teCLa :: Rivista #1

in questo numero contributi di Gianni Carlo Sciolla, Giovanni Gasbarri, Simona Moretti, Tiziana Migliore, Francesco Paolo Campione.

codice DOI:10.4413/RIVISTA - codice ISSN: 2038-6133
numero di ruolo generale di iscrizione al Registro Stampa: 2583/2010 del 27/07/2010

Carlo Ludovico Ragghianti e la "Scuola di Vienna" di Gianni Carlo Sciolla

Carlo Ludovico Ragghianti, di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita, è stato, com’è noto, uno degli interpreti e difensori più fedeli e strenui del formalismo e del neo idealismo crociano. La complessità del suo pensiero e delle molteplici direzioni di ricerca, che soprattutto a partire dagli anni Cinquanta ha cercato nuovi percorsi, è già stata oggetto di diverse esegesi storiografiche[1], unitamente alla messa a fuoco dell’importanza del ruolo politico e intellettuale rivestiti dallo studioso. Egli, infatti, oltreché storico dell’arte, è stato protagonista dell’antifascismo, e, a partire dal secondo dopoguerra, una delle figure di maggior spicco nella ricostruzione culturale della Nuova Italia[2].

Nel quadro delle componenti del suo pensiero di storico dell’arte, un ruolo speciale ha assunto, sin dagli inizi della sua attività critica la rivalutazione della cosiddetta “Scuola di Vienna”[3].

Innanzi tutto, va detto che Ragghianti non ha mai dedicato una sistematica trattazione alla “Scuola di Vienna” e al metodo proposto dai suoi interpreti; al contrario, più volte, è invece intervenuto con numerosi commenti e note, frammentari e spesso autobiografici. Come ha esplicitamente dichiarato nel 1974, nel volume Arte, fare e vedere. Dall’arte al museo: «Devo a questo punto introdurre un altro chiarimento. Se credo che il mio pensiero sia organico, anche perché mi sono educato alla connessione rigorosa delle diverse attività interiori, non sono un sistematico, ma un saggista per temperamento e per rifiuto di ogni sclerosi disciplinare o manualistica, ovviamente di più agevole fortuna. Perciò l’esperienza che ho compiuto si trova in molti saggi, note e commenti non ancora raccolti, per i quali mi riferisco alla Bibliografia 1930-1965, pubblicata nella Critica d’arte, marzo 1966»[4].

Ragghianti, nel toccante ricordo dedicato all’amico ungherese Jenö Lányi, insieme al quale aveva soggiornato a Londra all’Istituto Warburg nel 1936, rivela che uno degli oggetti preferiti di conversazione tra i due amici era proprio il metodo e i problemi suscitati dalla Scuola viennese di Storia dell’arte.

«[…] Quanto a me, posso a dire che i nostri colloqui, più che di argomento specialistico, furono intessuti di problemi di metodo storico o critico. Ricordo, in particolare, che molto parlammo dello Schlosser, del Riegl, della scuola viennese, che ricollegandosi più direttamente all’estetica e alla linguistica del Romanticismo aveva potuto superare lo scadimento della coscienza della forma artistica nelle relazioni meccanicistiche dell’organismo costruito dalla psicofisiologia (ereditando poi tutta la vecchia scienza metafisica del bello), e costituiva il “ponte” più saldo e sicuro per compiere il passaggio storico culturale dal positivismo allo storicismo come ricostruzione critica dell’espressione»[5].

L’interesse per i saggi dei maestri della Scuola di Vienna di Ragghianti risale fin dal tempo dell’Università di Pisa (ai seminari di Matteo Marangoni), dove questi, non ancora tradotti in lingua italiana, venivano letti e commentati[6].

In una nota autobiografica sulla sua formazione pisana, scritta per il XX convegno dell’Istituto per gli incontri culturali mitteleuropei tenutosi a Gorizia, Ragghianti ricorda specificamente: «Il formalismo italiano non aggiunse la conoscenza diretta di un altro eminente teorico e storico della forma, Alois Riegl, conosciuto invece a Pisa e letto non solo per i saggi basilari sull’arte barocca, allora tema dominante […], ma per la straordinaria definizione delle forme elementari od essenziali rivelate dalla industria artistica, fino allora ignorate…»[7].

D’altro canto, come è stato precisato, è già dall’inizio del Novecento che in Italia alcuni studiosi accolgono la lezione dei viennesi: la discutono o la applicano[8]. Tale influenza si avverte successivamente negli studi italiani sino agli anni venti-trenta e, a seguire, poi nell’immediato secondo dopoguerra.

Gli storici dell’arte e gli archeologi italiani, che maggiormente furono influenzati dalla Scuola di Vienna nel corso del Novecento, sono stati, com’è noto, tra gli altri: Antonio Muñoz, Pietro Toesca, Roberto Longhi, Giuseppe Galassi, Alfredo Gargiulo, Sergio Ortolani, all’inizio del nuovo secolo; a seguire poi, Ranuccio Bianchi Bandinelli, Carlo Anti, Sergio Bettini e Roberto Salvini.

La riscoperta dei “viennesi” da parte della critica italiana del primo Novecento, fra cui lo stesso Ragghianti, va in generale spiegata storicamente con lo spiccato interesse rivolto all’interpretazione formalistica (e dello stile) delle opere e degli artisti, portata prepotentemente alla ribalta dall’idealismo spiritualista crociano, che riscopre la “pura visibilità” (Ragghianti stesso è entusiasta sostenitore di Fiedler), e che sino agli anni Cinquanta crea, nel nostro paese, una vera e propria barriera nei confronti di altre modalità ermeneutiche applicate alla storia dell’arte: a partire dallo studio dell’iconografia e della storia sociale, ma anche della storia delle tipologie; praticate invece, contemporaneamente, nel mondo tedesco e anglosassone.

Ragghianti, nei suoi numerosi interventi, come si è detto, spesso a carattere autobiografico, commenta variamente e con una partecipazione e interpretazione personale, gli scritti dei principali protagonisti della stagione viennese: Alois Riegl, Julius von Schlosser, Wolfgang Kallab, Leo Planiscig e Otto Kurz.

Tra i viennesi Ragghianti assegna un posto di grande rilievo all’opera di Alois Riegl e a quella di Julius von Schlosser. L’apporto di Riegl agli studi storicoartistici è ritenuto più volte fondamentale da Ragghianti[9].

L’importanza di Riegl, per Ragghianti, di cui sottolinea come vedremo anche, crocianamente, alcuni presunti limiti teoretici, consiste, in primo luogo, e in generale, nell’aver dato grande rilievo, nella lettura e nell’interpretazione dell’opera d’arte, agli aspetti formali e stilistici degli oggetti analizzati. Riegl si muove infatti, a suo dire[10], sulla linea “forte” della ricerca formalistica della critica d’arte, «che ha tante implicazioni, senza parlare dei pericoli, di astrattezza, generalizzazione, tipologia grammaticale», la quale, nel tardo Ottocento, da Fiedler conduce a Wölfflin.

Ragghianti si mostra affascinato, infatti, dalla convinzione primaria di Riegl, espressa soprattutto nei saggi iniziali (Stilfragen, Späprömische Kunstindustrie), che l’opera d’arte, nella sua organicità formale e strutturale sia il punto di partenza per studiare le scelte degli artisti e gli snodi della civiltà artistica, intesa primariamente come civiltà “formale”[11]. Scelte e snodi che per Riegl non sono affatto determinati dagli aspetti materiali; e che risultano indipendenti da condizionamenti “esterni” di carattere psicologico, culturale, economico. «A questi Riegl – scrive infatti Ragghianti – oppose la libertà di scelta estetica in rapporto alle contingenze materiali, affermando che queste ultime non hanno che un’influenza negativa, senza mai determinare la forma»[12].

Dichiara infatti esplicitamente Ragghianti, a questo proposito, in un altro passaggio: «Il [mio] consenso a Riegl è stato espresso per una persuasione critico-metodica e per congenialità, e non in ultima istanza per l’eredità che il grande storico e analista viennese mi ha lasciato quanto a quella ch’egli chiamava “attività del negare” o “demolizione pragmatica” rivolta agli schemi insufficienti dell’istorismo e del positivismo»[13].

Possiamo aggiungere inoltre, sinteticamente, che la consonanza del pensiero di Ragghianti con Alois Riegl, oltre all’importanza assegnata alle forme[14] nella valutazione delle opere d’arte, consista principalmente: 1) nel disancorare la storia e la scelta delle forme da ogni condizionamento funzionale e di carattere “esterno” alle opere; 2) nella negazione di ogni evoluzione, nel tempo, delle opere d’arte e degli stili; 3) nell’affermazione della parità tra le arti cosidette “industriali” decorative e quelle definite impropriamente “maggiori”.

Un aspetto molto importante nella storiografia riegliana è rappresentato per Ragghianti dall’indipendenza dell’atto creativo artistico espresso nell’opera d’arte, di cui sottolinea il valore spirituale, cosciente, dalla funzione a cui questa è destinata.

«È però anche un fatto che il Riegl – scrive Ragghianti – intese piuttosto richiamare l’attenzione non già su un finalismo attributivo all’arte, ma sul carattere di consapevolezza, di presenza e attività spirituale dell’operare artistico, sul suo carattere creativo e cosciente e non già meccanico, inconscio od esteriormente determinato (e ciò si lega alla sua polemica viva contro il Semper, i deterministi e i naturalisti)»[15].

Tale   indipendenza dell’atto creativo da funzionalismo e determini-smo sostenuta da Riegl, viene ancora ribadito da Ragghianti in una lucida pagina dell’Uomo cosciente. Arte e coscienza nella paleostoria (1981), in cui spiega i meccanismi di formazione dello “stile geometrico paleo storico”; il quale, secondo questi autori, sorge spontaneamente, indipendentemente dalla utilità dell’oggetto che decora.

«Dando per noti i principi basilari del Riegl, sia pure con ottimismo consideriamo più da vicino quel che delle sue Stilfragen pubblicate la prima volta nel 1893, incide di più sulla nostra ricerca. Il punto di partenza è lo stile geometrico che ogni constatazione archeologica assicura essere presente nelle fasi più antiche della civiltà artistica. Evoluzionismo anche darwinismo e materialismo determinista ne fanno un portato della tessitura, una tecnica cioè derivata dalla soddisfazione di un bisogno elementare. Premesso che ogni forma d’arte ed ogni immagine, organica o astratta, ha indiscutibile legame con la natura in cui sorge e di cui è parte l’uomo vivente, e che la stessa linea geometrica è latente in natura e da essa liberata e portata a vita indipendente, il Riegl afferma recisamente la generatio spontanea della geometria che non ha la sua ragione nell’utilità. Da una prima adeguazione all’apparenza fisica delle cose con la plastica tridimensionale l’arte ha trasportato le immagini su superfici piane bidimensionali, e per ciò l’emancipazione della linea di contorno su una superficie in una linea svincolata totalmente dalla relazione oggettiva. Linea e figura astratte hanno sviluppato da se stesse condizioni di determinazione con le leggi matematiche della simmetria e del ritmo, che poi non sono legate a condizioni quali gli esseri organici e le stesse opere umane utili, si formulano in forme universali anche nelle singole origini storiche. […] La precedenza della forma geometrica all’uso funzionale è dimostrata poi dal Riegl allegando le esperienze della preistoria, cioè di un’epoca sicuramente priva della tecnica tessile»[16].

Connesso al tema del valore spirituale dell’atto artistico è in Riegl quello che volontaristicamente presiede alla sua origine e che è rivolto alla costituzione degli stili, il cosidetto “Kunstwollen”. Sulla spiegazione e sul significato del controverso concetto di “Kunstwollen” in Riegl, si è soffermato più volte anche Ragghianti. Egli, in contrasto con l’interpretazione in chiave fenomenologica husserliana, che negli anni Venti ne aveva dato Erwin Panofsky[17], ne vede le radici nella tradizione del pensiero volontaristico romantico tedesco (Schopenhauer), ripreso poi da Herbart, con una anticipazione in von Ruhmor, affacciando l’idea di un’affinità con il vitalismo espresso dai classici (Aristotile); per ipotizzarne, infine, in maniera, a mio giudizio forzata, anche una possibile anticipazione nei confronti dell’idealismo spiritualista crociano, in particolare con le osservazioni relative alla volontarietà dell’estrinsecazione espressiva.

Sentiamo quanto scrive a questo proposito Ragghianti. «Kunstwollen: volere d’arte. Volere è concetto specificamente pratico, e non estetico, connesso con l’utile e con il buono. Nella definizione adottata dal Riegl vi è però forse minore ambiguità e confusione di quel che può sembrare trattando rigorosamente l’espressione da lui scelta. L’osservazione non è arbitraria, perché anche al tempo del Riegl e nella filosofia herbartiana che egli seguiva il termine “volere” aveva una precisa determinazione storica, era inteso cioè in tale connessione con la vita pratica dello spirito. Può darsi tuttavia che il Riegl, per la scelta definitiva del termine, non sia stato insensibile al pensiero di Schelling e di Schopenhauer, quando dicono per esempio che la musica riproduce non le idee, ma il ritmo ideale dell’universo e in ciò oggettiva la volontà stessa, cioè la vita: anzi la relazione, benché non posta, mi appare più che puramente suggestiva storicamente probabile […]».

«È stato giustamente osservato, per esempio dallo Schlosser, che il concetto chiave enunciato dal Riegl, il Kunstwollen, sebbene ne fosse se non certo del tutto plausibile la derivazione del Willen dello Schopenauer, e se ne trovasse un precedente interessante nel Künstlerisches Wollen del Rumhor, era ambiguo, tra l’intuizione-petizione psichica e l’azione volitiva. Mi domando se il Riegl, la cui conoscenza del pensiero classico è sicura, non abbia desunto dal Movimento degli animali (o da altre opere tarde) di Aristotile il concetto ricorrente di orexis, forza psichica intesa in genere come desiderio, anche in relazione al senso di appetizione del verbo originario oregestai, e piuttosto tensione uscente dalle passioni dell’organismo, dai movimenti non involontari (come sono il respiro, il sonno e così via), ma causati dall’immaginazione, la cui fonte è la noèsis, il pensare. In Aristotile, l’orexis è un agente che ha come conclusione l’azione volontaria, tantoché si può identificare con la volontà, ma è legato sostanzialmente ai contenuti dell’anima»[18].

«Sarebbe interessante poter documentare se il Croce, quando costruì la teoria che si può volere non l’arte, ma soltanto la sua comunicazione (“il fatto volontario dell’estrinsecazione”), ebbe in mente, e magari in un canto della mente, anche la teoria riegliana. Le Tesi sono del ‘98 e la prima Estetica del 1902, e le date tornano; tuttavia Croce parla del Riegl soltanto dopo la formulazione della sua estetica»[19].

Ragghianti concorda poi pienamente con Riegl nella negazione dell’evoluzionismo  darwinista delle forme, e anche nella presunta supremazia delle arti cosidette “maggiori” rispetto a quelle “minori”[20].

La concezione evoluzionistica di derivazione tainiana è infatti ancora persistente nella critica anche italiana dell’inizio del secolo (per esempio nei saggi giovanili di Adolfo Venturi)[21].

Accanto a questo superamento di ogni forma evolutiva delle arti nel tempo, per Ragghianti è ritenuta giustamente decisiva in Riegl, la visione paritaria tra forme “maggiori” e “arti industriali” o decorative.

Ragghianti accoglie pienamente la rivalutazione fatta da Riegl dei prodotti artigianali “industriali”, che ritroviamo anche nelle pagine del Medioevo (1927) di Pietro Toesca, che lo studioso lucchese (se pure con riserve), aveva seguito nei corsi romani del Perfezionamento[22].

Crocianamente, però la rivalutazione delle arti artigianali e industriali da parte di Ragghianti non comprende l’aspetto delle tecniche di lavorazione, illustrate invece in maniera così originale dal viennese (la tecnica, com’è noto, è ritenuta fatto secondario, materiale nella costituzione dell’opera d’arte) e ripreso dal Toesca. L’arte industriale infatti viene ritenuta test importante per dimostrare ulteriormente la libertà creativa delle forme artistiche e i passaggi nel percorso storico del processo di trasformazione e di invenzione delle stesse.

«Quando si accertavano categorici dettati della forma in produzioni standardizzate dell’artigianato artistico, come avvenne ad Alois Riegl per la piccola industria tardo-romana, – scriveva Ragghianti – al di fuori di ogni interesse realistico o imitativo, il fatto assumeva, come assunse, il valore di una riscoperta dell’iniziativa incondizionata della forma artistica»[23].

«È noto dagli studi fondamentali di Alois Riegl come le forme dette “decorative”, dalle più semplici alle più complesse, siano state oggetto sia di trasporti, sia di prosecuzioni ed elaborazioni multisecolari e sovente riprese a distanza, sicché esse formano per la loro parte un tessuto connettivo linguistico che documenta scambi, relazioni, accessioni anche in situazioni dove per altre vie euristiche non si riuscirebbe a segnalarli o a determinarli, intessendo così la storia della cultura»[24].

L a lettura rigidamente neo idealista che Ragghianti dà in sostanza del pensiero formalista di Riegl, lo porta però a individuare i limiti del viennese nell’incapacità di trascorrere dalla felice determinazione dei caratteri stilistici delle opere ad «una vera e propria linguistica».

Nel recensire l’edizione tedesca della Grammatica storica delle arti figurative, edita postuma nel 1966, Ragghianti , dopo avere ribadito ancora l’importanza del viennese nella elaborazione del concetto di «arte come spiritualizzazione dell’istinto creativo della natura» (di discendenza herbartiana e possibilmente con una mediazione da August Comte), ne sottolinea la mancanza del passaggio, dopo lo stadio di determinazione delle forme, all’individuazione del messaggio e del linguaggio espressivo personale dell’artista. Inoltre, non condivide la riduzione, che a suo dire, Riegl fa della Kunstgeschichte come Kulturgeschichte.

Se infatti nel lavoro che Riegl fa nella definizione stilistica dei caratteri formali delle opere d’arte, si mostra insuperabile, insoddisfacente riesce invece spiegare la scelta degli stili in rapporto alla concezione del mondo e alle istanze culturali di un determinato ambiente.

Per un verso, infatti, Riegl, secondo Ragghianti, procede «come un Kunstpuritaner, ma la penetrante e spesso mirabile capacità di determinazione comparativa degli elementi stilistici non sbocca in una vera e propria linguistica, perché al Riegl resta completamente estraneo il problema essenziale, quello del linguaggio come innere Sprachform, come attività del parlante e come ricostruzione storica di questa attività». «Mai un’opera d’arte – aggiunge – è perciò considerata, o sospettata come processo, come una storia, formazione, costruzione, formulazione, espressione che si dica. Gli individui artistici sono monadi immobili, rigidamente circoscritte nella loro statica perché sommariamente astratta visività, non sono individui come risultati di una dinamica che li ha fatti essere tali nella loro unicità e insostituibilità».

«In Riegl – sottolinea ancora – la storia dell’arte si collega alle Weltanschaungen e ne dipendono. Tra le Weltanschaungen e gli elementi formali si stabilisce un rapporto di causa ed effetto: ogni concezione del mondo produce certe caratteristiche e modificazioni degli elementi, eterni e transeunti delle forme. Le forme diventano quindi simboli apparenti delle idee religiose o filosofiche ed anche delle loro proiezioni sociali e di costume»[25].

La posizione di Ragghianti nei confronti di una storia dell’arte come storia della cultura rimane impermeabile sino alla fine del suo percorso critico.

Anzi, se all’inizio della sua attività egli pare riconoscere l’importanza di Riegl per le aperture verso la Kulturgeschichte, che si radica nell’ambiente tedesco a partire dall’ottocento[26], nel corso degli anni e soprattutto nella fase finale, notiamo un inasprimento della sua posizione teorica nei confronti del filone warburghiano[27]. Anche se è curioso notare che Ragghianti usa comunemente come sinonimo di “opera d’arte” il termine di “immagine”; termine, che com’è noto appartiene anche alla Bildwissenschaft warburghiana.

Warburg però, ricuperando il termine di immagine e il suo significato dall’etimo classico (imaginis) rilanciato nel rinascimento e diffuso negli anni venti tra i pensatori di cultura tedesca (vedi per esempio Wittgenstein, 1921, 1922), non intende assolutamente sottolineare, come invece fa Ragghianti, la forma e la struttura dell’opera, ma ciò che essa significa nel contesto di una determinata cultura.

Sarà invece da verificare meglio l’uso che di questo termine nel dopoguerra si fa nell’ambito storico critico italiano (per esempio in Cesare Brandi, che intitola una rivista proprio Immagine), dove però il significato dell’etimo rinvia agli aspetti formali dell’opera d’arte e all’aspetto fantastico (immaginario) dell’artista che l’ha ideata e costruita.

L a posizione teorica di Ragghianti nei confronti del pensiero di Riegl si presenta dunque, in conclusione, chiaroscurata: accanto all’adesione incondizionata per taluni aspetti, si possono riscontrare, come si è detto, anche alcune riserve.

Se dalle posizioni teoriche passiamo a considerare ora lo sviluppo e i caratteri della storiografia di Ragghianti[28], noteremo che nella scelta ad ampio raggio dei temi storici artistici trattati possiamo cogliere ancora una ulteriore, chiara consonanza con Riegl. È merito di Ragghianti di avere esplorato nel settore storiografico una enorme vastità di argomenti e di problemi, secondo una prospettiva che possiamo a buon diritto definire riegliana. La sua indagine non si limita infatti ad alcuni settori specialistici della storia dell’arte, ma spazia dalla preistoria al Novecento. Riegliano è l’interesse per le più antiche civiltà umane: dalla paleostoria all’arte classica, al medioevo.

Ragghianti infatti è stato uno dei pochi storici dell’arte italiani a occuparsi del mondo dell’arte preistorica culminata nella brillante sintesi (L’uomo cosciente, Arte e conoscenza nella paleo storia, 1981). Importanti poi le sue ricerche sull’arte classica pompeiana (Pittori di Pompei, 1963). Fondamentali gli studi sul medioevo: dall’alto Medioevo (Arte in Italia, 2 voll., 1968; e ora: Prius Ars. Arte in Italia dal secolo V al secolo X, 2010; Studi lucchesi 1990, postumo) al tardogotico (Pittura tra Giotto e Pisanello. Trecento e primo Quattrocento. Civiltà artistica a Ferrara,1987).

Rieglianamente, Ragghianti studia e recupera i problemi dello “stile geometrico”, della “decorazione”, delle forme astratte; la consapevolezza della continuità tra mondo classico e mondo medioevale e moderno; la piena rivalutazione dei periodi della storia artistica cosidetti “iato”, come il tardo antico, l’alto medioevo e il tardo gotico.

A differenza di Riegl, che recupera in modo originale il senso della modernità del Barocco[29], Ragghianti in una posizione quasi ancora wölffliniana, concentra la sua attenzione sul mondo rinascimentale, di cui il volume Brunelleschi un uomo, un universo può essere considerato la summa delle sue ricerche e delle sue considerazioni critiche.

È certo che poi che la riscoperta del Neoclassicismo (l’architettura, decorazioni e Canova) di Ragghianti non possa prescindere anche dalle riletture di questo periodo storico iniziate da di Riegl[30].

Infine l’Otto e il Novecento: per i quali di grande interesse sono la rilettura di Impressionismo, 1947, e soprattutto la revisione in Mondrian e l’arte del XX secolo, 1962.

Come Riegl inoltre Ragghianti è fortemente interessato ai problemi della conservazione delle opere d’arte e del museo.

Kunsttopographie è altro concetto viennese accolto da Ragghianti. Ben noti sono i lavori di catalogazione degli oggetti nel territorio operata da Ragghianti negli anni trenta e rimasti inediti e che Planiscig voleva pubblicare[31]; a cui seguiranno, a partire dagli anni settanta, le catalogazioni dei musei minori italiani (vedi la collana Musei, meraviglie d’Italia). Musei, che come la conservazione del patrimonio artistico è altro argomento viennese e riegliano di Ragghianti e di cui elaborò anche un’interessante teoria[32].

Con Julius von Schlosser, Ragghianti ebbe costantemente un rapporto affettuoso e deferente, se pure a distanza, come dimostrano sia l’epistolario, i cui lacerti esistenti sono stati indagati con il consueto acume da Emanuele Pellegrini[33], sia nei ricordi diretti posteriori alla sua morte.

Leggiamo ad esempio il profilo che gli ha dedicato nel 1946, in cui l’ammirazione di Ragghianti è per l’humanitas in senso classico del grande studioso viennese; per la grande erudizione fondata sulla filologia, per l’equilibrio con cui si misura e tiene conto delle principali esperienze critiche europee del tempo: «Lo Schlosser rappresenta per noi un tipo di studioso non famigliare: di vastissima formazione filologica ed archeologica, linguistica e letteraria, umanistica, storiografica ed anche scientifica, di insaziabile curiosità di sapere, che ebbe sempre vivissimo il senso della sua appartenenza a una tradizione di studio e di lavoro, ad una “scuola”, nel senso più elevato del termine. La sua esperienza di vita coincise quasi senza residui con la sua esperienza di studioso, come si vede dalla sua ghibertiana autobiografia, il Commentario della mia vita, scritto nel 1924. Ma ciò non si ridusse ad una sclerosi accademica, perché fu animato da una continua, aperta riflessione e chiarificazione e dal vigile commento delle esperienze fondamentali della cultura europea, che egli seguì sempre con una modestia di atteggiamento, con un rispetto scrupoloso per ogni fatica di buona fede, che non escludeva però la nitidezza del giudizio. I suoi libri non sono opera di un outsider, ma invece, in modo caratteristico sono originati e come perennemente occasionati dalla circolazione del suo pensiero entro le correnti più vive del pensiero del tempo, si inseriscono quasi naturalmente nel processo della cultura, lo accompagnano e insieme lo rischiarano e discriminano»[34].

E lo stesso Ragghianti ne delinea poi[35], con estrema chiarezza, le tappe del percorso di studio, mettendone in evidenza le componenti culturali. Innanzi tutto, la fase giovanile, caratterizzata dalle ricerche sulla letteratura artistica, sugli oggetti del museo nel quale lavorava, sull’arte di corte nel XIV secolo, dove è sensibile l’influenza del suo maestro Wickhoff e quindi di Dvořák, ma anche del Riegl per l’attenzione per la storia culturale delle opere d’arte. Nel senso che «i prodotti artistici rivelano le immagini, i modi di pensare, gli schemi le idee, il contorno intellettuale e morale collettivo del tempo e vivono nel solco del coevo pensiero sull’arte»[36].

Ragghianti rileva poi la “benefica” virata metodologica negli studi di Schlosser intorno agli anni venti. Questo cambiamento corrisponde all’incontro con l’estetica crociana, avvenuta attraverso il linguista Vossler. «Venne da tutto questo una crisi di meditazione e di revisione, nella quale fu accompagnato dalla conoscenza dell’opera del Vossler, finché scoperse la filosofia crociana che doveva diventare, come si è detto, l’esperienza fondamentale della sua vita, e condizionare tutto il suo lavoro ulteriore, che fu di ampiezza pari al precedente»[37].

Tra questi lavori spiccano quelli monografici dedicati a Ghiberti (Commentari), Piero della Francesca, Leon Battista Alberti, in cui «il nuovo fondamento od il nuovo avvio che lo Schlosser ha dato a numerosi problemi critici parte sempre secondo la metodologia crociana, dall’analisi storica della riflessione sul fenomeno, con una spontaneità che fu profondamente legata al suo carattere, e non già il risultato di una applicazione secondaria o scolastica di una metodica»[38].

Dopo avere tratteggiato il percorso complessivo del maestro viennese, Ragghianti, anche per Schlosser, come già per Riegl, fa un sintetico bilancio, mettendo in evidenza gli aspetti, che secondo il suo punto di vista metodologico e critico sono apprezzabili, contrapposti però anche ad alcuni limiti.

L’importanza di Schlosser, secondo Ragghianti, consiste principalmente nell’aver compreso appieno le novità crociane, di cui si fa mediatore nel mondo culturale tedesco. In secondo luogo, nella straordinaria e originale capacità ermeneutica di editore e di interprete delle antiche fonti della letteratura artistica italiana.

«Prima e dopo il suo rinnovamento spirituale, il critico austriaco si era assunto il compito di essere un mediatore, o meglio, come egli stesso soleva dire “un ponte” fra la cultura italiana e la tedesca»[39].

Per quanto riguarda lo studio della Kunstliteratur da parte dello Schlosser, Ragghianti ne comprende e valuta la “perennità del contributo” allo studio delle fonti e l’importanza fondamentale per gli studi storico artistici, confluito nel famoso manuale del 1927.

«[Che è] ancor oggi la sola che possa e debba dirsi indispensabile per ogni studioso d’arte, e non solo per il contenuto d’ineguagliata ricchezza, oggettiva precisione e sottile penetrazione interpretativa, ma per la sua ispirazione progressivamente più chiara. L’accertamento filologico e culturale delle fonti, per la profondità del sondaggio e l’ampiezza di orizzonte storico (dal Medioevo al Settecento), nella meditazione estetica e critica si era costituito come organo unicamente rispondente di una consapevolezza, nella quale teoria e storia s’identificavano e s’intercondizionavano»[40].

Con queste considerazioni Ragghianti apriva da par suo una finestra su una ricerca, che ancora manca, sul significato della indagine sulla letteratura artistica e degli studi relativi nella critica del Novecento e del suo rapporto con la situazione europea in questo settore di studi.

Essa riguarda il complesso problema del rapporto tra storia dell’arte, storia della critica d’arte e storia della storiografia. Inoltre, le modalità di valutazione degli scritti degli artisti degli amatori o degli esperti, letterarietà o semplice valore documentario, valore critico o utile contributo allo studio dei generi letterari[41], nei quali talora vanno inseriti.

I limiti di Schlosser evidenziati da Ragghianti consistono invece, principalmente, in due aspetti. Ricorso dello studioso austriaco alla Kulturgeschichte e formalismo “debole”.

Dell’avversione di Ragghianti per la storia dell’arte come storia culturale si è già detto a proposito di Riegl. Del resto Schlosser fa proprie in questo versante le esperienze di Dvořák e di Riegl. «[Schlosser], attento alle tendenze critiche che si manifestavano al suo tempo, esperì quella storia “culturale” dell’arte, praticata più tipicamente dal Dvořák che considerava le opere non come prodotti della fantasia, nella loro autonoma essenza estetica e culturale, ma nella loro azione, cioè nella loro esterna riflessione, e nell’insieme di relazioni contenutistiche che sono della storicità dell’opera d’arte, e possono anche esserne materia. In questo tipo di storiografia era scaduto anche il Riegl, specialmente nella sua Storia dell’arte barocca in Italia»[42].

Anche sulla ricezione e l’avversione della storia dell’arte come storia della cultura in Italia nei primi decenni del Novecento sarà necessario ritornare con equilibrio. Si dovrà perciò partire da Francesco Malaguzzi Valeri e dall’accoglienza positiva, ma anche negativa (vedi Longhi), che ebbero le sue aperture, ancorate al mondo tedesco e francese. Si dovrà inoltre riesaminare l’importanza e la modernità in questo senso di Riegl e la sua incidenza sulla cultura italiana impegnata nel dibattito e nella rivalutazione del barocco. Si dovrà studiare la situazione italiana che si confronta talora polemicamente sulle modalità di applicare correttamente il formalismo (vedi Lionello Venturi - Croce - Ragghianti) con quella dell’area tedesca soprattutto del foyer di Amburgo (penso soprattutto agli esempi tardo ottocenteschi di Kulturgeschichte in Germania di Wolfgang von Öettingen, 1888 e di Gottfried Kinkel, 1983)[43].

A proposito di formalismo e di comprensione del linguaggio artistico poi, si è già detto che la posizione di Schlosser, anche dopo l’adesione all’idealismo crociano, rimane per Ragghianti non soddisfacente. «Di questo quadro [l’autore si riferisce al profilo dello svolgimento della storiografia dell’austriaco] occorre tener conto per valutare i limiti dell’opera dello Schlosser. (…) [Egli mostra infatti] una capacità di vocazione al gusto della forma nettamente inferiore alle sue gradi qualità umanistiche e storiografiche. Nella interna comprensione del linguaggio artistico, cioè nella percezione dell’originalità delle forme, egli, munito di tanta maggiore chiarezza di idee e di metodo, rimane molto inferiore al Riegl, al Wölfflin, al Berenson e soprattutto al Longhi»[44].

Nei suoi saggi infatti rimane quasi sempre al livello delle definizioni generali dei caratteri formali culturali linguistici, anziché addentrasi nella definizione dei risultati delle singole individualità e personalità artistiche[45].

Negli anni trenta in Italia ci si confronta anche con le più recenti opere e proposte metodologiche di un altro viennese, Max Dvořák. Su “L’Arte” di Adolfo Venturi e Lionello Venturi si pubblica un importante intervento critico di Aldo Bertini[46]. Nel 1935 compare il libro di Gian Alberto Dell’Acqua su L’arte italiana nella critica di Max Dvořák[47]. A sua volta Lionello Venturi dedicava al critico tedesco alcuni paragrafi nella sua Storia della critica d’arte (1936)[48] dove curiosamente viene ancora frainteso il valore del manierismo e in particolare di Pontormo e di Parmigianino.

Tutti questi interventi sono principalmente indirizzati a stigmatizzare e a respingere la cosidetta impostazione di Geistesgeschichte sviluppata da Dvořák. «La storia dello spirito significa per Dvořák rapporto tra la storia dell’arte e la storia della filosofia e della religione: cioè le forme astratte, i dogmi e i sistemi sono messi in rapporto tra loro dall’esterno, come documenti paralleli di una data civiltà»[49].

La critica di Ragghianti nei confronti di Dvořák non differisce da queste posizioni fortemente critiche, che si ricollega alle riserve già evidenziate prima, sia in Riegl che in Schlosser, nei confronti della storia dell’arte come storia della cultura.

«[Per Dvořák] – commenta Ragghianti in una serie di interventi riuniti in Commenti di critica d’arte, 1946[50] – la storia dell’arte deve consistere nel trovare i criteri oggettivi dello sviluppo storico dell’arte cercandone la vitalità e il valore specialmente attraverso le relazioni istituite con i contemporanei atteggiamenti e orientamenti della cultura».

Il limite di Dvořák per Ragghianti è duplice. Da un lato, perché le forme culturali (limitate inoltre unicamente alla filosofia e alla religione mentre si trascurano la storia del linguaggio della cultura figurativa e delle idee estetiche), che fanno parte delle Storia dello spirito e che determinano le forme artistiche, si adeguano meglio ai contenuti, piuttosto che alle forme e alle scelte stilistiche degli artisti.

Dall’altro, anche l’uso delle tipizzazioni o schemi di stile da parte di Dvořák, mediato dalla filosofia della storia del Dilthey e che si ritrova anche in Riegl, è da respingere, perché conduce a semplificazioni inaccettabili vertendo su valori sostanzialmente “extra-artistici”.

«Non è il caso qui di discutere il valore metodologico e filologico dei tipi, che inaugurò il Dilthey e dal quale passano nel Riegl e poi nel Dvořák […] Relativamente a questo bisogna osservare che l’accettazione Kunstgeschichte als Geistesgeschichte fu grossolana, perché gli schemi e i tipi che valevano nella rappresentazione storica delle forme culturali, filosofiche, letterarie, politiche si adeguavano perfettamente al loro contenuto; mentre questo contenuto (linee, forme, colori per l’arte figurativa, e non concetti, azioni o fantasmi di linguaggio) invece di essere indagato per quello che veramente esso era e significava, fu postulato dal Dvořák, trovato nel Dilthey e inserito violentemente nella storia dell’arte»[51].

La discussione dell’uso dei tipi e delle tipologie stilistiche da parte di Dvořák nel caso del Gotico e del Rinascimento (come naturalismo o realismo) viene approfondita da Ragghianti in occasione di una scheda sulla storia della critica relativa all’arte dei Pollaiolo[52].

Sotto il profilo storico culturale, la polemica sull’uso dei tipi nella storia dell’arte echeggiata e ripresa a proposito di Dvořák da Ragghianti, non va isolata, anzi approfondita, e si dovrà farlo in seguito in maniera più circoscritta e documentata, nel dibattito sulla cosidetta typenlhere o storia dei tipi o tipologia di grande attualità nel clima culturale tedesco degli anni trenta.

La Storia dei tipi o Typengeschichte o analisi tipologica (Typenlehere) studia la genesi dei cosidetti “tipi” o modelli-schemi sintesi di forma e contenuto di un’opera, le sue trasformazioni e i significati culturali assunti nel tempo. Il concetto di tipo è già presente nella letteratura classica (Platone, Aristotile, Galeno); viene riesumato dagli studi scientifici, psicologici e filosofici della fine dell’Ottocento in Germania; quindi dagli archeologi (celebre il caso di Emanuel Loewy che nel 1909 pubblica Typenwanderungen, migrazioni e persistenze nell’arte antica); viene adottato infine anche dagli storici dell’arte come Dvořák che lo desume da Dilthey e da Erwin Panofsky che lo discute in importanti saggi del 1921-32[53], distinguendo il concetto di tipo da quello di iconografia (semplice descrizione dei contenuti o soggetti delle opere).

Nell’ambito degli interessi di Ragghianti per i maestri della scuola di Vienna non va trascurata infine, come già bene evidenziato dal collega Pellegrini[54], l’apprezzamento per le indagini e gli scritti di alcuni allievi di Schlosser. Tra questi, Wolfgang Kallab, Leo Planiscig e infine Otto Kurz.

Wolfgang Kallab[55], che si era formato dapprima a Berlino con Curtius, Dilthey e Goldschmith e successivamente a Graz e a Vienna, dove venne in contatto con Wickhoff e poi con Schlosser con il quale maturò la passione filologica per la letteratura artistica antica, in particolare per Vasari. La sua morte prematura (morì trentunenne nel 1906) interruppe i suoi importanti Vasaristudien che furono pubblicati a cura di Schlosser due anni dopo, nel 1908. Ragghianti consulta gli studi di Kallab nel preparare l’edizione vasariana delle Vite, che rimane uno dei lavori filologicamente più importanti nell’ambito dei suoi interessi per le fonti e la letteratura artistica[56].

Egli ne rileva l’importanza fondamentale negli studi vasariani per il rigore filologico e le considerazioni critiche letterarie e testuali, con un partecipato omaggio nell’Introduzione alla sua edizione milanese delle Vite.

«La prima edizione delle Vite (di cui esiste una ristampa non felice, senza note, a cura di C. Ricci, Firenze, Bemporad, 1912, voll. 4; e Roma, Sestetti-Tuminelli, 1927) si diversifica per molti aspetti dalla seconda (1568)[57], e non solo nell’economia della scrittura, nella distribuzione e quantità della materia, nella disposizione delle parti – esempio saliente i Proemi gnomici, quasi proposizioni generali della esemplificazione biografico-aneddotica che seguiva, preposti alle singole Vite degli artisti, che nella seconda edizione furono tolti o rifusi nel testo –, nelle correzioni e aggiunte notevoli arrecate al testo in un lavoro di revisione durato oltre quindici anni. Queste differenze furono con sagacia ed accuratezza estrema stabilite nel lavoro, classico benché incompiuto, del Kallab (Vasaristudien, pubblicato postumo nel 1908), il quale resta basilare per lo studio della composizione del testo vasariano. Ma tale serrata analisi si concretava poi nello stabilire della prima redazione il più originale carattere, la maggiore felicità letteraria, una più compatta e fusa struttura, una più limpida determinazione di tutti i motivi intrinsecamente significativi, un insieme di qualità dunque che l’ulteriore elaborazione, anziché accrescere o perfezionare, ha in parte offuscato. Su questo punto ci risparmiamo altre osservazioni, rimandando senz’altro al citato lavoro del Kallab, e alle acute e fini pagine riassuntive dello Schlosser (Letteratura artistica, ed. ital., pp. 253-254)»[58].

Felice fu l’incontro con Leo Planiscig e con Otto Kurz. Con Planiscig, goriziano di origine e allievo a Vienna di Schlosser, studioso ed esperto della scultura rinascimentale italiana di indirizzo filologico formalista, Ragghianti ebbe un amichevole scambio epistolare che risale al 1946[59].

Collega a Vienna e poi a Londra al Warburg Institut di Ernst Gombrich, Otto Kunrz[60] si era formato al seminario di Schlosser di cui aggiornò il celeberrimo manuale sulla Letteratura artistica[61]. Attivo dapprima a Vienna come collaboratore di Ernst Kris, poi alla Biblioteca Warburg ad Amburgo e infine a Londra (dove fu bibliotecario al Warburg e dove tenne corsi universitari al Courtauld e anche a Oxford), fu studioso di erudizione e cultura umanistica sconfinata che spaziava dalla cultura occidentale e a quella orientale.

Ragghianti fu affascinato da questo studioso, allievo e discepolo di Schlosser, di cui apprezzò in particolare il saggio sulla Leggenda dell’artista, 1936 (scritto in collaborazione con Kris), e di cui fece tradurre per Neri Pozza il libro sui Falsi e Falsari del 1948, introducendolo con una penetrante prefazione.

«Fuori dell’arbitraria riduzione dell’arte e degli artisti a sovrastrutture o funzioni di altre realtà, è da ricordare – scrive Ragghianti negli aggiornamenti della 2a edizione del Profilo della critica d’arte – una ricerca ispirata dallo Schlosser, di autentica giustificazione, il volumetto di Ernst Kris e di Otto Kurz Die Legende vom Künstler (Wien, 1934), che analizza le immagini o le rappresentazioni che determinati gruppi storici sociali-culturali si sono fatte degli artisti»[62].

Nella prefazione alla traduzione italiana dei Falsi e falsari, invece così presenta Kurz ai lettori italiani: «Mi è particolarmente gradito di presentare ai lettori italiani il volume sui Falsi dell’amico Otto Kurz, cui mi legano non soltanto l’ammirazione per quella sua profonda dottrina, che ama troppo dissimulare, e l’apprezzamento del suo acuto giudizio storico e critico, ma il comune discepolato, ideale per parte mia, reale da parte sua, da un Maestro quale fu Julius von Schlosser. Mi piace rammentare che, dopo aver continuato e integrato con un eruditissimo intervento la grande e sempre fondamentale Letteratura artistica dello Schlosser, il Kurz tracciò un profilo magistrale e finissimo (in “La Critica d’Arte”, 11/12, 1955, pp. 402 e sgg.) della sua mente, del suo lavoro, della sua appartata umanità”[63].


[1]  Tra queste vanno menzionate Omaggio a Ragghianti. Critica d’arte in atto. Il ruolo delle riviste in Italia, oggi, Atti del Convegno su Carlo Ludovico Ragghianti, Aula dei gruppi parlamentari, Roma 27 gennaio 1988, a cura di R. Varese, UIA Università Internazionale dell’Arte, Firenze 1997; Carlo Ludovico Ragghianti e il carattere cinematografico della visione, Charta, Milano 2000; Ragghianti critico e politico, a cura di R. Bruno, Franco Angeli, Milano 2004. Due altri convegni su Ragghianti si sono tenuti rispettivamente all’Università di Ferrara (Carlo Ludovico Ragghianti. Un uomo cosciente, Ferrara, 29 ottobre 2009) e a Pisa e a Lucca (Carlo Ludovico Ragghianti: pensiero e azione, Lucca-Pisa, 21-22 maggio 2010); gli atti sono in corso di stampa.

[2]  Su questi aspetti dell’azione politica di Ragghianti si veda, oltre ai contributi di U. Baldini, R. Bruno, P. Bonetti e G. Cotroneo pubblicati in Ragghianti critico…, S. Battifoglia, Carlo Ludovico Ragghianti, un critico d’arte in lotta per la libertà, in L’occhio del critico. Storia dell’arte in Italia tra Otto e Novecento, a cura di A. Masi, Vallecchi, Firenze 2009, pp. 117- 132. Infine, rinvio anche alla mia nota Carlo Ludovico Ragghianti a cento anni dalla nascita, in corso di stampa nella rivista Arte/Documento, 2010 (Venezia).

[3]  Sulla ricezione della Scuola di Vienna nella critica italiana mi permetto di rinviare ad un mio lontano intervento: La scuola di Vienna e la critica d’arte in Italia agli inizi del XX secolo, in Wien und die Entwicklung der kunsthistorischen Methode, Akten des XXV. Internationalen Kongresses für Kunstgeschichte, Wien, 4-10 september 1983 a cura di S. Krenn, M. Pippal, Hermann Böhlaus Nachfolger, Wien, Köln, Graz, 1984, pp. 65-81 (ripubblicato in Argomenti viennesi, Il Segnalibro, Torino 1993, pp. 9-40). Successivamente si veda: S. Scarrocchia, La ricezione di Riegl nella storia e nella critica d’arte italiana, in Oltre la storia dell’arte. Alois Riegl. Vita e opere di un protagonista della cultura viennese, Marinotti, Milano 2006, pp. 93-147. In questo saggio la posizione di Ragghianti nella riscoperta dei viennesi da parte della critica italiana è curiosamente sottovalutata. A questo proposito è invece illuminante la recensione di S. Viani, Arte, fare e vedere di C.L. Ragghianti, in “Rivista di Studi Crociani”, 1974, fasc. II, pp. 189-197. Più rigorosa e meno confusa dello scritto di Scarrocchia appare invece la ricerca di M. Ghilardi, F. Zevi, Echi di Riegl nella critica italiana, in Alois Riegl (1858-1905). Un secolo dopo, Atti del Convegno internazionale dell’Accademia dei Lincei Roma, 30 novembre - 1 e 2 dicembre 2005, Bardi Editore, Roma 2008, pp. 219-237. Su Ragghianti studioso dei “viennesi” ho fatto inoltre un primo sintetico accenno nell’intervento Carlo Ludovico Ragghianti: per una storia dell’arte globale, presentato alla Giornata di studio del 29 ottobre 2009 all’Università di Ferrara, i cui atti sono ora in corso di stampa nella rivista “Critica d’arte”.

[4]  Cfr. C.L. Ragghianti, Arte, fare e vedere. Dall’arte al museo, Vallecchi, Firenze 1974, p. 207.

[5]     Cfr. Id., Care reliquie: in memoriam Jenö Lányi, in Il pungolo dell’arte, Neri Pozza, Venezia 1956, p. 389.

[6]  Si deve comunque precisare che fu lo stesso Ragghianti a promuovere la traduzione di alcuni importanti saggi viennesi. Più precisamente i seguenti: J. von Schlosser, Poesia e arte figurativa del Trecento, in “La Critica d’arte”, 1938; A. Riegl, Arte tardo romana, a cura di L. Collobi, Einaudi, Torino 1957; A. Riegl, Problemi di stile, a cura di C.A. Quintavalle, Feltrinelli, Milano 1963; J. von Schlosser, L’arte di corte nel secolo decimoquarto, a cura di G.L. Mellini, Edizioni di Comunità, Milano 1965.

[7]  Cfr. C.L. Ragghianti, Ritardi culturali, in La scuola viennese di storia dell’arte, a cura di M. Pozzetto, Atti del XX convegno, Istituto per gli incontri culturali mitteleuropei, Gorizia 1986, p. 252.

[8]  Va doverosamente ricordato che già nel 1976 Henri Zerner a proposito della ricezione di Riegl in Italia (per la quale si veda nota n.3), che sin dal 1976 Henri Zerner (ora in L’histoire de l’art d’Alois Riegl, in Ecrire l’histoire de l’art. Figures d’une discipline, Gallimard, Paris 1997, p. 36) scriveva: «En de hors des pays germanophones, toutefois, Riegl n’a pas rencontré beaucop d’echo, se ce n’est en Italie, où, Bianchi-Bandinelli e Raghianti [sic] mesuraient bien son importance».

[9]  Si veda per tutte: C.L. Ragghianti, Arti della visione. I, Cinema, Einaudi, Torino 1979, p. 53.

[10]    Molti sono gli interventi su questo aspetto di Riegl sottolineato da Ragghianti. Per tutti si veda Arti della visione. I…, p. 66.

[11]    In tempi più recenti il formalismo di Riegl appare molto più articolato rispetto alla semplificazione che ne dà Ragghianti: si vedano i saggi nella raccolta Framing Formalism. Riegl’s Work, a cura di R. Woodfield, G+B Arts International, Amsterdam 2001.

[12]    Cfr. H. Zerner, L’histoire de l’art, p. 37.

[13]    Cfr. C.L. Ragghianti, L’uomo cosciente. Arte e conoscenza nella paleostoria, Calderini, Bologna 1981, p. 232.

[14]    Va ricordato inoltre che attraverso Fiedler e Riegl Ragghianti ripensa anche al problema dello spazio e del tempo inteso come elemento costitutivo dell’immagine (sul cui concetto vedi in seguito a p. 11) e come parte integrale dell’espressione individuale (cfr. C.L. Ragghianti, Cinema arte figurativa, Einaudi, Torino 1952, p. 77).

[15]  Cfr. C.L. Ragghianti, Ritorno del Riegl, in “Critica d’arte”, n.s., XIII, 80, 1966, pp. 3-8.

[16]    Cfr. C.L. Ragghianti, L’uomo cosciente…, p. 231.

[17]    Cfr. E. Panofsky, Der Begriff der Kunstwollens, in “Zeitschrift für Ästhetik und allgemeine Kunstwissenschaft” 14, 1920, pp. 321-329.

[18]    Cfr. C.L. Ragghianti, Arte essere vivente, Pananti, Firenze 1984, p. 107.

[19]    Cfr. Id., Ritorno del Riegl….

[20]    Id., Un uomo un universo. Antologia degli scritti, a cura di M.L. Testi Cristiani, R. Varese, M.T. Leoni Zanobini, Le Lettere, Firenze 2000, p. 150.

[21]    Sul problema del darwinismo in Venturi cfr. G.C. Sciolla, Appunti sulla fortuna del metodo morelliano e lo studio del disegno in Italia, “fin de siècle”, in “Prospettiva”, 33-36, 1983-1984, pp. 385-389.

[22]    Per il giudizio su Pietro Toesca cfr. C.L. Ragghianti, Profilo della critica d’arte in Italia, Vallecchi, Firenze 1973, p. 33.

[23]    Cfr. Id., Arte essere vivente…, p. 89.

[24]  Cfr. Id., In morte di Julius von Schlosser, (1939), in Un uomo un universo…, p. 150.

[25]    Cfr. Id., Ritorno del Riegl…, pp. 3-8.

[26]  Per la declinazione di Riegl di una Kunstgeschichte als Kulturgeschichte cfr. ora G. Vasold, Alois Riegl und die Kunstgeschichte als Kulturgeschichte. Überlegungen zum Frühwerk des Wiener Gelehrten, Rombach Verlag, Freiburg im Breisgau 2004.

[27]    Cfr. ad esempio nel saggio: Warburg retrospettivo, in “Critica d’arte”, XXI, 134, 1974, pp. 3-5.

[28]    Ne ho dato una sintesi critica in C. L. Ragghianti e la storia dell’arte globale, 2010, in corso di stampa nella rivista “Critica d’arte”, alla quale mi permetto di rinviare e nella quale continui sono i riferimenti e il dialogo con i viennesi.

[29]    Sul concetto di modernità nel Barocco da parte di Riegl si veda ora: M. Rampley, Subjectivity and Modernism: Riegl and the Ridiscovery of the Baroque, in Framing Formalism…, pp. 265-290.

[30]  Cfr. A. Riegl in “Gesammelte Aufsätze”, Filser, Augsburg-Wien, 1929 (si tratta dei due contributi, rispettivamente del 1886 e del 1898, sui mobili e la decorazione d’interni dell’epoca dell’Impero).

[31]    Si veda la lettera indirizzata da Planiscig a Ragghianti datata 9 agosto 1946 (Sciolla, in c.d.s.).

[32]    Si veda soprattutto il volume: Arte, fare e vedere….

[33]    Cfr. E. Pellegrini, Il carteggio von Schlosser-Ragghianti: qualche anticipazione, in Ragghianti critico e politico, Franco Angeli, Milano 2004, pp. 259-290.

[34]    Cfr. C.L. Ragghianti, Profilo della critica d’arte…, p. 89.

[35]    Cfr. ibid., pp. 86-94.

[36]    Cfr. il bel saggio di G.L. Mellini, compianto allievo di Ragghianti, mancato prematuramente, che introduce la traduzione a J. Von Schlosser, Arte di corte…, p. 8.

[37]    Cfr. C.L. Ragghianti, Profilo della critica d’arte…, p. 89.

[38]    Cfr. ibid., p. 90.

[39]    Cfr. ibid., p. 92.

[40]    Cfr. ibid., p. 219.

[41]    Un primo tentativo di esaminare la Letteratura artistca secondo la suddivisione in generi è stato fatto da A. Chastel, Schlosser et la “Kunstliteratur, in “Cahier du Musée National d’art moderne”, 14, 1984, pp. 38-43.

[42]    Cfr. C.L. Ragghianti, Profilo della critica d’arte…, p. 88.

[43]  Esempi segnalati recentemente da Dieter Wuttke, L’Hercule à la croisée des chemins d’Erwin Panofsky: l’ouvrage et son importance pour l’historire des sciences de l’art, in Relire Panofsky. Cycle de conférences organisé au musée du Louvre par le Service culturel du 19 novembre au 17 décembre 2001, Beaux-arts de Paris les editions, Paris 2008, pp. 105-147: p. 125.

[44]    Cfr. C. L. Ragghianti, Profilo della critica d’arte…, p. 91.

[45]    Cfr. ibid., p. 91.

[46]    Cfr. A. Bertini, Sulla critica di Dvořák, in “L’Arte”, n.s. II, XXXIV, 1931, pp. 461-467.

[47]    Cfr. G.A. Dell’Acqua, L’arte italiana nella critica di Max Dvořák, Sansoni, Firenze 1935.

[48]    Cfr. L. Venturi, Storia della critica d’arte, Einaudi, Torino 1964, pp. 236-237.

[49]    Cfr. L. Venturi, Storia della critica d’arte…, p. 236.

[50]    Cfr. C.L. Ragghianti, Commenti di critica d’arte, Laterza, Bari 1946, vol. II, p. 188.

[51]    Cfr. ibid., p. 165.

[52]    Cfr. Id., Antonio Pollaiolo e l’arte fiorentina del Quattrocento, in “La Critica d’Arte”, I, 1, 1935, pp. 10-17; ivi, II, 2, 1936, pp. 69-81; ivi, 3, pp. 115-126; ivi, 4, pp. 157-165.

[53]    Tra questi spicca: Imago pietatis. Ein Beitrag zur Typengeschichte des “Schmerzenmannes” und der “Maria Mediatrix”, in Festschrift fur Max Friedlander zum 60. Geburtstag, Seemann, Leipzig 1927, pp. 261-309.

[54]    In particolare Pellegrini, nel saggio Il carteggio… citato, sottolinea la considerazione di Ragghianti per Otto Kurz.

[55]    Su Kallab si veda: Metzler Kunsthistoriker Lexikon, Metzler, Stuttgart-Weimar 1999, pp. 203-204; R. Preimsberger, Wolfgang Kallab (1875-1906): Bruchstücke einer intellettuellen Biographie; mit einer Abbildung, in “Römische Historische Milleilungen, 50, 2008, pp. 475-497.

[56]    Spicca in questo ambito il bellissimo volume Profilo della critica d’arte….

[57]  Cfr. C.L. Ragghianti, Introduzione a G. Vasari, Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti, Rizzoli, Milano 1971, p. 11.

[58]  Cfr. ibid., p. 11.

[59]    Queste lettere sono state pubblicate dallo scrivente nel contributo per il Convegno di Ferrara 2009 (cfr. Carlo Ludovico Ragghianti, in “Critica d’arte”, 2010, in corso di stampa). Su Leo Planiscig si veda: W. Gramberg, Leo Planiscig, in “Kunstkronik”, 5, 1952, pp. 270-275; D. Clini, Una vivace polemica: Adolfo Venturi e Leo Planiscig, in “Studi Goriziani”, 91-92, 2000 (2002), pp. 123-137; Id.; Riegl, Planiscig e la Gestalt-Theorie, in “Memorie storiche forgiulesi”, 82, 2002 (2003), pp. 243-256.

[60]    Cfr. Per Otto Kurz si veda: E.H. Gombrich, J. Onias, Wilde, Pevsner, Gombrich, Kurz, Le Kunstgeschichte en Grand- Bretagne, in “Perspective”, 2007, 2, pp. 194-206; E.H. Gombrich, Otto Kurz (1908-1975), in 37 epitaffi di storici dell’arte del Novecento, a cura di S. Ginzburg, Electa, Milano 2008, pp. 154-168.

[61]    Cfr. J. von Schlosser, Die Kunstliteratur, Anton Scroll, Wien 1924; ed. it. La letteratura artistica. Manuale delle fonti della storia dell’arte moderna, seconda edizione aggiornata da Otto Kurz, La Nuova Italia, Firenze 1956.

[62]    Cfr. C.L. Ragghianti, Profilo della critica d’arte…, p. 213. Il saggio è stato tradotto in italiano molti anni dopo: cfr. La leggenda dell’artista, prefazione di E.H. Gombrich, Boringhieri, Torino 1980.

[63]  Cfr. Prefazione in O. Kurz, Falsi e falsari, (Venezia 1961); ed. Neri Pozza, Vicenza 1996, p. 11.



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Temi di Critica - numero 1

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