuate
da
Szeemann,
dAPERTutto
(1999)[67]
e
Platea
dell’umanità
(2001),
costringeranno
la
linearità
della
pagina
alla
tabularizzazione.
La
linea
del
gigantismo,
ovvero
il mare
magnum
di
elementi
disparati
a
discrezione
di un
solo
direttore,
ingenera
nel
tempo i
seguenti
problemi:
I) come
garantire
un
coordinamento
esteso
delle
numerose
mostre
di ogni
edizione
Biennale;
II) come
evitare
che i
cataloghi,
dovendole
descrivere,
diventino
mastodontici
pezzi da
collezione,
impossibili
da
trasportare.
Paradossalmente,
si
chiede
al
catalogo
di
dimagrire
mentre
il
curatore,
assurto
allo
status
di
artista,
rimpinza
la
mostra.
Il
numero
delle
opere
site-specific
e di
natura
installativa,
in
aumento
e
difficili
da
riprodurre,
complica
ulteriormente
la
situazione.
Si corre
il
rischio
di
pubblicare
immagini
di
repertorio,
esemplificative
dell’attività
degli
artisti,
e
disamine
critiche
puramente
indiziarie.
Viene in
mente la
frase di
Andy
Warhol,
«Don’t
pay any
attention
to what
they
write
about
you.
Just
measure
it in
inches»,
riportata
sulla
quarta
di
copertina
della
sua
monografia
“Giant’’
Size (Phaidon
2006),
un
librone
più
grande
di un A3[68].
L’ultima
Biennale
veneziana,
la
cinquantatreesima,
Making
Worlds,
è una
presa di
posizione
teorica
contro
questo
rischio,
condotta
dal
curatore
Daniel
Birnbaum
in
complicità
con il
gruppo
editoriale
Marsilio[69].
Partecipazioni
nazionali
ed
eventi
collaterali
sono
riportati
nel
secondo
tomo.
Nel
primo,
invece,
trova
posto la
mostra
del
curatore.
Qui
risalta
la
differenza
tra le
schede
delle
opere e
un
inserto
con i
contributi
teorico-filosofici
di
Birnbaum,
Jochen
Volz,
Molly
Nesbit,
Sarat
Maharaj,
Édouard
Glissant,
inframmezzati
da
scritti
di Yoko
Ono,
Philippe
Parreno,
Lygia
Pape,
Renata
Lucas.
Questa
sezione,
“temeraria”
per lo
stile,
la
cernita
degli
argomenti,
l’impaginazione
austera,
su carta
ruvida
grigio
chiara,
occupa
tutta la
seconda
metà del
volume;
separati
dalla
presentazione
del
presidente,
Paolo
Baratta,
e dal
testo
introduttivo
di
Birnbaum,
i saggi
si
rivolgono
a un
interlocutore
d’élite,
con la
matita
in mano,
che
abbia
tempo e
voglia
di
concentrarsi.
È la
sfera
immersiva
del
visitatore.
Sfortunatamente,
lo
Stockholm
Design
Lab
(SDL),
responsabile
del
progetto
grafico,
non ha
saputo
coniugare
la
preconizzazione
di una
nuova
identità
del
catalogo
con una
rilegatura
solida.
L’oggetto,
che pure
sembra
adatto a
un
tavolo
da
studio
più che
alla
vetrina
di una
biblioteca,
ricco di
dettagli
artigianali,
si
sfalda
alla
prima
apertura[70].
Per
altro
verso,
il
progetto
di
Birnbaum
rende
esplicita
la
divaricazione
tra il
catalogo
e la
guida
breve.
Lettore
e
visitatore
sono ora
ruoli
distinti,
non più
sovrapponibili.
In
mancanza
di
inchieste
mirate
alla
conoscenza
del
pubblico
del
Salone,
si
sfrutta
al
massimo
la
divergenza
tra gli
specialisti
del
settore
e i
visitatori
da “max
market”,
ai quali
si offre
autonomia
nel
percorso,
in un
linguaggio
elementare,
privo di
pretese.
Il
catalogo
diventa
un libro
di
filosofia,
la guida
un
opuscolo
informativo,
spersonalizzato,
agli
antipodi
rispetto
alle
strategie
enun-ciazionali
“in
soggettiva”
dell’esperimento
di
Celant
(1997).
Ma la
guida
passa,
dalle
trenta
pagine
di sette
anni fa,
alle
cento di
oggi[71].
Allo
stato
attuale,
il piano
di
offerta
dell’editoria
Biennale
è
carente.
Due
prodotti
così
impostati
sono
insufficienti,
anche se
il
catalogo
trova
specificazione
nelle
monografie
dei
padiglioni
e degli
eventi
collaterali,
in
crescita
esponenziale.
La
difficoltà
di
individuare
altre
tipologie
per
nuove
nicchie
di
mercato
deriva
dal
fatto
che le
generalità
dei
frequentatori
della
mostra
ci
sfuggono.
Mancano
monitoraggi
che
forniscano
un
identikit
del
visitatore
o
strategie
di
marketing
che
agiscano
non solo
per la
semplice
diffusione,
ma a
priori,
per la
costruzione
di
pubblici
e
l’estensione
del
progetto
culturale
in senso
orizzontale.
Non è un
paradosso
se
cresce
il
numero
dei
visitatori,
ma è in
calo
l’acquisto
del
catalogo.
Qual è
il
rapporto
tra
pubblico
dell’arte
e
pubblico
comune?[72].
Sono
passanti,
turisti,
alla
maniera
del
personaggio
interpretato
da
Alberto
Sordi e
sua
moglie
nella
divertente
sequenza
di
Dove vai
in vacanza?
(1978).
La
pessima
formazione
della
scuola
italiana,
dove
l’arte
contemporanea
non è
compresa
nei
programmi,
dà tutto
il
diritto
di
andare a
visitare
la
Biennale
impreparati,
da
semplici
curiosi.
Ma quel
pubblico,
quando
si
avvicina
al mondo
dell’arte,
viene
respinto:
Gli
8.550.000
visitatori
non
sanno
per la
maggior
parte
niente,
non
capiscono
niente,
non
amano la
pittura,
non
distinguono
tra
Grünewald
e
Caravaggio,
non
provano
nessuna
gioia,
si
annoiano
mortalmente.
Perché i
milioni
di
visitatori
non
restano
a casa
giocando
a
scopone
o a
tresette,
e non
dormono
nei loro
letti?
Non c’è
niente
da fare.
Oggi, se
c’è un
evento,
tutti
abbandonano
la casa,
la
moglie,
i figli,
la
parentela,
attraversano
l’Oceano
Atlantico,
per poi
poter
dire:
“là
c’ero
anch’io”[73].
Pietro
Citati
disprezza
queste
categorie
di
visitatori,
ma ha
ragione
a dire
che per
molti la
Biennale
è solo
un
evento.
Il
presidente
in
carica
punta
sulla
didattica
delle
arti,
con
mediatori
che
descrivano
i
contenuti
della
mostra
anche a
chi,
generalmente,
non è
interessato.
Non
basta.
Bisognerebbe
riservare
più
spazio
alle
rubriche
d’arte
contemporanea
in tv,
come si
fa con
la
Biennale
cinema,
ad
esempio.
E
rendere
stabile
quella
che in
passato
rappresentava
solo
un’occasione,
cioè la
prassi
di far
commentare
le opere
o le
tematiche
della
Mostra a
figure
esterne
o alla
frontiera
con le
discipline
artistiche:
scrittori,
musicisti,
scienziati,
storici.
Infine,
andrebbe
presa
sul
serio
l’idea
di
commissionare
ricerche
etnografiche
sul
pubblico
della
Biennale.
In
un’epoca
di
concorrenza
turbinosa
–esistono
oggi
centododici
Biennali
internazionali
– uno
spaccato
dei
gusti e
dei
comportamenti
dei
visitatori
aiuterebbe
ad
approntare
efficacemente
catalogo
e guida,
ma anche
a
intravedere
generi
più
accattivanti.
Il
gigantismo
del
catalogo,
ridotto
con
Birnbaum
sia nel
formato
che nel
numero
delle
pagine,
dipende
certo
dalle
manie di
grandezza
del
curatore,
ma è
anche
dovuto
al
difficile
rapporto
con le
immagini.
Per
restituire
un
video,
servono
spesso
fino a
dieci
illustrazioni.
E anche
la
fotografia
o la
pittura
richiedono
angolazioni
diverse.
Si pone
il
problema
di come
rappresentare
adeguatamente
un’opera
e il suo
artista.
Il
catalogo
andrebbe
riconfigurato
attraverso
vie di
implementazione
multimediale[74].
Non
significa
sostituire
la
carta,
ma
integrare
informazioni
che il
volume,
per sua
natura,
non
fornisce:
filmati,
immagini,
spezzoni,
saggi
critici,
scritti
sulle
motivazioni
dei
premi.
Si
potrebbe
pensare,
più che
al dvd o
all’e-book,
a un
sito
dedicato,
utile a
trasformare
il
catalogo
in un
testo
aperto,
accessibile
e
riattivabile
dall’utente.
Così, da
una
parte
permarrebbe
il
cartaceo,
ad
assicurare
una
conservazione
duratura;
dall’altra,
con i
collegamenti
appropriati
e un
forum di
discussione,
si
delineerebbe
un work
in
progress.
L’ASAC,
che per
ogni
edizione
continua
a
raccogliere
aggiornamenti
di ogni
tipo,
potrebbe
gestire
il
servizio,
prolungando
la vita
delle
opere e
restituendo
spirito
di
iniziativa
alla
figura
del
lettore,
mediante
un nuovo
attante
complesso,
il
visitatore/navigatore.
[1] La ricerca riprende e sviluppa i temi discussi nella tavola rotonda omonima, da me coordinata in occasione della giornata di studi Starting from Venice, Venezia, Facoltà di Design & Arti, Iuav, 5 ottobre 2009. Erano presenti: Emanuela Bassetti (Marsilio Editori), Giovanni Bianchi (Università Ca’ Foscari di Venezia), Francesca Castellani (Iuav), Alessandro Dal Lago (Università di Genova), Serena Giordano (Università di Genova), Laura Leuzzi (Università di Roma La Sapienza), Mauro Perosin (Iuav), Laura Tonicello (Iuav).
[2] «L’ordine è, a un tempo, ciò che si dà nelle cose in quanto loro legge interna, il reticolo segreto attraverso cui queste, in qualche modo, si guardano a vicenda, e ciò che non esiste se non attraverso la griglia d’uno sguardo, d’una attenzione, d’un linguaggio». M. Foucault [1966], Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1970, p. 10.
[3] Per una ricognizione complessiva sulla Biennale Arte di Venezia, benché ferma al suo centenario, e cioè al 1995, cfr. E. Di Martino, La Biennale di Venezia: 1895-1995, cento anni di arte e cultura, Mondadori, Milano 1995. Vedi anche AA.VV., La Biennale di Venezia: le esposizioni internazionali d’arte, 1895-1995, Electa, Milano 1996; A. Donaggio, Biennale di Venezia. Un secolo di storia, Giunti, Firenze 1995. Il clima in cui la mostra nasce e si sviluppa è ben illustrato da G. Perocco, Le origini dell’arte moderna a Venezia (1908-1920), Canova, Treviso 1972.
[4] V. Stoichita [1993], L’invenzione del quadro, Il Saggiatore, Milano 1998, p.111.
[5] Il testo di Borghini è riportato in K. Frey, Der literalische Nachlass G. Vasaris, George Müller, Monaco 1930, vol. II, pp. 255-299. Cfr. V. Stoichita [1993], L’invenzione del quadro..., 1998, p. 108. Pietra miliare degli studi sulla museologia, a rapporto coi cataloghi antichi, è D. Murray, Museums: Their History and Their Use, 3 vols., James MacLehose Publication, Glasgow 1904. Sul mecenatismo e sul rapporto fra collezioni private e musei pubblici cfr. F. Haskell [1963], Mecenati e pittori. L’arte e la società italiane nell’età barocca, Allemandi, Torino 2000.
[6] A. Lugli [1983], Naturalia et mirabilia: il collezionismo enciclopedico nelle “Wunderkammern” d’Europa, Mazzotta, Milano 1990.
[7] A. Lugli [1983], Naturalia et mirabilia..., 1990, p. 30.
[8] A. Agard, Discours et Roole des médailles et d’autrez antiquitez, Paris 1611.
[9] Sulla disposizione mereologica degli elementi in un insieme cfr. J.-F. Bordron, “L’iconicité”, in A. Hénault & A. Beyaert, a cura di, Ateliers de sémiotique visuelle, PUF, Paris 2004, pp. 121-150. Cfr. anche U. Eco, Retorica della lista, Bompiani, Milano 2009.
[10] A. Furetière, Dictionnaire Universel, contenant généralement tous les mots François tant vieux que moderns, & les Termes des toutes les Sciences et des Arts, Arnout & Reinier Leers, L’Aja-Rotterdam 1690.
[11] Cfr. B. J. Basiger, The Kunst- und Wunderkammern. A Catalogue Raisonné of Collecting in Germany, France and England, 1565-1750, Tesi di laurea, Pittsburgh 1970, Michigan, Ann Arbor 1979, vol. I, pp. 740-784.
[12] Cfr. W. Benjamin [1937], Eduard Fuchs. Il collezionista e lo storico, in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa, Einaudi, Torino 1966, ed. 1986, pp. 79-123. Cfr. A. Lugli, Arte e meraviglia III, testo inedito di una conferenza tenuta a Roma nell’ambito di un ciclo di incontri a cura di F. Menna, presso l’Associazione culturale Lavatoio Contumaciale il 23 gennaio 1987. Poi in A. Lugli, Wunderkammer, Allemandi, Torino 1997, pp. 112-115.
[13] V. Stoichita [1993], L’invenzione del quadro..., 1998, p. 115.
[14] Ibid., p. 117.
[15] Cfr. K. Frey, Der Literarische Nachlaß Giorgio Vasaris, 2 vols, Munich 1923-1930.
[16] Krzysztof Pomian dà questa definizione dell’oggetto museale. Cfr. K. Pomian [1987], Collezionisti, amatori e curiosi. Parigi-Venezia XVI-XVIII, Il Saggiatore, Milano 1989. L’isotopia è l’effetto di continuità e di coerenza garantito, in un insieme significante, dalla ricorrenza di un elemento semantico, che è una sorta di filo rosso rintracciabile nell’immanenza della significazione. Cfr. T. Migliore, “Lessico dei concetti”, in T. Migliore, a cura di, L’Archivio del Senso. Quaderno della 52. Edizione Internazionale Biennale Arte di Venezia, Etal., Milano 2009b. Cfr. anche P. Fabbri, La svolta semiotica, Laterza, Bari-Roma 1998.
[17] A. Lugli, Wunderkammer..., 1997, pp. 114-115.
[18] W. Benjamin [1927-1940], Parigi. La capitale del XIX secolo, in Angelus novus, trad it. Einaudi, Torino, ed. 1981, p. 148.
[19] È un intreccio attestato, anche in epoca barocca, dalla diffusione dei grossi Thesauri, compilazioni storiche che, con rigore scientifico, raccolgono, in immensi volumi in folio, una sovrabbondanza di notizie su collezioni di naturalia e artificialia. Cfr. J. Von Schlosser [1908], Raccolte d’arte e di meraviglie del tardo Rinascimento, Sansoni, Firenze 1974, pp. 91-92.
[20] Ph. Hamon [1989], Esposizioni: letteratura e architettura nel XIX secolo, CLUEB, Bologna 1995.
[21] Ibid., p. 9. Si ricorderà in proposito il fortunato catalogo della mostra This is Tomorrow, allestita alla Whitechapel Art Gallery di Londra nel 1956. Qui la suddivisione dei capitoli rispecchia le aree espositive e l’indice riproduce, in pianta, la vista della galleria, mappata con dei numeri stencil. A detta del curatore, Lawrence Alloway, «architetti e artisti insieme si sono occupati della manipolazione degli spazi e del controllo del volume. Ogni spazio è una complessa organizzazione visiva e ha un suo messaggio; ogni spazio è legato agli altri spazi in sequenza». L. Alloway in AA.VV., This is Tomorrow, a cura di L. Alloway, R. Banham, D. Lewis, catalogo della mostra, August 8-September 9, Whitechapel Gallery, Londra, 1956.
[22] J. Von Schlosser, Raccolte d’arte e di meraviglie..., 1974, p. 27.
[23] Cfr. Dictionnaire de la conversation et de la lecture, W. Duckett, a cura di, Didot, Paris, 1832-1851, in Ph. Hamon, Esposizioni: letteratura e architettura nel XIX secolo..., 1995, pp. 131-132.
[24] Ph. Hamon [1989], Esposizioni: letteratura e architettura nel XIX secolo, CLUEB, Collana Lexis, Bologna 1995, p. 131.
[25] Ibid., p. 37.
[26] Constantin Meunier, John Lavery, Fritz Thaulow a Filippo Grimani, 7 aprile 1899. In AA.VV, Catalogo della III Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, 22 aprile - 31 ottobre, Carlo Ferrari, Venezia 1899, p. 12.
[27] «Si presentarono a giudizio 595 artisti, con 860 opere, delle quali 645 pitture, 109 sculture, 106 incisioni e disegni). Furono ammessi 148 artisti, con 212 opere, delle quali 118 pitture, 52 sculture e 42 fra disegni e cornici d’acqueforti. La percentuale delle opere ammesse è di poco più del 24%». In AA.VV., Catalogo della VII Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, 22 aprile - 31 ottobre, Carlo Ferrari, Venezia 1907, p. 21.
[28] Cfr. R. Bazzoni, 60 anni della Biennale di Venezia, Edizioni Cesare Lombroso, Venezia 1962, p. 57. Su questi temi cfr. anche N. Barbantini, Biennali, Il Tridente, Venezia 1945 e S. Salvagnini, Il sistema delle arti in Italia 1919-1942, Minerva, Bologna 2000.
[29] A. Stella, Cronistoria della Esposizione Internazionale d’Arte della Città di Venezia 1895-1912, Fabris, Venezia 1912. Cfr. L. Alloway, The Venice Biennale 1895-1968; From Salon to Goldfish Bowl, New York Graphic Society, Greenwich – Connecticut 1968. La formazione degli artisti è un tema che, dopo l’abiura delle avanguardie, tornerà a imporsi solo negli anni settanta. Vedi più avanti, § 3, “Correggere il tiro. Kassel e le prime mostre a tema della Biennale”. Per una riattualizzazione del problema cfr. N. Goodman, Arte in teoria, Arte in azione, a cura di P. Fabbri, Et-al, Milano 2010.
[30] G. Genette [1987], Soglie, Einaudi, Torino 1989, p. 3.
[31] Connotata rispetto alla mostra in sé o ai temi che tratta, la copertina merita un capitolo a parte nella monografia che si intende dedicare al catalogo.
[32] Esce come supplemento della rivista “Le tre Venezie”. La stampa reagisce positivamente. «Il Dadaismo e il Futurismo celebrano l’indipendenza artistica e impegnano al concetto di cura critica; nasce e si sedimenta il carattere dell’animatore culturale, generalmente un artista che conosce i meccanismi della comunicazione e realizza avvenimenti che suscitano spesso clamore. Marinetti per il Futurismo, Duchamp e Tzara per il Dadaismo». Cfr. G. Galassi, Futuristi alla XV Biennale di Venezia, Corriere Padano, 9 giugno 1926. Cfr. T. Migliore, Macchina di visione. Futuristi in Biennale, in T. Migliore e B. Buscaroli, a cura di, Macchina di visione. Futuristi in Biennale, catalogo della Mostra Biennale-ASAC a Ca’ Giustinian, Venezia, 7 giugno - 22 novembre 2009, Marsilio, Venezia 2009, pp. 25-141.
[33] Pietro Orsi, Antonio Maraini e Romolo Bazzoni in AA.VV., Catalogo della XVII Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, maggio-ottobre, Carlo Ferrari, Venezia 1930, p. 6.
[34] Sulla gestione di Maraini cfr. G. Tomasella, Biennali di Guerra. Arte e Propaganda negli Anni del Conflitto (1939-1944), Il Poligrafo, Padova 2001; M. De Sabbata, Tra diplomazia e arte: le biennali di Antonio Maraini (1928-1942), Forum Edizioni, Udine 2006.
[35] L’Istituto nasce, come ricorda lo stesso Varagnolo, dalla ricerca infruttuosa di un dato informativo del passato. A ogni chiusura di edizione, Fradeletto aveva l’abitudine di presentare le sue dimissioni, che poi regolarmente ritirava su invito del sindaco Grimani. L’ufficio di segreteria si riteneva in diritto di ritirarsi anch’esso, cessando i lavori e poi riprendendo, ma da capo. Svolgere attività di conservazione, con queste premesse, era quasi impossibile. Quando Maraini assunse l’incarico, notò lo stato di primitività in cui versava l’ufficio organizzativo e ne decise il trasferimento, fuori da Ca’ Farsetti, a Palazzo Ducale. Cfr. D. Varagnolo, L’Archivio Storico d’arte contemporanea, in AA.VV., Catalogo della XVIII Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, maggio – ottobre, Carlo Ferrari, Venezia 1932, pp. 55-72.
[36] Ibid., pp. 55-57.
[37] R. Pallucchini, introduzione in AA.VV., Catalogo della XXIV Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, maggio – settembre, Edizioni Serenissima, Venezia 1948, XIV.
[38] R. Pallucchini, Venezia, 26 marzo 1948, ai commissari. ASAC, velina dattiloscritta su quattro facciate, priva di firma. ASAC, AV 7, Lettere ai commissari. Cfr. M.C. Bandera, Le prime Biennali del dopoguerra. Il carteggio Longhi-Pallucchini (1948-1956), Charta, Milano 1999, p. 77.
[39] G. Ponti e R. Pallucchini in AA.VV, Catalogo della XXIV Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, giugno – ottobre, Alfieri, Venezia 1950, p. 10.
[40] Cfr. G. Bianchi, Riviste a Venezia negli anni cinquanta: “La Biennale” ed “Evento” e G. Dal Canton, Riviste d’arte a Venezia negli anni sessanta: “La Biennale di venezia e “La vernice” , in G. C. Sciolla, a cura di, Riviste d’arte fra Ottocento ed età contemporanea: forme, modelli e funzioni, Atti del Convegno, Torino 3-5 ottobre 2002, Skira, Milano 2003, pp. 251-270 e pp. 271-281.
[41] Per Pierre Rosenberg il fatto che il catalogo sia prodotto e pubblicato prima dell’arrivo delle opere – aspetto che contraddistingue il catalogo come genere «à part entière» - trasforma automaticamente l’esposizione in un banco di prova e di controllo delle ipotesi. Cfr. P. Rosenberg, L’apport des expositions et de leurs catalogues à l’histoire de l’art, in “Les Cahiers du Musée National d’Art Moderne”, 1989, 29, pp. 49-56.
[42] Cfr. F. Bernabei, Lévi-Strauss e la critica delle arti figurative, La Biennale di Venezia, 1969, nn. 64-65.
[43] Una mossa opportuna. In quel periodo la stampa italiana ed estera stava intentando un “processo alla Biennale”, a causa di uno nuovo Statuto atteso dal 1945, in sostituzione di quello del 1938, e invece mai discusso in Parlamento. Si reclamava inoltre una rassegna selettiva che tenesse conto dei filoni artistici rappresentativi della contemporaneità. «Il proposito dovrebbe essere vagliare i contenuti dell’arte separandoli da ciò che è soltanto avventura personale». Cfr. M. Bernardi, Processo alla Biennale, Corriere d’informazione, Milano, 19-20 novembre 1957.
[44] R. Pallucchini, in AA.VV., Catalogo della XXIX Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, 14 giugno - 19 ottobre, Stamperia di Venezia, Venezia 1958, p. 12.
[45] G.A. Dall’Acqua, introduzione in AA.VV., Catalogo della XXX Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, 18 giugno - 16 ottobre, Stamperia di Venezia, Venezia 1960, LXXI. ‘documenta’, l’esposizione d’arte quinquennale che si tiene a Kassel, in Germania, e che ha il suo fulcro espositivo nel Museum Friedericianum, è stata inaugurata da Arnold Bode nel 1955. Diventa istituzionale nel 1959, in occasione della seconda edizione, citata nel passo di Dall’Acqua. Per d2, Bode e Werner Haftmann, storico dell’arte e mente delle prime tre ‘documenta’, invitano a riflettere sul tema Art after 1945. La data non allude solo alla cesura politica, ma è uno spunto per approfondire l’indagine sul linguaggio dell’astrazione. Cfr. A. Cestelli Guidi, La Documenta di Kassel. Percorsi dell’arte contemporanea, Costa & Nolan, Milano 1997.
[46] R. Pallucchini, in AA.VV., Catalogo della XXXI Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, 16 giugno - 7 ottobre, Stamperia di Venezia, Venezia 1962, p. 2. Pallucchini era stato nominato presidente della commissione per l’edizione del 1962. Cfr. anche R. Pallucchini, Significato e valore della Biennale nella vita artistica veneziana e italiana, in Venezia nell’Unità d’Italia, Sansoni, Firenze 1962, pp. 157-188.
[47] Cfr. L. Tonicello, La Biennale di Venezia 1962-2001. Quarant’anni di grafica per le arti, Tesi di laurea, Iuav, Venezia 2008.
[48] W. Haftmann, introduzione a, in A. Bode, a cura di, documenta I. Kunst des XX. Jahrhunderts, Exhibition Catalogue, Kassel, Museum Fridericianum, 1955, Prestel Verlag, Munich 1955.
[49] G.A. Dell’Acqua, introduzione in AA.VV., Catalogo della XXXIV Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, 22 giugno - 20 ottobre, Fantoni, Venezia 1968, XXIII-XXIV.
[50] U. Apollonio, in AA.VV., Catalogo della XXXV Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, 24 giugno - 25 ottobre, Stamperia di Venezia, Venezia 1970, XV.
[51] Ibid., XVI.
[52] M. Penelope, in AA.VV., Catalogo della XXXVII Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, 1 giugno - 1 ottobre, Alfieri, Venezia 1972, XVII. Il nuovo Statuto sarà approvato in Parlamento il 26 luglio 1973. Cfr. anche W. Dorigo, La contestazione delle manifestazioni artistiche e il problema della trasformazione della Biennale, “Questitalia”, 125-126, agosto-settembre 1968, pp. 69-101.
[53] C. Ripa Di Meana, in AA.VV., Catalogo della XXXVII Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, 14 luglio - 10 ottobre, Alfieri, Venezia 1976, p. 9. Cfr. S. Giannattasio, Si delinea il volto della Biennale, “L’Avanti”, 28 luglio 1976.
[54] Anche il Solomon Guggenheim di New York si cimenta in un’attività di “parcellizzazione” del catalogo e di distribuzione delle tematiche e delle competenze. La mostra Guggenheim International Exhibition (1971), a cura di Thomas Messer, Diane Waldman e Edward Fry, è supportata da una serie di fascicoli sciolti, gestiti dagli artisti e raccolti in una scatola di cartone rivestita con una carta specchiante.
[55] Cfr. C. Ripa Di Meana, in AA.VV., Catalogo della XXXVII Esposizione Internazionale d’Arte..., 1976, p. 9.
[56] Sulla differenza tra tipologia discorsiva, motivo, tema e genere cfr. T. Migliore, Lessico dei concetti, op. cit., voci “genere”, “motivo”.
[57] R. Greenberg, B. Ferguson, S. Nairne, a cura di, Thinking About Exhibitions, Routledge, New York 1996, pp. 1-2.
[58] S. Dalla Palma, in AA.VV., Catalogo della XL Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, 13 giugno - 12 settembre, Electa, Milano 1982, p. 12.
[59] Cfr. R. Fuchs, a cura di, ‘documenta 7’, catalogue (2 voll.), Kassel, vol. 1, XV, D.+V. Paul Dierichs GmbH& co., 1982 Kassel. Benjamin Buchloh ha pubblicato un articolo lucidissimo a riguardo. «È l’assenza di prospettiva, metodologica o storica, per non dire critica e politica, a conferire alla mostra l’impressione di fondo di un’obsolescenza pomposa e pretenziosa […]. Si fa passare per liberalismo quella che è un’egemonia dell’esoterico, restaurata dalla cultura elitaria moderna» (p. 104). B. Buchloh, Documenta 7: A Dictionary of Received Ideas, October, 22, Autumn, The MIT Press, Cambridge 1982, pp. 104-126.
[60] J. Clair, in AA.VV., Catalogo della XL Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, 13 giugno - 12 settembre, Electa, Milano 1982, p. 46.
[61] Vedi il saggio introduttivo di A. Lugli, curatrice della mostra, in Wunderkammer, La Biennale di Venezia, Electa, Milano 1986, pp. 9-28.
[62] Cfr. Enciclopedia Treccani, Esposizioni d’arte, ad vocem a cura di A. Vettese, aggiornamento, 2000, p. 609. È una percezione che ha anche Francis Haskell, a proposito delle monografiche dei grandi maestri del passato. «Ciò che, per definizione, è “temporaneo” ottiene una parvenza di stabilità attraverso superbi ma ingannevoli cataloghi. Ingannevoli perché, dovendo necessariamente limitarsi ai prestiti del caso e non potendo rendere conto di tutte le rilevanti informazioni che emergono dalla mostra stessa, come anche dai contributi che nascono dalle conferenze connesse all’evento, questi cataloghi forniscono solo una visione incompleta e sbilanciata dei soggetti paventati nei loro titoli. Perciò devono forse scoraggiare al contempo il mercato editoriale, per via di promesse che pure erano in grado di mantenere». Cfr. F. Haskell, The Ephemeral Museum: Old Master Paintings and the Rise of the Art Exhibition, New Haven & London, Yale University Press 2000, p. 2. Traduzioni nostre.
[63] Cfr. C. David & J.-F. Chevreir, a cura di, Das Buch. Politics/Poetics, Hatje Cantz, Verlag 1997b. Cfr. anche R. Storr, Kassel Rock - interview with curator Catherine David, ArtForum, May, 1997.
[64] «Tra due artisti successivi X e Y, si attribuisce meccanicamente a X un’azione su Y, mentre, osservando attentamente, ci si accorge che è sempre il secondo elemento il vero motore dell’azione, che sceglie e attrae verso di sé il proprio precursore». Cfr. M. Baxandall [1985], Forme dell’intenzione, Einaudi, Torino 2000, p. 114. Sull’argomento cfr. anche G. Didi-Huberman, Devant le temps, Minuit, Paris 2000.
[65] «Germano Celant a/z Futuro/presente/passato è un’esposizione che attraversa l’arte come fosse una galassia infinita e inafferrabile. Il libro cerca di riproporne una mappa cartacea che non aspira a definire, ma ad offrire alcuni punti di riferimento. Essi evidenziano alcune problematiche del nostro vissuto, indicando soggetti o elementi di illuminazione visuale e mentale. Al fine di costruire una mappa aperta, le definizioni si dispongono sulla pagina come punti-luce su uno stesso piano, così da permettere al lettore un viaggio libero nell’universo dell’arte» (XII). Cfr. G. Celant, in BV 97, Catalogo della XLVII Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, 15 giugno - 9 novembre, a cura di G. Celant, Electa, Milano 1997.
[66] Esce negli stessi giorni della short guide di Catherine David per ‘documenta X’, ma risente di un’appropriazione e di una personalizzazione distintivi. Pubblicata a qualche settimana dalla vernice della mostra, la guida di Celant contiene: le mappe, l’ubicazione degli artisti dalla A alla Z, un close-up sulla rassegna stampa del “giorno dopo”, i fotoreportage degli inviati de “Il Giornale dell’Arte”, un dossier sui premi, “Dove, come, quando e quanto. Chi comanda a Venezia”, e due curiosi articoli di Celant, in cui si intrecciano il punto di vista dello spettatore e quello del curatore, cioè “Una Biennale a cannocchiale rovesciato” e “L’ho fatta astronomica e titanica”.
[67] Szeemann introduce la 48. Biennale con una sorta di manifesto, che indica cosa è dAPERTutto attraverso un elenco di termini, connessi o incrociabili, tra cui annovera, provocatoriamente, la «libertà dall’obbligo di prefazione» (XXI). Cfr. A. Szeemann, DAPERTutto, Catalogo della 48. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, 13 giugno - 7 novembre, a cura di H. Szeemann, Marsilio, Venezia 1999.
[68] Un atteggiamento altrettanto sferzante e ironico verso la mole di cataloghi si ritrova nel progetto artistico di Wiener Gruppe per la Biennale di Venezia del 1997. All’interno del Padiglione austriaco, sotto l’egida del curatore Peter Weibel, il gruppo espone una pila di copie omaggio di un consistente catalogo che ne ricostruisce l’attività. Così il collettivo mutua le leggi del sistema dell’arte, presentandone i modi di fare, e le piega alle proprie necessità.
[69] Nell’ideale di Birnbaum gli artisti invitati “fanno mondi”, concedono all’occhio modelli per pensare. Iniziano sempre da mondi già esistenti; a livello astratto, ne esemplificano alcune proprietà e rivelano sfaccettature inedite. «“Il fare è un rifare” – scrive Nelson Goodman in Ways of Worldmaking – un libro ricco di osservazioni d’attualità che è stato fonte di ispirazione nella preparazione di questo progetto […]. Il fare ruota intorno all’idea di costruire qualcosa che sia possibile condividere». Cfr. D. Birnbaum, Fare mondi. Catalogo della 49. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, 04 giugno - 22 novembre, a cura di D. Birnbaum e J. Volz, Marsilio, Venezia 2009, V.
[70] Pierre Rosenberg sostiene che «un buon catalogo è tale quando lo si cita e utilizza anche dopo che l’esposizione ha chiuso i battenti». Cfr. P. Rosenberg, “L’apport des expositions et de leurs catalogues à l’histoire de l’art”, op. cit., p. 53. È dunque un oggetto “recalcitrante” anche per i grafici, perché si oppone a sperimentazioni che non ne colgano l’identità narrativa. Nel 2009, a questo scopo, Irene Bacchi e Daniela Venturini, insieme ai designer inglesi ÅBÄKE, hanno realizzato il laboratorio Iuav Cataloghi. Tutto il materiale informativo gratuito dei vari padiglioni è stato fotocopiato e impaginato in A3 per creare una versione alternativa al catalogo ufficiale, mirata a una raccolta di artisti, ma anche di grafiche. La deviazione, compiuta a partire dallo stato attuale dell’“originale”, permette una sua maggiore intelligibilità.
[71] I numeri parlano. Tra mostra e librerie vengono vendute oggi circa 25.000 copie del catalogo, al prezzo di 50 euro la coppia, 30 euro il singolo tomo, di cui 1/3 in italiano, 2/3 in inglese, dai 10.000 ai 15.000 in mostra, 10.000 in libreria. La guida, che costa 5-10 euro, quasi un souvenir della visita, vende invece 50.000 copie. Sono cifre rese note da Emanuela Bassetti, direttore editoriale della Marsilio.
[72] In proposito cfr. I. Mononi, L’orientamento del gusto attraverso le Biennali, La Rete, Milano 1958; AA.VV., Venezia e la Biennale. I percorsi del gusto. Catalogo della mostra di Palazzo Ducale e Museo di Ca’ Pesaro, Fabbri Editori, Milano 1995.
[73] P. Citati La Biennale di Venezia, La Repubblica, 5 giugno 2009. Ringrazio Serena Giordano per avermi segnalato questo articolo nella giornata di Starting from Venice.
[74] Cfr. A. Vettese, Artisti si diventa, Carocci, Roma 1996.