Carlo
Ludovico
Ragghianti,
di cui
quest’anno
ricorre
il
centenario
della
nascita,
è stato,
com’è
noto,
uno
degli
interpreti
e
difensori
più
fedeli e
strenui
del
formalismo
e del
neo
idealismo
crociano.
La
complessità
del suo
pensiero
e delle
molteplici
direzioni
di
ricerca,
che
soprattutto
a
partire
dagli
anni
Cinquanta
ha
cercato
nuovi
percorsi,
è già
stata
oggetto
di
diverse
esegesi
storiografiche[1],
unitamente
alla
messa a
fuoco
dell’importanza
del
ruolo
politico
e
intellettuale
rivestiti
dallo
studioso.
Egli,
infatti,
oltreché
storico
dell’arte,
è stato
protagonista
dell’antifascismo,
e, a
partire
dal
secondo
dopoguerra,
una
delle
figure
di
maggior
spicco
nella
ricostruzione
culturale
della
Nuova
Italia[2].
Nel
quadro
delle
componenti
del suo
pensiero
di
storico
dell’arte,
un ruolo
speciale
ha
assunto,
sin
dagli
inizi
della
sua
attività
critica
la
rivalutazione
della
cosiddetta
“Scuola
di
Vienna”[3].
Innanzi
tutto,
va detto
che
Ragghianti
non ha
mai
dedicato
una
sistematica
trattazione
alla
“Scuola
di
Vienna”
e al
metodo
proposto
dai suoi
interpreti;
al
contrario,
più
volte, è
invece
intervenuto
con
numerosi
commenti
e note,
frammentari
e spesso
autobiografici.
Come ha
esplicitamente
dichiarato
nel
1974,
nel
volume
Arte,
fare e
vedere.
Dall’arte
al museo:
«Devo a
questo
punto
introdurre
un altro
chiarimento.
Se credo
che il
mio
pensiero
sia
organico,
anche
perché
mi sono
educato
alla
connessione
rigorosa
delle
diverse
attività
interiori,
non sono
un
sistematico,
ma un
saggista
per
temperamento
e per
rifiuto
di ogni
sclerosi
disciplinare
o
manualistica,
ovviamente
di più
agevole
fortuna.
Perciò
l’esperienza
che ho
compiuto
si trova
in molti
saggi,
note e
commenti
non
ancora
raccolti,
per i
quali mi
riferisco
alla
Bibliografia
1930-1965,
pubblicata
nella
Critica
d’arte,
marzo
1966»[4].
Ragghianti,
nel
toccante
ricordo
dedicato
all’amico
ungherese
Jenö
Lányi,
insieme
al quale
aveva
soggiornato
a Londra
all’Istituto
Warburg
nel
1936,
rivela
che uno
degli
oggetti
preferiti
di
conversazione
tra i
due
amici
era
proprio
il
metodo e
i
problemi
suscitati
dalla
Scuola
viennese
di
Storia
dell’arte.
«[…]
Quanto a
me,
posso a
dire che
i nostri
colloqui,
più che
di
argomento
specialistico,
furono
intessuti
di
problemi
di
metodo
storico
o
critico.
Ricordo,
in
particolare,
che
molto
parlammo
dello
Schlosser,
del
Riegl,
della
scuola
viennese,
che
ricollegandosi
più
direttamente
all’estetica
e alla
linguistica
del
Romanticismo
aveva
potuto
superare
lo
scadimento
della
coscienza
della
forma
artistica
nelle
relazioni
meccanicistiche
dell’organismo
costruito
dalla
psicofisiologia
(ereditando
poi
tutta la
vecchia
scienza
metafisica
del
bello),
e
costituiva
il
“ponte”
più
saldo e
sicuro
per
compiere
il
passaggio
storico
culturale
dal
positivismo
allo
storicismo
come
ricostruzione
critica
dell’espressione»[5].
L’interesse
per i
saggi
dei
maestri
della
Scuola
di
Vienna
di
Ragghianti
risale
fin dal
tempo
dell’Università
di Pisa
(ai
seminari
di
Matteo
Marangoni),
dove
questi,
non
ancora
tradotti
in
lingua
italiana,
venivano
letti e
commentati[6].
In
una nota
autobiografica
sulla
sua
formazione
pisana,
scritta
per il
XX
convegno
dell’Istituto
per gli
incontri
culturali
mitteleuropei
tenutosi
a
Gorizia,
Ragghianti
ricorda
specificamente:
«Il
formalismo
italiano
non
aggiunse
la
conoscenza
diretta
di un
altro
eminente
teorico
e
storico
della
forma,
Alois
Riegl,
conosciuto
invece a
Pisa e
letto
non solo
per i
saggi
basilari
sull’arte
barocca,
allora
tema
dominante
[…], ma
per la
straordinaria
definizione
delle
forme
elementari
od
essenziali
rivelate
dalla
industria
artistica,
fino
allora
ignorate…»[7].
D’altro
canto,
come è
stato
precisato,
è già
dall’inizio
del
Novecento
che in
Italia
alcuni
studiosi
accolgono
la
lezione
dei
viennesi:
la
discutono
o la
applicano[8].
Tale
influenza
si
avverte
successivamente
negli
studi
italiani
sino
agli
anni
venti-trenta
e, a
seguire,
poi
nell’immediato
secondo
dopoguerra.
Gli
storici
dell’arte
e gli
archeologi
italiani,
che
maggiormente
furono
influenzati
dalla
Scuola
di
Vienna
nel
corso
del
Novecento,
sono
stati,
com’è
noto,
tra gli
altri:
Antonio
Muñoz,
Pietro
Toesca,
Roberto
Longhi,
Giuseppe
Galassi,
Alfredo
Gargiulo,
Sergio
Ortolani,
all’inizio
del
nuovo
secolo;
a
seguire
poi,
Ranuccio
Bianchi
Bandinelli,
Carlo
Anti,
Sergio
Bettini
e
Roberto
Salvini.
La
riscoperta
dei
“viennesi”
da parte
della
critica
italiana
del
primo
Novecento,
fra cui
lo
stesso
Ragghianti,
va in
generale
spiegata
storicamente
con lo
spiccato
interesse
rivolto
all’interpretazione
formalistica
(e dello
stile)
delle
opere e
degli
artisti,
portata
prepotentemente
alla
ribalta
dall’idealismo
spiritualista
crociano,
che
riscopre
la “pura
visibilità”
(Ragghianti
stesso è
entusiasta
sostenitore
di
Fiedler),
e che
sino
agli
anni
Cinquanta
crea,
nel
nostro
paese,
una vera
e
propria
barriera
nei
confronti
di altre
modalità
ermeneutiche
applicate
alla
storia
dell’arte:
a
partire
dallo
studio
dell’iconografia
e della
storia
sociale,
ma anche
della
storia
delle
tipologie;
praticate
invece,
contemporaneamente,
nel
mondo
tedesco
e
anglosassone.
Ragghianti,
nei suoi
numerosi
interventi,
come si
è detto,
spesso a
carattere
autobiografico,
commenta
variamente
e con
una
partecipazione
e
interpretazione
personale,
gli
scritti
dei
principali
protagonisti
della
stagione
viennese:
Alois
Riegl,
Julius
von
Schlosser,
Wolfgang
Kallab,
Leo
Planiscig
e Otto
Kurz.
Tra i
viennesi
Ragghianti
assegna
un posto
di
grande
rilievo
all’opera
di Alois
Riegl e
a quella
di
Julius
von
Schlosser.
L’apporto
di Riegl
agli
studi
storicoartistici
è
ritenuto
più
volte
fondamentale
da
Ragghianti[9].
L’importanza
di Riegl,
per
Ragghianti,
di cui
sottolinea
come
vedremo
anche,
crocianamente,
alcuni
presunti
limiti
teoretici,
consiste,
in primo
luogo, e
in
generale,
nell’aver
dato
grande
rilievo,
nella
lettura
e
nell’interpretazione
dell’opera
d’arte,
agli
aspetti
formali
e
stilistici
degli
oggetti
analizzati.
Riegl si
muove
infatti,
a suo
dire[10],
sulla
linea
“forte”
della
ricerca
formalistica
della
critica
d’arte,
«che ha
tante
implicazioni,
senza
parlare
dei
pericoli,
di
astrattezza,
generalizzazione,
tipologia
grammaticale»,
la
quale,
nel
tardo
Ottocento,
da
Fiedler
conduce
a
Wölfflin.
Ragghianti
si
mostra
affascinato,
infatti,
dalla
convinzione
primaria
di Riegl,
espressa
soprattutto
nei
saggi
iniziali
(Stilfragen,
Späprömische
Kunstindustrie),
che
l’opera
d’arte,
nella
sua
organicità
formale
e
strutturale
sia il
punto di
partenza
per
studiare
le
scelte
degli
artisti
e gli
snodi
della
civiltà
artistica,
intesa
primariamente
come
civiltà
“formale”[11].
Scelte e
snodi
che per
Riegl
non sono
affatto
determinati
dagli
aspetti
materiali;
e che
risultano
indipendenti
da
condizionamenti
“esterni”
di
carattere
psicologico,
culturale,
economico.
«A
questi
Riegl –
scrive
infatti
Ragghianti
– oppose
la
libertà
di
scelta
estetica
in
rapporto
alle
contingenze
materiali,
affermando
che
queste
ultime
non
hanno
che
un’influenza
negativa,
senza
mai
determinare
la
forma»[12].
Dichiara
infatti
esplicitamente
Ragghianti,
a questo
proposito,
in un
altro
passaggio:
«Il
[mio]
consenso
a Riegl
è stato
espresso
per una
persuasione
critico-metodica
e per
congenialità,
e non in
ultima
istanza
per
l’eredità
che il
grande
storico
e
analista
viennese
mi ha
lasciato
quanto a
quella
ch’egli
chiamava
“attività
del
negare”
o
“demolizione
pragmatica”
rivolta
agli
schemi
insufficienti
dell’istorismo
e del
positivismo»[13].
Possiamo
aggiungere
inoltre,
sinteticamente,
che la
consonanza
del
pensiero
di
Ragghianti
con
Alois
Riegl,
oltre
all’importanza
assegnata
alle
forme[14]
nella
valutazione
delle
opere
d’arte,
consista
principalmente:
1) nel
disancorare
la
storia e
la
scelta
delle
forme da
ogni
condizionamento
funzionale
e di
carattere
“esterno”
alle
opere;
2) nella
negazione
di ogni
evoluzione,
nel
tempo,
delle
opere
d’arte e
degli
stili;
3)
nell’affermazione
della
parità
tra le
arti
cosidette
“industriali”
decorative
e quelle
definite
impropriamente
“maggiori”.
Un
aspetto
molto
importante
nella
storiografia
riegliana
è
rappresentato
per
Ragghianti
dall’indipendenza
dell’atto
creativo
artistico
espresso
nell’opera
d’arte,
di cui
sottolinea
il
valore
spirituale,
cosciente,
dalla
funzione
a cui
questa è
destinata.
«È
però
anche un
fatto
che il
Riegl –
scrive
Ragghianti
– intese
piuttosto
richiamare
l’attenzione
non già
su un
finalismo
attributivo
all’arte,
ma sul
carattere
di
consapevolezza,
di
presenza
e
attività
spirituale
dell’operare
artistico,
sul suo
carattere
creativo
e
cosciente
e non
già
meccanico,
inconscio
od
esteriormente
determinato
(e ciò
si lega
alla sua
polemica
viva
contro
il
Semper,
i
deterministi
e i
naturalisti)»[15].
Tale
indipendenza
dell’atto
creativo
da
funzionalismo
e
determini-smo
sostenuta
da Riegl,
viene
ancora
ribadito
da
Ragghianti
in una
lucida
pagina
dell’Uomo
cosciente.
Arte e
coscienza
nella
paleostoria
(1981),
in cui
spiega i
meccanismi
di
formazione
dello
“stile
geometrico
paleo
storico”;
il
quale,
secondo
questi
autori,
sorge
spontaneamente,
indipendentemente
dalla
utilità
dell’oggetto
che
decora.
«Dando
per noti
i
principi
basilari
del
Riegl,
sia pure
con
ottimismo
consideriamo
più da
vicino
quel che
delle
sue
Stilfragen
pubblicate
la prima
volta
nel
1893,
incide
di più
sulla
nostra
ricerca.
Il punto
di
partenza
è lo
stile
geometrico
che ogni
constatazione
archeologica
assicura
essere
presente
nelle
fasi più
antiche
della
civiltà
artistica.
Evoluzionismo
anche
darwinismo
e
materialismo
determinista
ne fanno
un
portato
della
tessitura,
una
tecnica
cioè
derivata
dalla
soddisfazione
di un
bisogno
elementare.
Premesso
che ogni
forma
d’arte
ed ogni
immagine,
organica
o
astratta,
ha
indiscutibile
legame
con la
natura
in cui
sorge e
di cui è
parte
l’uomo
vivente,
e che la
stessa
linea
geometrica
è
latente
in
natura e
da essa
liberata
e
portata
a vita
indipendente,
il Riegl
afferma
recisamente
la
generatio
spontanea
della
geometria
che non
ha la
sua
ragione
nell’utilità.
Da una
prima
adeguazione
all’apparenza
fisica
delle
cose con
la
plastica
tridimensionale
l’arte
ha
trasportato
le
immagini
su
superfici
piane
bidimensionali,
e per
ciò
l’emancipazione
della
linea di
contorno
su una
superficie
in una
linea
svincolata
totalmente
dalla
relazione
oggettiva.
Linea e
figura
astratte
hanno
sviluppato
da se
stesse
condizioni
di
determinazione
con le
leggi
matematiche
della
simmetria
e del
ritmo,
che poi
non sono
legate a
condizioni
quali
gli
esseri
organici
e le
stesse
opere
umane
utili,
si
formulano
in forme
universali
anche
nelle
singole
origini
storiche.
[…] La
precedenza
della
forma
geometrica
all’uso
funzionale
è
dimostrata
poi dal
Riegl
allegando
le
esperienze
della
preistoria,
cioè di
un’epoca
sicuramente
priva
della
tecnica
tessile»[16].
Connesso
al tema
del
valore
spirituale
dell’atto
artistico
è in
Riegl
quello
che
volontaristicamente
presiede
alla sua
origine
e che è
rivolto
alla
costituzione
degli
stili,
il
cosidetto
“Kunstwollen”.
Sulla
spiegazione
e sul
significato
del
controverso
concetto
di “Kunstwollen”
in Riegl,
si è
soffermato
più
volte
anche
Ragghianti.
Egli, in
contrasto
con
l’interpretazione
in
chiave
fenomenologica
husserliana,
che
negli
anni
Venti ne
aveva
dato
Erwin
Panofsky[17],
ne vede
le
radici
nella
tradizione
del
pensiero
volontaristico
romantico
tedesco
(Schopenhauer),
ripreso
poi da
Herbart,
con una
anticipazione
in von
Ruhmor,
affacciando
l’idea
di
un’affinità
con il
vitalismo
espresso
dai
classici
(Aristotile);
per
ipotizzarne,
infine,
in
maniera,
a mio
giudizio
forzata,
anche
una
possibile
anticipazione
nei
confronti
dell’idealismo
spiritualista
crociano,
in
particolare
con le
osservazioni
relative
alla
volontarietà
dell’estrinsecazione
espressiva.
Sentiamo
quanto
scrive a
questo
proposito
Ragghianti.
«Kunstwollen:
volere
d’arte.
Volere è
concetto
specificamente
pratico,
e non
estetico,
connesso
con
l’utile
e con il
buono.
Nella
definizione
adottata
dal
Riegl vi
è però
forse
minore
ambiguità
e
confusione
di quel
che può
sembrare
trattando
rigorosamente
l’espressione
da lui
scelta.
L’osservazione
non è
arbitraria,
perché
anche al
tempo
del
Riegl e
nella
filosofia
herbartiana
che egli
seguiva
il
termine
“volere”
aveva
una
precisa
determinazione
storica,
era
inteso
cioè in
tale
connessione
con la
vita
pratica
dello
spirito.
Può
darsi
tuttavia
che il
Riegl,
per la
scelta
definitiva
del
termine,
non sia
stato
insensibile
al
pensiero
di
Schelling
e di
Schopenhauer,
quando
dicono
per
esempio
che la
musica
riproduce
non le
idee, ma
il ritmo
ideale
dell’universo
e in ciò
oggettiva
la
volontà
stessa,
cioè la
vita:
anzi la
relazione,
benché
non
posta,
mi
appare
più che
puramente
suggestiva
storicamente
probabile
[…]».
«È
stato
giustamente
osservato,
per
esempio
dallo
Schlosser,
che il
concetto
chiave
enunciato
dal
Riegl,
il
Kunstwollen,
sebbene
ne fosse
se non
certo
del
tutto
plausibile
la
derivazione
del
Willen
dello
Schopenauer,
e se ne
trovasse
un
precedente
interessante
nel
Künstlerisches
Wollen
del
Rumhor,
era
ambiguo,
tra
l’intuizione-petizione
psichica
e
l’azione
volitiva.
Mi
domando
se il
Riegl,
la cui
conoscenza
del
pensiero
classico
è
sicura,
non
abbia
desunto
dal
Movimento
degli
animali
(o
da altre
opere
tarde)
di
Aristotile
il
concetto
ricorrente
di
orexis,
forza
psichica
intesa
in
genere
come
desiderio,
anche in
relazione
al senso
di
appetizione
del
verbo
originario
oregestai,
e
piuttosto
tensione
uscente
dalle
passioni
dell’organismo,
dai
movimenti
non
involontari
(come
sono il
respiro,
il sonno
e così
via), ma
causati
dall’immaginazione,
la cui
fonte è
la
noèsis,
il
pensare.
In
Aristotile,
l’orexis
è un
agente
che ha
come
conclusione
l’azione
volontaria,
tantoché
si può
identificare
con la
volontà,
ma è
legato
sostanzialmente
ai
contenuti
dell’anima»[18].
«Sarebbe
interessante
poter
documentare
se il
Croce,
quando
costruì
la
teoria
che si
può
volere
non
l’arte,
ma
soltanto
la sua
comunicazione
(“il
fatto
volontario
dell’estrinsecazione”),
ebbe in
mente, e
magari
in un
canto
della
mente,
anche la
teoria
riegliana.
Le
Tesi
sono del
‘98 e la
prima
Estetica
del
1902, e
le date
tornano;
tuttavia
Croce
parla
del
Riegl
soltanto
dopo la
formulazione
della
sua
estetica»[19].
Ragghianti
concorda
poi
pienamente
con
Riegl
nella
negazione
dell’evoluzionismo
darwinista
delle
forme, e
anche
nella
presunta
supremazia
delle
arti
cosidette
“maggiori”
rispetto
a quelle
“minori”[20].
La
concezione
evoluzionistica
di
derivazione
tainiana
è
infatti
ancora
persistente
nella
critica
anche
italiana
dell’inizio
del
secolo
(per
esempio
nei
saggi
giovanili
di
Adolfo
Venturi)[21].
Accanto
a questo
superamento
di ogni
forma
evolutiva
delle
arti nel
tempo,
per
Ragghianti
è
ritenuta
giustamente
decisiva
in Riegl,
la
visione
paritaria
tra
forme
“maggiori”
e “arti
industriali”
o
decorative.
Ragghianti
accoglie
pienamente
la
rivalutazione
fatta da
Riegl
dei
prodotti
artigianali
“industriali”,
che
ritroviamo
anche
nelle
pagine
del
Medioevo
(1927)
di
Pietro
Toesca,
che lo
studioso
lucchese
(se pure
con
riserve),
aveva
seguito
nei
corsi
romani
del
Perfezionamento[22].
Crocianamente,
però la
rivalutazione
delle
arti
artigianali
e
industriali
da parte
di
Ragghianti
non
comprende
l’aspetto
delle
tecniche
di
lavorazione,
illustrate
invece
in
maniera
così
originale
dal
viennese
(la
tecnica,
com’è
noto, è
ritenuta
fatto
secondario,
materiale
nella
costituzione
dell’opera
d’arte)
e
ripreso
dal
Toesca.
L’arte
industriale
infatti
viene
ritenuta
test
importante
per
dimostrare
ulteriormente
la
libertà
creativa
delle
forme
artistiche
e i
passaggi
nel
percorso
storico
del
processo
di
trasformazione
e di
invenzione
delle
stesse.
«Quando
si
accertavano
categorici
dettati
della
forma in
produzioni
standardizzate
dell’artigianato
artistico,
come
avvenne
ad Alois
Riegl
per la
piccola
industria
tardo-romana,
–
scriveva
Ragghianti
– al di
fuori di
ogni
interesse
realistico
o
imitativo,
il fatto
assumeva,
come
assunse,
il
valore
di una
riscoperta
dell’iniziativa
incondizionata
della
forma
artistica»[23].
«È
noto
dagli
studi
fondamentali
di Alois
Riegl
come
le forme
dette
“decorative”,
dalle
più
semplici
alle più
complesse,
siano
state
oggetto
sia di
trasporti,
sia di
prosecuzioni
ed
elaborazioni
multisecolari
e
sovente
riprese
a
distanza,
sicché
esse
formano
per la
loro
parte un
tessuto
connettivo
linguistico
che
documenta
scambi,
relazioni,
accessioni
anche in
situazioni
dove per
altre
vie
euristiche
non si
riuscirebbe
a
segnalarli
o a
determinarli,
intessendo
così la
storia
della
cultura»[24].
L
a
lettura
rigidamente
neo
idealista
che
Ragghianti
dà in
sostanza
del
pensiero
formalista
di Riegl,
lo porta
però a
individuare
i limiti
del
viennese
nell’incapacità
di
trascorrere
dalla
felice
determinazione
dei
caratteri
stilistici
delle
opere ad
«una
vera e
propria
linguistica».
Nel
recensire
l’edizione
tedesca
della
Grammatica
storica
delle
arti
figurative,
edita
postuma
nel
1966,
Ragghianti
, dopo
avere
ribadito
ancora
l’importanza
del
viennese
nella
elaborazione
del
concetto
di «arte
come
spiritualizzazione
dell’istinto
creativo
della
natura»
(di
discendenza
herbartiana
e
possibilmente
con una
mediazione
da
August
Comte),
ne
sottolinea
la
mancanza
del
passaggio,
dopo lo
stadio
di
determinazione
delle
forme,
all’individuazione
del
messaggio
e del
linguaggio
espressivo
personale
dell’artista.
Inoltre,
non
condivide
la
riduzione,
che a
suo
dire,
Riegl fa
della
Kunstgeschichte
come
Kulturgeschichte.
Se
infatti
nel
lavoro
che
Riegl fa
nella
definizione
stilistica
dei
caratteri
formali
delle
opere
d’arte,
si
mostra
insuperabile,
insoddisfacente
riesce
invece
spiegare
la
scelta
degli
stili in
rapporto
alla
concezione
del
mondo e
alle
istanze
culturali
di un
determinato
ambiente.
Per un
verso,
infatti,
Riegl,
secondo
Ragghianti,
procede
«come un
Kunstpuritaner,
ma la
penetrante
e spesso
mirabile
capacità
di
determinazione
comparativa
degli
elementi
stilistici
non
sbocca
in una
vera e
propria
linguistica,
perché
al Riegl
resta
completamente
estraneo
il
problema
essenziale,
quello
del
linguaggio
come
innere
Sprachform,
come
attività
del
parlante
e come
ricostruzione
storica
di
questa
attività».
«Mai
un’opera
d’arte –
aggiunge
– è
perciò
considerata,
o
sospettata
come
processo,
come una
storia,
formazione,
costruzione,
formulazione,
espressione
che si
dica.
Gli
individui
artistici
sono
monadi
immobili,
rigidamente
circoscritte
nella
loro
statica
perché
sommariamente
astratta
visività,
non sono
individui
come
risultati
di una
dinamica
che li
ha fatti
essere
tali
nella
loro
unicità
e
insostituibilità».
«In
Riegl –
sottolinea
ancora –
la
storia
dell’arte
si
collega
alle
Weltanschaungen
e ne
dipendono.
Tra le
Weltanschaungen
e gli
elementi
formali
si
stabilisce
un
rapporto
di causa
ed
effetto:
ogni
concezione
del
mondo
produce
certe
caratteristiche
e
modificazioni
degli
elementi,
eterni e
transeunti
delle
forme.
Le forme
diventano
quindi
simboli
apparenti
delle
idee
religiose
o
filosofiche
ed anche
delle
loro
proiezioni
sociali
e di
costume»[25].
La
posizione
di
Ragghianti
nei
confronti
di una
storia
dell’arte
come
storia
della
cultura
rimane
impermeabile
sino
alla
fine del
suo
percorso
critico.
Anzi, se
all’inizio
della
sua
attività
egli
pare
riconoscere
l’importanza
di Riegl
per le
aperture
verso la
Kulturgeschichte,
che si
radica
nell’ambiente
tedesco
a
partire
dall’ottocento[26],
nel
corso
degli
anni e
soprattutto
nella
fase
finale,
notiamo
un
inasprimento
della
sua
posizione
teorica
nei
confronti
del
filone
warburghiano[27].
Anche se
è
curioso
notare
che
Ragghianti
usa
comunemente
come
sinonimo
di
“opera
d’arte”
il
termine
di
“immagine”;
termine,
che
com’è
noto
appartiene
anche
alla
Bildwissenschaft
warburghiana.
Warburg
però,
ricuperando
il
termine
di
immagine
e il suo
significato
dall’etimo
classico
(imaginis)
rilanciato
nel
rinascimento
e
diffuso
negli
anni
venti
tra i
pensatori
di
cultura
tedesca
(vedi
per
esempio
Wittgenstein,
1921,
1922),
non
intende
assolutamente
sottolineare,
come
invece
fa
Ragghianti,
la forma
e la
struttura
dell’opera,
ma ciò
che essa
significa
nel
contesto
di una
determinata
cultura.
Sarà
invece
da
verificare
meglio
l’uso
che di
questo
termine
nel
dopoguerra
si fa
nell’ambito
storico
critico
italiano
(per
esempio
in
Cesare
Brandi,
che
intitola
una
rivista
proprio
Immagine),
dove
però il
significato
dell’etimo
rinvia
agli
aspetti
formali
dell’opera
d’arte e
all’aspetto
fantastico
(immaginario)
dell’artista
che l’ha
ideata e
costruita.
L
a
posizione
teorica
di
Ragghianti
nei
confronti
del
pensiero
di Riegl
si
presenta
dunque,
in
conclusione,
chiaroscurata:
accanto
all’adesione
incondizionata
per
taluni
aspetti,
si
possono
riscontrare,
come si
è detto,
anche
alcune
riserve.
Se
dalle
posizioni
teoriche
passiamo
a
considerare
ora lo
sviluppo
e i
caratteri
della
storiografia
di
Ragghianti[28],
noteremo
che
nella
scelta
ad ampio
raggio
dei temi
storici
artistici
trattati
possiamo
cogliere
ancora
una
ulteriore,
chiara
consonanza
con
Riegl. È
merito
di
Ragghianti
di avere
esplorato
nel
settore
storiografico
una
enorme
vastità
di
argomenti
e di
problemi,
secondo
una
prospettiva
che
possiamo
a buon
diritto
definire
riegliana.
La sua
indagine
non si
limita
infatti
ad
alcuni
settori
specialistici
della
storia
dell’arte,
ma
spazia
dalla
preistoria
al
Novecento.
Riegliano
è
l’interesse
per le
più
antiche
civiltà
umane:
dalla
paleostoria
all’arte
classica,
al
medioevo.
Ragghianti
infatti
è stato
uno dei
pochi
storici
dell’arte
italiani
a
occuparsi
del
mondo
dell’arte
preistorica
culminata
nella
brillante
sintesi
(L’uomo
cosciente,
Arte
e
conoscenza
nella
paleo
storia,
1981).
Importanti
poi le
sue
ricerche
sull’arte
classica
pompeiana
(Pittori
di
Pompei,
1963).
Fondamentali
gli
studi
sul
medioevo:
dall’alto
Medioevo
(Arte
in
Italia,
2
voll.,
1968; e
ora:
Prius
Ars.
Arte in
Italia
dal
secolo V
al
secolo X,
2010;
Studi
lucchesi
1990,
postumo)
al
tardogotico
(Pittura
tra
Giotto e
Pisanello.
Trecento
e primo
Quattrocento.
Civiltà
artistica
a
Ferrara,1987).
Rieglianamente,
Ragghianti
studia e
recupera
i
problemi
dello
“stile
geometrico”,
della
“decorazione”,
delle
forme
astratte;
la
consapevolezza
della
continuità
tra
mondo
classico
e mondo
medioevale
e
moderno;
la piena
rivalutazione
dei
periodi
della
storia
artistica
cosidetti
“iato”,
come il
tardo
antico,
l’alto
medioevo
e il
tardo
gotico.
A
differenza
di Riegl,
che
recupera
in modo
originale
il senso
della
modernità
del
Barocco[29],
Ragghianti
in una
posizione
quasi
ancora
wölffliniana,
concentra
la sua
attenzione
sul
mondo
rinascimentale,
di cui
il
volume
Brunelleschi
un uomo,
un
universo
può
essere
considerato
la summa
delle
sue
ricerche
e delle
sue
considerazioni
critiche.
È
certo
che poi
che la
riscoperta
del
Neoclassicismo
(l’architettura,
decorazioni
e Canova)
di
Ragghianti
non
possa
prescindere
anche
dalle
riletture
di
questo
periodo
storico
iniziate
da di
Riegl[30].
Infine
l’Otto e
il
Novecento:
per i
quali di
grande
interesse
sono la
rilettura
di
Impressionismo,
1947, e
soprattutto
la
revisione
in
Mondrian
e l’arte
del XX
secolo,
1962.
Come
Riegl
inoltre
Ragghianti
è
fortemente
interessato
ai
problemi
della
conservazione
delle
opere
d’arte e
del
museo.
Kunsttopographie
è altro
concetto
viennese
accolto
da
Ragghianti.
Ben noti
sono i
lavori
di
catalogazione
degli
oggetti
nel
territorio
operata
da
Ragghianti
negli
anni
trenta e
rimasti
inediti
e che
Planiscig
voleva
pubblicare[31];
a cui
seguiranno,
a
partire
dagli
anni
settanta,
le
catalogazioni
dei
musei
minori
italiani
(vedi la
collana
Musei,
meraviglie
d’Italia).
Musei,
che come
la
conservazione
del
patrimonio
artistico
è altro
argomento
viennese
e
riegliano
di
Ragghianti
e di cui
elaborò
anche
un’interessante
teoria[32].
Con
Julius
von
Schlosser,
Ragghianti
ebbe
costantemente
un
rapporto
affettuoso
e
deferente,
se pure
a
distanza,
come
dimostrano
sia
l’epistolario,
i cui
lacerti
esistenti
sono
stati
indagati
con il
consueto
acume da
Emanuele
Pellegrini[33],
sia nei
ricordi
diretti
posteriori
alla sua
morte.
Leggiamo
ad
esempio
il
profilo
che gli
ha
dedicato
nel
1946, in
cui
l’ammirazione
di
Ragghianti
è per l’humanitas
in senso
classico
del
grande
studioso
viennese;
per la
grande
erudizione
fondata
sulla
filologia,
per
l’equilibrio
con cui
si
misura e
tiene
conto
delle
principali
esperienze
critiche
europee
del
tempo:
«Lo
Schlosser
rappresenta
per noi
un tipo
di
studioso
non
famigliare:
di
vastissima
formazione
filologica
ed
archeologica,
linguistica
e
letteraria,
umanistica,
storiografica
ed anche
scientifica,
di
insaziabile
curiosità
di
sapere,
che ebbe
sempre
vivissimo
il senso
della
sua
appartenenza
a una
tradizione
di
studio e
di
lavoro,
ad una
“scuola”,
nel
senso
più
elevato
del
termine.
La sua
esperienza
di vita
coincise
quasi
senza
residui
con la
sua
esperienza
di
studioso,
come si
vede
dalla
sua
ghibertiana
autobiografia,
il
Commentario
della
mia vita,
scritto
nel
1924. Ma
ciò non
si
ridusse
ad una
sclerosi
accademica,
perché
fu
animato
da una
continua,
aperta
riflessione
e
chiarificazione
e dal
vigile
commento
delle
esperienze
fondamentali
della
cultura
europea,
che egli
seguì
sempre
con una
modestia
di
atteggiamento,
con un
rispetto
scrupoloso
per ogni
fatica
di buona
fede,
che non
escludeva
però la
nitidezza
del
giudizio.
I suoi
libri
non sono
opera di
un
outsider,
ma
invece,
in modo
caratteristico
sono
originati
e come
perennemente
occasionati
dalla
circolazione
del suo
pensiero
entro le
correnti
più vive
del
pensiero
del
tempo,
si
inseriscono
quasi
naturalmente
nel
processo
della
cultura,
lo
accompagnano
e
insieme
lo
rischiarano
e
discriminano»[34].
E
lo
stesso
Ragghianti
ne
delinea
poi[35],
con
estrema
chiarezza,
le tappe
del
percorso
di
studio,
mettendone
in
evidenza
le
componenti
culturali.
Innanzi
tutto,
la fase
giovanile,
caratterizzata
dalle
ricerche
sulla
letteratura
artistica,
sugli
oggetti
del
museo
nel
quale
lavorava,
sull’arte
di corte
nel XIV
secolo,
dove è
sensibile
l’influenza
del suo
maestro
Wickhoff
e quindi
di
Dvořák,
ma anche
del
Riegl
per
l’attenzione
per la
storia
culturale
delle
opere
d’arte.
Nel
senso
che «i
prodotti
artistici
rivelano
le
immagini,
i modi
di
pensare,
gli
schemi
le idee,
il
contorno
intellettuale
e morale
collettivo
del
tempo e
vivono
nel
solco
del
coevo
pensiero
sull’arte»[36].
Ragghianti
rileva
poi la
“benefica”
virata
metodologica
negli
studi di
Schlosser
intorno
agli
anni
venti.
Questo
cambiamento
corrisponde
all’incontro
con
l’estetica
crociana,
avvenuta
attraverso
il
linguista
Vossler.
«Venne
da tutto
questo
una
crisi di
meditazione
e di
revisione,
nella
quale fu
accompagnato
dalla
conoscenza
dell’opera
del
Vossler,
finché
scoperse
la
filosofia
crociana
che
doveva
diventare,
come si
è detto,
l’esperienza
fondamentale
della
sua
vita, e
condizionare
tutto il
suo
lavoro
ulteriore,
che fu
di
ampiezza
pari al
precedente»[37].
Tra
questi
lavori
spiccano
quelli
monografici
dedicati
a
Ghiberti
(Commentari),
Piero
della
Francesca,
Leon
Battista
Alberti,
in cui
«il
nuovo
fondamento
od il
nuovo
avvio
che lo
Schlosser
ha dato
a
numerosi
problemi
critici
parte
sempre
secondo
la
metodologia
crociana,
dall’analisi
storica
della
riflessione
sul
fenomeno,
con una
spontaneità
che fu
profondamente
legata
al suo
carattere,
e non
già il
risultato
di una
applicazione
secondaria
o
scolastica
di una
metodica»[38].
Dopo
avere
tratteggiato
il
percorso
complessivo
del
maestro
viennese,
Ragghianti,
anche
per
Schlosser,
come già
per
Riegl,
fa un
sintetico
bilancio,
mettendo
in
evidenza
gli
aspetti,
che
secondo
il suo
punto di
vista
metodologico
e
critico
sono
apprezzabili,
contrapposti
però
anche ad
alcuni
limiti.
L’importanza
di
Schlosser,
secondo
Ragghianti,
consiste
principalmente
nell’aver
compreso
appieno
le
novità
crociane,
di cui
si fa
mediatore
nel
mondo
culturale
tedesco.
In
secondo
luogo,
nella
straordinaria
e
originale
capacità
ermeneutica
di
editore
e di
interprete
delle
antiche
fonti
della
letteratura
artistica
italiana.
«Prima e
dopo il
suo
rinnovamento
spirituale,
il
critico
austriaco
si era
assunto
il
compito
di
essere
un
mediatore,
o
meglio,
come
egli
stesso
soleva
dire “un
ponte”
fra la
cultura
italiana
e la
tedesca»[39].
Per
quanto
riguarda
lo
studio
della
Kunstliteratur
da parte
dello
Schlosser,
Ragghianti
ne
comprende
e valuta
la
“perennità
del
contributo”
allo
studio
delle
fonti e
l’importanza
fondamentale
per gli
studi
storico
artistici,
confluito
nel
famoso
manuale
del
1927.
«[Che è]
ancor
oggi la
sola che
possa e
debba
dirsi
indispensabile
per ogni
studioso
d’arte,
e non
solo per
il
contenuto
d’ineguagliata
ricchezza,
oggettiva
precisione
e
sottile
penetrazione
interpretativa,
ma per
la sua
ispirazione
progressivamente
più
chiara.
L’accertamento
filologico
e
culturale
delle
fonti,
per la
profondità
del
sondaggio
e
l’ampiezza
di
orizzonte
storico
(dal
Medioevo
al
Settecento),
nella
meditazione
estetica
e
critica
si era
costituito
come
organo
unicamente
rispondente
di una
consapevolezza,
nella
quale
teoria e
storia
s’identificavano
e s’intercondizionavano»[40].
Con
queste
considerazioni
Ragghianti
apriva
da par
suo una
finestra
su una
ricerca,
che
ancora
manca,
sul
significato
della
indagine
sulla
letteratura
artistica
e degli
studi
relativi
nella
critica
del
Novecento
e del
suo
rapporto
con la
situazione
europea
in
questo
settore
di
studi.
Essa
riguarda
il
complesso
problema
del
rapporto
tra
storia
dell’arte,
storia
della
critica
d’arte e
storia
della
storiografia.
Inoltre,
le
modalità
di
valutazione
degli
scritti
degli
artisti
degli
amatori
o degli
esperti,
letterarietà
o
semplice
valore
documentario,
valore
critico
o utile
contributo
allo
studio
dei
generi
letterari[41],
nei
quali
talora
vanno
inseriti.
I
limiti
di
Schlosser
evidenziati
da
Ragghianti
consistono
invece,
principalmente,
in due
aspetti.
Ricorso
dello
studioso
austriaco
alla
Kulturgeschichte
e
formalismo
“debole”.
Dell’avversione
di
Ragghianti
per la
storia
dell’arte
come
storia
culturale
si è già
detto a
proposito
di Riegl.
Del
resto
Schlosser
fa
proprie
in
questo
versante
le
esperienze
di
Dvořák e
di Riegl.
«[Schlosser],
attento
alle
tendenze
critiche
che si
manifestavano
al suo
tempo,
esperì
quella
storia
“culturale”
dell’arte,
praticata
più
tipicamente
dal
Dvořák
che
considerava
le opere
non come
prodotti
della
fantasia,
nella
loro
autonoma
essenza
estetica
e
culturale,
ma nella
loro
azione,
cioè
nella
loro
esterna
riflessione,
e
nell’insieme
di
relazioni
contenutistiche
che sono
della
storicità
dell’opera
d’arte,
e
possono
anche
esserne
materia.
In
questo
tipo di
storiografia
era
scaduto
anche il
Riegl,
specialmente
nella
sua
Storia
dell’arte
barocca
in
Italia»[42].
Anche
sulla
ricezione
e
l’avversione
della
storia
dell’arte
come
storia
della
cultura
in
Italia
nei
primi
decenni
del
Novecento
sarà
necessario
ritornare
con
equilibrio.
Si dovrà
perciò
partire
da
Francesco
Malaguzzi
Valeri e
dall’accoglienza
positiva,
ma anche
negativa
(vedi
Longhi),
che
ebbero
le sue
aperture,
ancorate
al mondo
tedesco
e
francese.
Si dovrà
inoltre
riesaminare
l’importanza
e la
modernità
in
questo
senso di
Riegl e
la sua
incidenza
sulla
cultura
italiana
impegnata
nel
dibattito
e nella
rivalutazione
del
barocco.
Si dovrà
studiare
la
situazione
italiana
che si
confronta
talora
polemicamente
sulle
modalità
di
applicare
correttamente
il
formalismo
(vedi
Lionello
Venturi
- Croce
-
Ragghianti)
con
quella
dell’area
tedesca
soprattutto
del
foyer di
Amburgo
(penso
soprattutto
agli
esempi
tardo
ottocenteschi
di
Kulturgeschichte
in
Germania
di
Wolfgang
von
Öettingen,
1888 e
di
Gottfried
Kinkel,
1983)[43].
A
proposito
di
formalismo
e di
comprensione
del
linguaggio
artistico
poi, si
è già
detto
che la
posizione
di
Schlosser,
anche
dopo
l’adesione
all’idealismo
crociano,
rimane
per
Ragghianti
non
soddisfacente.
«Di
questo
quadro
[l’autore
si
riferisce
al
profilo
dello
svolgimento
della
storiografia
dell’austriaco]
occorre
tener
conto
per
valutare
i limiti
dell’opera
dello
Schlosser.
(…)
[Egli
mostra
infatti]
una
capacità
di
vocazione
al gusto
della
forma
nettamente
inferiore
alle sue
gradi
qualità
umanistiche
e
storiografiche.
Nella
interna
comprensione
del
linguaggio
artistico,
cioè
nella
percezione
dell’originalità
delle
forme,
egli,
munito
di tanta
maggiore
chiarezza
di idee
e di
metodo,
rimane
molto
inferiore
al Riegl,
al
Wölfflin,
al
Berenson
e
soprattutto
al
Longhi»[44].
Nei suoi
saggi
infatti
rimane
quasi
sempre
al
livello
delle
definizioni
generali
dei
caratteri
formali
culturali
linguistici,
anziché
addentrasi
nella
definizione
dei
risultati
delle
singole
individualità
e
personalità
artistiche[45].
Negli
anni
trenta
in
Italia
ci si
confronta
anche
con le
più
recenti
opere e
proposte
metodologiche
di un
altro
viennese,
Max
Dvořák.
Su
“L’Arte”
di
Adolfo
Venturi
e
Lionello
Venturi
si
pubblica
un
importante
intervento
critico
di Aldo
Bertini[46].
Nel 1935
compare
il libro
di Gian
Alberto
Dell’Acqua
su
L’arte
italiana
nella
critica
di Max
Dvořák[47].
A sua
volta
Lionello
Venturi
dedicava
al
critico
tedesco
alcuni
paragrafi
nella
sua
Storia
della
critica
d’arte
(1936)[48]
dove
curiosamente
viene
ancora
frainteso
il
valore
del
manierismo
e in
particolare
di
Pontormo
e di
Parmigianino.
Tutti
questi
interventi
sono
principalmente
indirizzati
a
stigmatizzare
e a
respingere
la
cosidetta
impostazione
di
Geistesgeschichte
sviluppata
da
Dvořák.
«La
storia
dello
spirito
significa
per
Dvořák
rapporto
tra la
storia
dell’arte
e la
storia
della
filosofia
e della
religione:
cioè le
forme
astratte,
i dogmi
e i
sistemi
sono
messi in
rapporto
tra loro
dall’esterno,
come
documenti
paralleli
di una
data
civiltà»[49].
La
critica
di
Ragghianti
nei
confronti
di
Dvořák
non
differisce
da
queste
posizioni
fortemente
critiche,
che si
ricollega
alle
riserve
già
evidenziate
prima,
sia in
Riegl
che in
Schlosser,
nei
confronti
della
storia
dell’arte
come
storia
della
cultura.
«[Per
Dvořák]
–
commenta
Ragghianti
in una
serie di
interventi
riuniti
in
Commenti
di
critica
d’arte,
1946[50]
– la
storia
dell’arte
deve
consistere
nel
trovare
i
criteri
oggettivi
dello
sviluppo
storico
dell’arte
cercandone
la
vitalità
e il
valore
specialmente
attraverso
le
relazioni
istituite
con i
contemporanei
atteggiamenti
e
orientamenti
della
cultura».
Il
limite
di
Dvořák
per
Ragghianti
è
duplice.
Da un
lato,
perché
le forme
culturali
(limitate
inoltre
unicamente
alla
filosofia
e alla
religione
mentre
si
trascurano
la
storia
del
linguaggio
della
cultura
figurativa
e delle
idee
estetiche),
che
fanno
parte
delle
Storia
dello
spirito
e che
determinano
le forme
artistiche,
si
adeguano
meglio
ai
contenuti,
piuttosto
che alle
forme e
alle
scelte
stilistiche
degli
artisti.
Dall’altro,
anche
l’uso
delle
tipizzazioni
o schemi
di stile
da parte
di
Dvořák,
mediato
dalla
filosofia
della
storia
del
Dilthey
e che si
ritrova
anche in
Riegl, è
da
respingere,
perché
conduce
a
semplificazioni
inaccettabili
vertendo
su
valori
sostanzialmente
“extra-artistici”.
«Non è
il caso
qui di
discutere
il
valore
metodologico
e
filologico
dei
tipi,
che
inaugurò
il
Dilthey
e dal
quale
passano
nel
Riegl e
poi nel
Dvořák
[…]
Relativamente
a questo
bisogna
osservare
che
l’accettazione
Kunstgeschichte
als
Geistesgeschichte
fu
grossolana,
perché
gli
schemi e
i tipi
che
valevano
nella
rappresentazione
storica
delle
forme
culturali,
filosofiche,
letterarie,
politiche
si
adeguavano
perfettamente
al loro
contenuto;
mentre
questo
contenuto
(linee,
forme,
colori
per
l’arte
figurativa,
e non
concetti,
azioni o
fantasmi
di
linguaggio)
invece
di
essere
indagato
per
quello
che
veramente
esso era
e
significava,
fu
postulato
dal
Dvořák,
trovato
nel
Dilthey
e
inserito
violentemente
nella
storia
dell’arte»[51].
La
discussione
dell’uso
dei tipi
e delle
tipologie
stilistiche
da parte
di
Dvořák
nel caso
del
Gotico e
del
Rinascimento
(come
naturalismo
o
realismo)
viene
approfondita
da
Ragghianti
in
occasione
di una
scheda
sulla
storia
della
critica
relativa
all’arte
dei
Pollaiolo[52].
Sotto il
profilo
storico
culturale,
la
polemica
sull’uso
dei tipi
nella
storia
dell’arte
echeggiata
e
ripresa
a
proposito
di
Dvořák
da
Ragghianti,
non va
isolata,
anzi
approfondita,
e si
dovrà
farlo in
seguito
in
maniera
più
circoscritta
e
documentata,
nel
dibattito
sulla
cosidetta
typenlhere
o storia
dei tipi
o
tipologia
di
grande
attualità
nel
clima
culturale
tedesco
degli
anni
trenta.
La
Storia
dei tipi
o
Typengeschichte
o
analisi
tipologica
(Typenlehere)
studia
la
genesi
dei
cosidetti
“tipi” o
modelli-schemi
sintesi
di forma
e
contenuto
di
un’opera,
le sue
trasformazioni
e i
significati
culturali
assunti
nel
tempo.
Il
concetto
di tipo
è già
presente
nella
letteratura
classica
(Platone,
Aristotile,
Galeno);
viene
riesumato
dagli
studi
scientifici,
psicologici
e
filosofici
della
fine
dell’Ottocento
in
Germania;
quindi
dagli
archeologi
(celebre
il caso
di
Emanuel
Loewy
che nel
1909
pubblica
Typenwanderungen,
migrazioni
e
persistenze
nell’arte
antica);
viene
adottato
infine
anche
dagli
storici
dell’arte
come
Dvořák
che lo
desume
da
Dilthey
e da
Erwin
Panofsky
che lo
discute
in
importanti
saggi
del
1921-32[53],
distinguendo
il
concetto
di tipo
da
quello
di
iconografia
(semplice
descrizione
dei
contenuti
o
soggetti
delle
opere).
Nell’ambito
degli
interessi
di
Ragghianti
per i
maestri
della
scuola
di
Vienna
non va
trascurata
infine,
come già
bene
evidenziato
dal
collega
Pellegrini[54],
l’apprezzamento
per le
indagini
e gli
scritti
di
alcuni
allievi
di
Schlosser.
Tra
questi,
Wolfgang
Kallab,
Leo
Planiscig
e infine
Otto
Kurz.
Wolfgang
Kallab[55],
che si
era
formato
dapprima
a
Berlino
con
Curtius,
Dilthey
e
Goldschmith
e
successivamente
a Graz e
a
Vienna,
dove
venne in
contatto
con
Wickhoff
e poi
con
Schlosser
con il
quale
maturò
la
passione
filologica
per la
letteratura
artistica
antica,
in
particolare
per
Vasari.
La sua
morte
prematura
(morì
trentunenne
nel
1906)
interruppe
i suoi
importanti
Vasaristudien
che
furono
pubblicati
a cura
di
Schlosser
due anni
dopo,
nel
1908.
Ragghianti
consulta
gli
studi di
Kallab
nel
preparare
l’edizione
vasariana
delle
Vite,
che
rimane
uno dei
lavori
filologicamente
più
importanti
nell’ambito
dei suoi
interessi
per le
fonti e
la
letteratura
artistica[56].
Egli ne
rileva
l’importanza
fondamentale
negli
studi
vasariani
per il
rigore
filologico
e le
considerazioni
critiche
letterarie
e
testuali,
con un
partecipato
omaggio
nell’Introduzione
alla sua
edizione
milanese
delle
Vite.
«La
prima
edizione
delle
Vite
(di cui
esiste
una
ristampa
non
felice,
senza
note, a
cura di
C.
Ricci,
Firenze,
Bemporad,
1912,
voll. 4;
e Roma,
Sestetti-Tuminelli,
1927) si
diversifica
per
molti
aspetti
dalla
seconda
(1568)[57],
e non
solo
nell’economia
della
scrittura,
nella
distribuzione
e
quantità
della
materia,
nella
disposizione
delle
parti –
esempio
saliente
i
Proemi
gnomici,
quasi
proposizioni
generali
della
esemplificazione
biografico-aneddotica
che
seguiva,
preposti
alle
singole
Vite
degli
artisti,
che
nella
seconda
edizione
furono
tolti o
rifusi
nel
testo –,
nelle
correzioni
e
aggiunte
notevoli
arrecate
al testo
in un
lavoro
di
revisione
durato
oltre
quindici
anni.
Queste
differenze
furono
con
sagacia
ed
accuratezza
estrema
stabilite
nel
lavoro,
classico
benché
incompiuto,
del
Kallab (Vasaristudien,
pubblicato
postumo
nel
1908),
il quale
resta
basilare
per lo
studio
della
composizione
del
testo
vasariano.
Ma tale
serrata
analisi
si
concretava
poi
nello
stabilire
della
prima
redazione
il più
originale
carattere,
la
maggiore
felicità
letteraria,
una più
compatta
e fusa
struttura,
una più
limpida
determinazione
di tutti
i motivi
intrinsecamente
significativi,
un
insieme
di
qualità
dunque
che
l’ulteriore
elaborazione,
anziché
accrescere
o
perfezionare,
ha in
parte
offuscato.
Su
questo
punto ci
risparmiamo
altre
osservazioni,
rimandando
senz’altro
al
citato
lavoro
del
Kallab,
e alle
acute e
fini
pagine
riassuntive
dello
Schlosser
(Letteratura
artistica,
ed.
ital.,
pp.
253-254)»[58].
Felice
fu
l’incontro
con Leo
Planiscig
e con
Otto
Kurz.
Con
Planiscig,
goriziano
di
origine
e
allievo
a Vienna
di
Schlosser,
studioso
ed
esperto
della
scultura
rinascimentale
italiana
di
indirizzo
filologico
formalista,
Ragghianti
ebbe un
amichevole
scambio
epistolare
che
risale
al 1946[59].
Collega
a Vienna
e poi a
Londra
al
Warburg
Institut
di Ernst
Gombrich,
Otto
Kunrz[60]
si era
formato
al
seminario
di
Schlosser
di cui
aggiornò
il
celeberrimo
manuale
sulla
Letteratura
artistica[61].
Attivo
dapprima
a Vienna
come
collaboratore
di Ernst
Kris,
poi alla
Biblioteca
Warburg
ad
Amburgo
e infine
a Londra
(dove fu
bibliotecario
al
Warburg
e dove
tenne
corsi
universitari
al
Courtauld
e anche
a
Oxford),
fu
studioso
di
erudizione
e
cultura
umanistica
sconfinata
che
spaziava
dalla
cultura
occidentale
e a
quella
orientale.
Ragghianti
fu
affascinato
da
questo
studioso,
allievo
e
discepolo
di
Schlosser,
di cui
apprezzò
in
particolare
il
saggio
sulla
Leggenda
dell’artista,
1936
(scritto
in
collaborazione
con
Kris), e
di cui
fece
tradurre
per Neri
Pozza il
libro
sui
Falsi
e
Falsari
del
1948,
introducendolo
con una
penetrante
prefazione.
«Fuori
dell’arbitraria
riduzione
dell’arte
e degli
artisti
a
sovrastrutture
o
funzioni
di altre
realtà,
è da
ricordare
– scrive
Ragghianti
negli
aggiornamenti
della 2a
edizione
del
Profilo
della
critica
d’arte –
una
ricerca
ispirata
dallo
Schlosser,
di
autentica
giustificazione,
il
volumetto
di Ernst
Kris e
di Otto
Kurz
Die
Legende
vom
Künstler
(Wien,
1934),
che
analizza
le
immagini
o le
rappresentazioni
che
determinati
gruppi
storici
sociali-culturali
si sono
fatte
degli
artisti»[62].
[1] Tra queste vanno menzionate Omaggio a Ragghianti. Critica d’arte in atto. Il ruolo delle riviste in Italia, oggi, Atti del Convegno su Carlo Ludovico Ragghianti, Aula dei gruppi parlamentari, Roma 27 gennaio 1988, a cura di R. Varese, UIA Università Internazionale dell’Arte, Firenze 1997; Carlo Ludovico Ragghianti e il carattere cinematografico della visione, Charta, Milano 2000; Ragghianti critico e politico, a cura di R. Bruno, Franco Angeli, Milano 2004. Due altri convegni su Ragghianti si sono tenuti rispettivamente all’Università di Ferrara (Carlo Ludovico Ragghianti. Un uomo cosciente, Ferrara, 29 ottobre 2009) e a Pisa e a Lucca (Carlo Ludovico Ragghianti: pensiero e azione, Lucca-Pisa, 21-22 maggio 2010); gli atti sono in corso di stampa.
[2] Su questi aspetti dell’azione politica di Ragghianti si veda, oltre ai contributi di U. Baldini, R. Bruno, P. Bonetti e G. Cotroneo pubblicati in Ragghianti critico…, S. Battifoglia, Carlo Ludovico Ragghianti, un critico d’arte in lotta per la libertà, in L’occhio del critico. Storia dell’arte in Italia tra Otto e Novecento, a cura di A. Masi, Vallecchi, Firenze 2009, pp. 117- 132. Infine, rinvio anche alla mia nota Carlo Ludovico Ragghianti a cento anni dalla nascita, in corso di stampa nella rivista Arte/Documento, 2010 (Venezia).
[3] Sulla ricezione della Scuola di Vienna nella critica italiana mi permetto di rinviare ad un mio lontano intervento: La scuola di Vienna e la critica d’arte in Italia agli inizi del XX secolo, in Wien und die Entwicklung der kunsthistorischen Methode, Akten des XXV. Internationalen Kongresses für Kunstgeschichte, Wien, 4-10 september 1983 a cura di S. Krenn, M. Pippal, Hermann Böhlaus Nachfolger, Wien, Köln, Graz, 1984, pp. 65-81 (ripubblicato in Argomenti viennesi, Il Segnalibro, Torino 1993, pp. 9-40). Successivamente si veda: S. Scarrocchia, La ricezione di Riegl nella storia e nella critica d’arte italiana, in Oltre la storia dell’arte. Alois Riegl. Vita e opere di un protagonista della cultura viennese, Marinotti, Milano 2006, pp. 93-147. In questo saggio la posizione di Ragghianti nella riscoperta dei viennesi da parte della critica italiana è curiosamente sottovalutata. A questo proposito è invece illuminante la recensione di S. Viani, Arte, fare e vedere di C.L. Ragghianti, in “Rivista di Studi Crociani”, 1974, fasc. II, pp. 189-197. Più rigorosa e meno confusa dello scritto di Scarrocchia appare invece la ricerca di M. Ghilardi, F. Zevi, Echi di Riegl nella critica italiana, in Alois Riegl (1858-1905). Un secolo dopo, Atti del Convegno internazionale dell’Accademia dei Lincei Roma, 30 novembre - 1 e 2 dicembre 2005, Bardi Editore, Roma 2008, pp. 219-237. Su Ragghianti studioso dei “viennesi” ho fatto inoltre un primo sintetico accenno nell’intervento Carlo Ludovico Ragghianti: per una storia dell’arte globale, presentato alla Giornata di studio del 29 ottobre 2009 all’Università di Ferrara, i cui atti sono ora in corso di stampa nella rivista “Critica d’arte”.
[4] Cfr. C.L. Ragghianti, Arte, fare e vedere. Dall’arte al museo, Vallecchi, Firenze 1974, p. 207.
[5] Cfr. Id., Care reliquie: in memoriam Jenö Lányi, in Il pungolo dell’arte, Neri Pozza, Venezia 1956, p. 389.
[6] Si deve comunque precisare che fu lo stesso Ragghianti a promuovere la traduzione di alcuni importanti saggi viennesi. Più precisamente i seguenti: J. von Schlosser, Poesia e arte figurativa del Trecento, in “La Critica d’arte”, 1938; A. Riegl, Arte tardo romana, a cura di L. Collobi, Einaudi, Torino 1957; A. Riegl, Problemi di stile, a cura di C.A. Quintavalle, Feltrinelli, Milano 1963; J. von Schlosser, L’arte di corte nel secolo decimoquarto, a cura di G.L. Mellini, Edizioni di Comunità, Milano 1965.
[7] Cfr. C.L. Ragghianti, Ritardi culturali, in La scuola viennese di storia dell’arte, a cura di M. Pozzetto, Atti del XX convegno, Istituto per gli incontri culturali mitteleuropei, Gorizia 1986, p. 252.
[8] Va doverosamente ricordato che già nel 1976 Henri Zerner a proposito della ricezione di Riegl in Italia (per la quale si veda nota n.3), che sin dal 1976 Henri Zerner (ora in L’histoire de l’art d’Alois Riegl, in Ecrire l’histoire de l’art. Figures d’une discipline, Gallimard, Paris 1997, p. 36) scriveva: «En de hors des pays germanophones, toutefois, Riegl n’a pas rencontré beaucop d’echo, se ce n’est en Italie, où, Bianchi-Bandinelli e Raghianti [sic] mesuraient bien son importance».
[9] Si veda per tutte: C.L. Ragghianti, Arti della visione. I, Cinema, Einaudi, Torino 1979, p. 53.
[10] Molti sono gli interventi su questo aspetto di Riegl sottolineato da Ragghianti. Per tutti si veda Arti della visione. I…, p. 66.
[11] In tempi più recenti il formalismo di Riegl appare molto più articolato rispetto alla semplificazione che ne dà Ragghianti: si vedano i saggi nella raccolta Framing Formalism. Riegl’s Work, a cura di R. Woodfield, G+B Arts International, Amsterdam 2001.
[12] Cfr. H. Zerner, L’histoire de l’art…, p. 37.
[13] Cfr. C.L. Ragghianti, L’uomo cosciente. Arte e conoscenza nella paleostoria, Calderini, Bologna 1981, p. 232.
[14] Va ricordato inoltre che attraverso Fiedler e Riegl Ragghianti ripensa anche al problema dello spazio e del tempo inteso come elemento costitutivo dell’immagine (sul cui concetto vedi in seguito a p. 11) e come parte integrale dell’espressione individuale (cfr. C.L. Ragghianti, Cinema arte figurativa, Einaudi, Torino 1952, p. 77).
[15] Cfr. C.L. Ragghianti, Ritorno del Riegl, in “Critica d’arte”, n.s., XIII, 80, 1966, pp. 3-8.
[16] Cfr. C.L. Ragghianti, L’uomo cosciente…, p. 231.
[17] Cfr. E. Panofsky, Der Begriff der Kunstwollens, in “Zeitschrift für Ästhetik und allgemeine Kunstwissenschaft” 14, 1920, pp. 321-329.
[18] Cfr. C.L. Ragghianti, Arte essere vivente, Pananti, Firenze 1984, p. 107.
[19] Cfr. Id., Ritorno del Riegl….
[20] Id., Un uomo un universo. Antologia degli scritti, a cura di M.L. Testi Cristiani, R. Varese, M.T. Leoni Zanobini, Le Lettere, Firenze 2000, p. 150.
[21] Sul problema del darwinismo in Venturi cfr. G.C. Sciolla, Appunti sulla fortuna del metodo morelliano e lo studio del disegno in Italia, “fin de siècle”, in “Prospettiva”, 33-36, 1983-1984, pp. 385-389.
[22] Per il giudizio su Pietro Toesca cfr. C.L. Ragghianti, Profilo della critica d’arte in Italia, Vallecchi, Firenze 1973, p. 33.
[23] Cfr. Id., Arte essere vivente…, p. 89.
[24] Cfr. Id., In morte di Julius von Schlosser, (1939), in Un uomo un universo…, p. 150.
[25] Cfr. Id., Ritorno del Riegl…, pp. 3-8.
[26] Per la declinazione di Riegl di una Kunstgeschichte als Kulturgeschichte cfr. ora G. Vasold, Alois Riegl und die Kunstgeschichte als Kulturgeschichte. Überlegungen zum Frühwerk des Wiener Gelehrten, Rombach Verlag, Freiburg im Breisgau 2004.
[27] Cfr. ad esempio nel saggio: Warburg retrospettivo, in “Critica d’arte”, XXI, 134, 1974, pp. 3-5.
[28] Ne ho dato una sintesi critica in C. L. Ragghianti e la storia dell’arte globale, 2010, in corso di stampa nella rivista “Critica d’arte”, alla quale mi permetto di rinviare e nella quale continui sono i riferimenti e il dialogo con i viennesi.
[29] Sul concetto di modernità nel Barocco da parte di Riegl si veda ora: M. Rampley, Subjectivity and Modernism: Riegl and the Ridiscovery of the Baroque, in Framing Formalism…, pp. 265-290.
[30] Cfr. A. Riegl in “Gesammelte Aufsätze”, Filser, Augsburg-Wien, 1929 (si tratta dei due contributi, rispettivamente del 1886 e del 1898, sui mobili e la decorazione d’interni dell’epoca dell’Impero).
[31] Si veda la lettera indirizzata da Planiscig a Ragghianti datata 9 agosto 1946 (Sciolla, in c.d.s.).
[32] Si veda soprattutto il volume: Arte, fare e vedere….
[33] Cfr. E. Pellegrini, Il carteggio von Schlosser-Ragghianti: qualche anticipazione, in Ragghianti critico e politico, Franco Angeli, Milano 2004, pp. 259-290.
[34] Cfr. C.L. Ragghianti, Profilo della critica d’arte…, p. 89.
[35] Cfr. ibid., pp. 86-94.
[36] Cfr. il bel saggio di G.L. Mellini, compianto allievo di Ragghianti, mancato prematuramente, che introduce la traduzione a J. Von Schlosser, Arte di corte…, p. 8.
[37] Cfr. C.L. Ragghianti, Profilo della critica d’arte…, p. 89.
[38] Cfr. ibid., p. 90.
[39] Cfr. ibid., p. 92.
[40] Cfr. ibid., p. 219.
[41] Un primo tentativo di esaminare la Letteratura artistca secondo la suddivisione in generi è stato fatto da A. Chastel, Schlosser et la “Kunstliteratur, in “Cahier du Musée National d’art moderne”, 14, 1984, pp. 38-43.
[42] Cfr. C.L. Ragghianti, Profilo della critica d’arte…, p. 88.
[43] Esempi segnalati recentemente da Dieter Wuttke, L’Hercule à la croisée des chemins d’Erwin Panofsky: l’ouvrage et son importance pour l’historire des sciences de l’art, in Relire Panofsky. Cycle de conférences organisé au musée du Louvre par le Service culturel du 19 novembre au 17 décembre 2001, Beaux-arts de Paris les editions, Paris 2008, pp. 105-147: p. 125.
[44] Cfr. C. L. Ragghianti, Profilo della critica d’arte…, p. 91.
[45] Cfr. ibid., p. 91.
[46] Cfr. A. Bertini, Sulla critica di Dvořák, in “L’Arte”, n.s. II, XXXIV, 1931, pp. 461-467.
[47] Cfr. G.A. Dell’Acqua, L’arte italiana nella critica di Max Dvořák, Sansoni, Firenze 1935.
[48] Cfr. L. Venturi, Storia della critica d’arte, Einaudi, Torino 1964, pp. 236-237.
[49] Cfr. L. Venturi, Storia della critica d’arte…, p. 236.
[50] Cfr. C.L. Ragghianti, Commenti di critica d’arte, Laterza, Bari 1946, vol. II, p. 188.
[51] Cfr. ibid., p. 165.
[52] Cfr. Id., Antonio Pollaiolo e l’arte fiorentina del Quattrocento, in “La Critica d’Arte”, I, 1, 1935, pp. 10-17; ivi, II, 2, 1936, pp. 69-81; ivi, 3, pp. 115-126; ivi, 4, pp. 157-165.
[53] Tra questi spicca: Imago pietatis. Ein Beitrag zur Typengeschichte des “Schmerzenmannes” und der “Maria Mediatrix”, in Festschrift fur Max Friedlander zum 60. Geburtstag, Seemann, Leipzig 1927, pp. 261-309.
[54] In particolare Pellegrini, nel saggio Il carteggio… citato, sottolinea la considerazione di Ragghianti per Otto Kurz.
[55] Su Kallab si veda: Metzler Kunsthistoriker Lexikon, Metzler, Stuttgart-Weimar 1999, pp. 203-204; R. Preimsberger, Wolfgang Kallab (1875-1906): Bruchstücke einer intellettuellen Biographie; mit einer Abbildung, in “Römische Historische Milleilungen”, 50, 2008, pp. 475-497.
[56] Spicca in questo ambito il bellissimo volume Profilo della critica d’arte….
[57] Cfr. C.L. Ragghianti, Introduzione a G. Vasari, Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti, Rizzoli, Milano 1971, p. 11.
[58] Cfr. ibid., p. 11.
[59] Queste lettere sono state pubblicate dallo scrivente nel contributo per il Convegno di Ferrara 2009 (cfr. Carlo Ludovico Ragghianti, in “Critica d’arte”, 2010, in corso di stampa). Su Leo Planiscig si veda: W. Gramberg, Leo Planiscig, in “Kunstkronik”, 5, 1952, pp. 270-275; D. Clini, Una vivace polemica: Adolfo Venturi e Leo Planiscig, in “Studi Goriziani”, 91-92, 2000 (2002), pp. 123-137; Id.; Riegl, Planiscig e la Gestalt-Theorie, in “Memorie storiche forgiulesi”, 82, 2002 (2003), pp. 243-256.
[60] Cfr. Per Otto Kurz si veda: E.H. Gombrich, J. Onias, Wilde, Pevsner, Gombrich, Kurz, Le Kunstgeschichte en Grand- Bretagne, in “Perspective”, 2007, 2, pp. 194-206; E.H. Gombrich, Otto Kurz (1908-1975), in 37 epitaffi di storici dell’arte del Novecento, a cura di S. Ginzburg, Electa, Milano 2008, pp. 154-168.
[61] Cfr. J. von Schlosser, Die Kunstliteratur, Anton Scroll, Wien 1924; ed. it. La letteratura artistica. Manuale delle fonti della storia dell’arte moderna, seconda edizione aggiornata da Otto Kurz, La Nuova Italia, Firenze 1956.
[62] Cfr. C.L. Ragghianti, Profilo della critica d’arte…, p. 213. Il saggio è stato tradotto in italiano molti anni dopo: cfr. La leggenda dell’artista, prefazione di E.H. Gombrich, Boringhieri, Torino 1980.
[63] Cfr. Prefazione in O. Kurz, Falsi e falsari, (Venezia 1961); ed. Neri Pozza, Vicenza 1996, p. 11.