Studiare la rivista “Arte Antica e Moderna” invita a soffermare la nostra attenzione sulla figura di Stefano Bottari. Nella storia della rivista si possono infatti riscontrare numerosi passaggi che ritroviamo paralleli a quelli del suo percorso di studioso, alle svolte salienti ed anche ai costanti aspetti di questa figura di intellettuale poliedrico. Bottari volle infatti fortemente la realizzazione di questo periodico, il cui primo numero fu pubblicato nel 1958, ad un anno dall’incarico di docente presso l’Università degli studi di Bologna[1] che concluse una lunga attività che lo aveva già visto impegnato in due Università siciliane, Messina e Catania. Lo caratterizzava, dunque, un passato decisamente “siciliano”, contrassegnato da anni di ricerche spesso spasmodiche e difficili, alla scoperta di realtà inedite o poco note e sempre, comunque, da sceverare, ma anche alla continua verifica di precedenti attribuzioni[2].
I suoi studi non si erano però mai limitati alla produzione artistica locale: sin dagli anni giovanili si erano spostati oltre, incentrandosi anche su alcuni aspetti dell’attività di grandi artisti, quali Michelangelo e Leonardo, fino ad addentrarsi nel vivo del dibattito teorico sull’arte in genere, sulla sua funzione e la sua “verità”.
Un giovane Bottari sarà dunque autore di opere teoriche come La critica figurativa e l’estetica moderna del 1935 e, cinque anni più tardi, Il linguaggio figurativo. A questo punto non può stupirci che sia stato proprio lui, in modo eclettico e disinvolto, a voler condividere con un archeologo, Luciano Laurenzi, la direzione di “Arte Antica e Moderna”, maturata all’interno degli istituti di Storia dell’Arte e di Archeologia dell’Ateneo bolognese[3]. In linea di massima ogni numero della rivista fu impostato dando spazio ai due settori di studi: antichità e moderno, i cui contributi relativi erano per lo più alternati, con l’eccezione dell’annata 1962 che presenta un impianto diverso: gli articoli riguardanti l’arte antica apparvero nella prima parte della rivista, confluendo nella seconda quelli relativi all’arte medievale e moderna.
La nascita di un periodico dedito a coniugare gli studi di tipo storico-artistico con quelli di tipo archeologico, si aggancia ad una corrente culturale che aveva già visto protagonista Ranuccio Bianchi Bandinelli, illustre studioso d’arte antica, che, tra gli anni ’30 e ’40 aveva tentato di superare i limiti della settorializzazione, influenzato certamente dal pensiero crociano[4], non a caso, sposato anche da Bottari.
Ed è proprio nella sfida alla settorializzazione dei saperi, che s’intravede in Bottari una forte costruzione di pensiero, motivato dall’interesse e dalla curiosità per ogni branca dell’arte, da quelle più conosciute, a realtà del tutto oscure: perché tutte, microcosmi e macrocosmi, sono fondate e generate da un profondo umanesimo. La ricerca della verità e la fede nell’operato dell’uomo attraverso i secoli, lo spingono a valicare le “coercizioni” degli studi dalla lettura warburghiana a quella purovisibilista.
Il sodalizio con Laurenzi si perpetuerà fino alla tragica fatalità che li vedrà spegnersi a breve distanza l’uno dall’altro: Laurenzi morirà nell’ottobre del 1966, Bottari nel febbraio del 1967; il primo numero del nuovo anno si aprirà dunque con il memoriale scritto da Bottari per il collega archeologo, per poi procedere con un ricordo dedicato da Carlo Volpe[5] allo stesso Bottari; né la rivista avrà altre uscite dopo l’annata 1966, subendo un epilogo altrettanto inatteso, che attesta l’ineludibile legame con il fondatore.
Dobbiamo sottolineare come, per quanto il periodico sia un mezzo divulgativo espletante le sue funzioni in modo più sintetico rispetto a monografie o altri tipi di saggistica, l’esperienza della rivista bolognese abbia suggellato alcune tappe fondamentali del percorso dello studioso, invero già vastissimo[6].
I brevi e sintetici contributi che il Nostro fornirà in tale sede, sono comunque importanti perché segnano inequivocabilmente una svolta. Il trasferimento dalla propria terra, il cui patrimonio artistico aveva studiato in lungo e in largo, lo metterà di fronte a nuovi momenti da indagare, con sempre maggior curiosità.
L’esperienza bolognese di Bottari, e quindi il contatto di un cultore d’arte siciliano con l’ambiente culturale della città emiliana, era stata anticipata dalla vicenda di Enrico Mauceri, chiamato a dirigere la Regia Pinacoteca di Bologna dal 1929 al 1936. Per quanto Mauceri avesse continuato ad occuparsi dell’arte siciliana, è già stato evidenziato quanto, il soggiorno bolognese sia stato il punto di “svolta”[7] della sua carriera[8].
Così avvenne anche a Bottari: il suo magistero bolognese dovette chiaramente esigere interessi, soprattutto nei confronti delle arti figurative e degli artisti dell’Italia centro-settentrionale, temi peraltro già più volte inquadrati e discussi[9], ma che adesso subentravano quasi come un obbligo da portare necessariamente a termine.
Una lettura diacronica di tutto il periodico nell’arco breve della sua esistenza – inferiore a un decennio – può fornire angolazioni diverse e nuove riflessioni.
Mostra in particolare come lo studioso, giunto al giro di boa della sua carriera di storico dell’arte, ma anche di teorico e di pensatore, si sia espresso all’interno della rivista, che risulta dunque una sorta di spia della sua opera omnia. Innanzitutto si avverte la sua posizione di direttore, discreta ma autorevole. I suoi articoli saranno sempre sintetici, ma quasi costanti nell’arco della programmazione. Altri nomi della critica d’arte del Novecento si susseguiranno nella storia della rivista: da Carandente[10]a Calvesi[11], da Pallucchini[12] alla Ottani[13], fino a Eugenio Battisti[14] per citarne solo alcuni; ma sarà Bottari a tornare e ritornare, quasi in ogni numero, almeno con un articolo; a lui sarà riservato il compito di intervenire nelle diverse rubriche. Tra queste quella delle dediche, spesso rivolte a personalità che intanto scomparivano dalla scena del mondo, delle quali, tentando di tracciare gli aspetti umani, ricorderà soprattutto quelli salienti della vicenda intellettuale. Così nel ricordo di Matteo Marangoni, di Bernard Berenson, di Pietro Toesca, di Giorgio Morandi.
Ma è proprio nel tratteggiare le immagini ideali degli studiosi, oltreché degli artisti, che si avverte la sua necessità di cogliere le tracce di una determinata visione della critica d’arte. Saranno queste le occasioni in cui, all’interno della rivista, analizzerà i percorsi dei maestri, indagando e delineando, in una sorta di metalinguaggio, cosa possa essere, ma, soprattutto, cosa non debba essere l’interpretazione dell’arte stessa.
Nella dedica a Roberto Longhi, in occasione del suo settantesimo compleanno[15] (doverosa, ovviamente, da parte proprio di quel dipartimento di studi storico-artistici bolognese, suo debitore) Bottari esalta il ruolo del grande studioso, definito, con un termine che ho già citato, un “umanista”. Longhi è definito l’assertore di una «tradizione di impronta squisitamente umanistica, che si fonda sulla filologia, e che la stessa filologia converte in critica, attenta ai “valori” delle opere, al loro insostituibile e irripetibile linguaggio»[16].
Risulta evidente quanto, con frasi brevi e limpide, Bottari sia riuscito a sintetizzare l’accezione longhiana di opera d’arte, trovando, proprio nella pura ekphrasis, l’efficacia comunicativa, la soluzione vincente perché l’opera possa parlare da sé[17]. Con e attraverso Longhi, insomma, il Nostro teorizza la creazione di un linguaggio che dell’arte sia esclusivo, che possa rendere appieno l’autonomia dell’arte stessa.
L’elogio nei confronti del grande maestro, poi, tende a marcare in modo netto la distanza di Bottari rispetto ad alcune correnti del sapere: in particolare quelle discipline, di stampo sociologico, a suo avviso discriminanti nei confronti dell’autonomia dell’arte. Le scienze che hanno avuto la loro genesi nell’alveo neopositivista, vengono aspramente criticate. La sociologia, ad esempio, è definita «pseudoscienza dell’anonimo e dell’anonimato».
L’interpretazione delle arti, in tutti questi casi, si confronterebbe «non già con quello che sono i segni insostituibili delle personalità creatrici, grandi o piccole che siano, ma con la tematica delle opere, senza accorgersi che in tal modo sostituiscono alla perenne e pur sempre emblematica concretezza, l’astrazione degli inventari iconografici o, nel migliore dei casi, una storia della cultura in cui quelli che sono dimenticati – e dimenticati non solo sul piano della filologia, ma anche sul piano della critica – sono proprio i valori figurativi»[18].
Come netto era stato, precedentemente, il suo prendere le distanze da un altro settore della teoria dell’arte, quello puro-visibilista[19], così adesso è evidente, lapalissiana, una presa di posizione contro una metodologia di stampo iconologico.
Sempre in “Arte Antica e Moderna”, nella rubrica Discussioni e recensioni del gennaio-marzo 1960, in merito alla pubblicazione dell’Enciclopedia Universale di storia dell’arte, esalta il lavoro di Cavalcaselle, Adolfo Venturi, Toesca, Longhi, definiti studiosi «attenti e sensibili a quelle sottili vibrazioni formali che costituiscono, ponendo al centro della ricerca le qualità interne delle opere, il tessuto connettivo di ogni storia che punti sulla personalità o sull’autentico timbro della poesia»[20].
Al loro metodo Bottari contrappone «un orientamento meno umanisticamente impegnato, di discendenza […] warburghiana, e che punta, meglio che sulla storia, sulla iconologia e nel migliore dei casi risolve la Storia dell’arte in Storia della cultura […]»[21].
Studi di questo tipo, a suo avviso, sarebbero fuorvianti, mortificherebbero il pensiero che sottende l’arte: un modo alquanto farraginoso di parlar d’arte, con un linguaggio che non le appartiene, privandola del proprio tessuto connettivo.
Uno dei memoriali di Bottari è poi dedicato alla figura di Bernard Berenson[22]. La discussione è avviata proprio muovendo dalla particolare adesione del conoscitore al purovisibilismo, la cui teoria, come già detto, fu spesso vivacemente contestata dal Nostro. L’aspetto teorico dello studioso statunitense (ma di origini lituane) viene da Bottari molto ridimensionato: «se siffatte forme di dubbia validità, esprimessero il meglio della sua opera, non ci resterebbe che prendere atto della loro modesta posizione nel percorso delle dottrine estetiche, determinare il punto in cui esse s’inseriscono con il loro carico di bene e di male e di passare oltre»[23].
Di contro poi continua: «Ma se il posto da assegnare al Berenson nelle dottrine estetiche è molto limitato, […] ben diverso è il posto […] da assegnargli dal punto di vista della critica […]. Il Berenson critico sopravanza il Berenson teorico; né credo che ciò sia contraddittorio, dal momento che l’arbitrarietà è consistita nell’avere enucleato dal contesto della sua opera, un corpo di pseudo-dottrine, e nell’avere attribuito ad esse validità speculativa», affermando, inoltre, «che le formulazioni teoriche e programmatiche rispondono tutt’insieme a un motivo centrale e persistente nell’attività critica del Berenson: la difesa della classicità che nell’età antica ebbe la più alta espressione nell’arte greca e nell’età moderna in quella fiorentina. Atene e Firenze: ecco i due poli mentali dell’attività di Berenson!»[24].
Bottari, a questo punto, interpreta l’importanza dello studioso statunitense nell’ottica che gli è più confacente, quella che è coniugabile ai più alti valori dello spirito: «Il contatto con l’opera d’arte non è professionale per Berenson ma umano, un incontro umano e spirituale, un modo di esaltare la propria vitalità, un amore che non si appaga della pura contemplazione»[25].
In nome di questi valori, i valori della classicità diventano i valori della libertà, e quindi il tributo nei confronti di Berenson si sposta dall’asse estetico a quello più profondamente etico. Ed i valori della libertà, sinonimo di civiltà e progresso, avvertiti dal grande studioso – senza disincanto – come vere e proprie «magnifiche sorti e progressive», nell’arco della storia e nelle forme sensibili dell’arte, hanno avuto il loro concretarsi in due precisi episodi: l’arte greca e l’arte fiorentina[26]. Ancora nella sua opera pubblicata postuma Momento della critica d’arte contemporanea, si nota come sia da Bottari sostanzialmente ripresa l’argomentazione su Berenson, traendo spunto da quanto già analizzato sulla rivista[27].
L’aspetto relativo alla riflessione sulla critica è un aspetto costante dell’opera di Bottari, di cui non può non risentire la storia della rivista.
Quello relativo alla riflessione metodologica è un tratto costante nell’opera di Bottari, di cui la storia della rivista non può non risentire. Perché è lì che lo studioso trova l’angolazione adatta, in senso teorico e storico-critico appunto, per orientare i suoi studi.
Muovendo da simile radicamento, egli si sposta, con disinvoltura, verso realtà artistiche differenti: a volte locali, periferiche; altre volte sconosciute, per le quali è necessario un lavoro d’archivio o addirittura di storia della “cultura materiale”. I due poli opposti, in senso ontologico, saranno dunque costanti nella sua opera: da un lato la tendenza verso l’assunto teorico, il mondo delle idee che muovono l’arte e le riflessioni su di essa; dall’altro la necessità di un riscontro nella contingenza, verso il dato reale.
Oltre al suddetto compito, che gli ha permesso di affrontare i temi teorici e di critica a lui più cari, ci sono, all’interno della rivista, riflessioni e appunti sulle mostre, da quella del Louvre dal titolo Cathedrales, alla mostra bolognese sul classicismo del Seicento, fino a quella svoltasi al Palazzo delle Esposizioni di Roma su Michelangelo, in occasione del quarto centenario della morte dell’artista. Quest’ultima non verrà del tutto accolta da Bottari, per varie motivazioni. In primis, a suo avviso, non è tanto una mostra sull’artista, quanto una «mostra di un’interpretazione di Michelangelo, e qualche volta dell’interpretazione dell’ interpretazione»[28].
L’allestimento si propone, attraverso un percorso accompagnato da luci e suoni, oltre che dalle opere, di trasmettere al visitatore l’inquietudine creativa del grande genio di Michelangelo. Secondo l’ottica di Bottari, i curatori avrebbero osato troppo, avrebbero rispettato ben poco la levatura del personaggio, che dovrebbe essere «avvicinata con umiltà; e questa Mostra manca proprio di umiltà»[29]. Vengono invece apprezzati i pannelli fotografici, i modellini, come anche la collocazione del Crocifisso ligneo di Santo Spirito posto in un «ambiente appartato e ben adatto a sottolineare – si accetti o no l’attribuzione – la raccolta bellezza, il sublime silenzio impresso allo snodo delle membrature gracili e raffinate»[30].
Il parere di Bottari è negativo invece nei confronti dell’apparato didascalico di cui denuncia il modo fuorviante d’interpretare le sculture (come nel caso del Bacco), accompagnandole con didascalie di “dubbio moralismo”. Per farne risaltare l’inconsistenza critica, ne riporta pedissequamente alcune. Ad esempio: «l’atteggiamento critico di Michelangelo verso il vizio e il peccato è altrettanto evidente quanto il compiacimento nel descriverlo»[31].
Per quanto riguarda, in generale, i contributi scientifici e gli studi personali sulle opere d’arte, è evidente una tendenza: nei primi anni vi è una predilezione per gli argomenti riguardanti le arti figurative siciliane, o, più in genere, meridionali, soprattutto medioevali, giungendo al massimo al Quattrocento (pittorico).
Non risulta per nulla strano che, dopo un’esperienza pluridecennale nel campo accademico siciliano, lo studioso si proponga ancora quasi timido nei confronti di argomenti a lui non ancora del tutto familiari.
Ad un certo punto uno sblocco, un procedere incredibilmente in ascesa verso ambiti geograficamente e cronologicamente tra i più lontani: ecco gli articoli sulla pittrice Fede Galizia, sul Maestro della Resurrezione della Cappella del Collegio Castiglioni in Pavia, sul ritratto del Granduca Ferdinando II de Medici, su Guido Cagnacci.
Degli argomenti “meridionali” quasi più nessuna traccia ormai[32], argomenti che però non dimenticherà nelle monografie dei medesimi anni.
C’è proprio la voglia allora d’inserire, all’interno del periodico, i nuovi studi, di certo più confacenti al suo insegnamento bolognese.
Nella rivista Bottari scrive ben poco di arte figurativa siciliana: in tre brevi studi, e nella rubrica Recensioni. Quest’ultima riguarda un’opera di Guido Di Stefano del 1960, Il Duomo di Cefalù[33]. Viene qui accolta positivamente la lettura che del monumento proponeva Di Stefano, che non solo individuava le fasi di costruzione della chiesa, osservando che la soluzione finale era ben lontana dal proposito iniziale di Ruggero II. Scrive così: «Di Stefano suppone che già sulla metà del secolo (i mosaici nell’abside centrale erano stati sistemati nel 1148) i propositi del Re s’erano alquanto illanguiditi, e parla dell’inserzione della crociera costolonata sul bema come di un compenso dell’abbandonato proposito di spingere oltre la costruzione»[34].
Di Bottari ricordiamo studi importanti sull’architettura delle chiese siciliane, che avevano trovato Di Stefano a volte totalmente discorde[35].
In altri casi, invece, Di Stefano aveva sposato le tesi di Bottari: un esempio può essere quello della chiesa di S. Andrea a Piazza Armerina, che li vede concordi nel ritenerla del periodo della Contea e non successiva, perché vi rilevano caratteristiche tipiche dell’architettura settentrionale, determinate proprio dalla presenza in loco di colonie “lombarde” giunte al seguito di Ruggero I[36].
Per quanto riguarda la pittura siciliana, Bottari ritornerà con due brevi articoli che certamente riflettono le precedenti riflessioni elaborate in una delle sue opere fondamentali, ovvero La pittura del Quattrocento in Sicilia[37].
Il primo del 1959, Da Tuccio di Gioffredo a Riccardo Quartararo[38], come è evidente già dal titolo, riguarda un vero e proprio “dissolvimento” dell’esistenza della figura di pittore con la scoperta, fatta da Vito Librando. Quest’ultimo, assistente di Bottari, aveva chiarito la lettura dell’iscrizione sul un polittico della collezione Santocanale, dove Tuccio di Gioffredo da Fondi sarebbe il committente dell’opera e non il pittore[39]. Bottari stesso cade inizialmente in errore, scrivendo di questo artista, riconosciuto come allievo dello Scacco che «sia pure nell’ambito di uno squisito artigianato, si rivela raffinato e smagliante: nella dovizia degli ori, le figure s’incastrano preziose, e vivace si leva il tono dei colori, accesi come in una pagina miniata»[40].
Nella rivista Bottari contesta essenzial-mente una certa critica che ignora la scoperta di Librando, ostinandosi ancora ad annoverare Tuccio di Gioffredo tra gli artisti del Quattrocento.
Gli studiosi cui fa riferimento sono Causa e Salerno, il quale aveva ricono-sciuto la paternità di Tuccio in un trittico del Museo Diocesano di Gaeta.
Nel dipinto di Gaeta Bottari riconosce delle caratteristiche simili all’opera palermitana[41]: «Son tutti elementi che, ancora sul cadere del secolo, crescono sul fondo di una cultura di periferia, una cultura umbratile o di mezzo rinascimento, come è apparsa quella di Antoniazzo e di Cristoforo Scacco, insistentemente richiamati, e che si tinge pure di riflessi di provenienza iberica»[42].
Questi elementi, sono coadiuvati dal raffronto con due tavole: una pubblicata dal Post, l’altra da Ilaria Toesca, la quale aveva avanzato l’ipotesi che si trattasse di un’opera di Riccardo Quartararo. La considerazione della Toesca[43] è molto apprezzata dal Nostro, che anzi ne elogia l’acume. È un’opera definita da Bottari «sconcertante, che, su un vecchio fondo di cultura ancora squarcionesca ripropone, in maniera più accentuata, i temi e gli umori di quelle precedenti, in un tono smagliante di capziosa e provinciale artificiosità»[44].
Schierandosi a favore dell’attribuzione della Toesca, egli riconosce dunque la possibilità di ricollegare la tavole pubblicate dal Post[45] e dalla Toesca alla personalità dell’artista originario di Sciacca, mentre ribadisce come l’unica opera certa del Quartararo sia quella raffigurante gli apostoli Pietro e Paolo della Galleria Regionale di Palazzo Abatellis.
Bottari si appoggia anche alle poche notizie ricavate dalla vita dell’artista, che lo vogliono a Napoli dal 1491 al 1492, per arrivare ad accettare la possibilità che il polittico della collezione Santocanale studiato dal Librando, possa appartenere al repertorio del Quartararo: «L’anconetta della collezione Santocanale è datata 1491, e dello stesso tempo è, come si è già osservato, la tavoletta Tucher. Segue nel tempo il trittico di Gaeta e quindi la tavola illustrata dalla Toesca, che per tante vie si aggancia alle opere eseguite dall’artista dopo il suo ritorno in Sicilia a partire dal 1494»[46].
Bottari sottolinea che andrebbe rivalutato e considerato il rapporto con un ambito culturale riguardante Antoniazzo e Scacco, pittori sui quali si era già pronunciato precedentemente[47].
Nel breve articolo è evidente il rigore intellettuale dello studioso nel riferirsi agli studi più recenti, che dopo la grande mostra messinese del 1954 sempre più proliferavano, e nell’operare dei veri e propri ripensamenti, invero già evidenti nell’opera del ’54 , nella quale era stata tracciata la personalità dell’artista[48], per poi prendere in considerazione la scoperta del Librando[49] che aveva disconosciuto l’esistenza di un artista “fantasma” come Tuccio di Gioffredo.
È interessante inoltre la prosa bottariana nella descrizione sintetica delle caratteristiche stilistiche dello stile del pittore Quartararo, riconosciute in tutte le opere prese in questione[50]: «e qui non resta che ribadirle, richiamando ancora una volta l’attenzione sull’affastellata eccentricità della composizione, sul fulgore vitreo dei colori, sull’asperità metallica dell’assetto formale pur fiorito ed elegante»[51].
Ma il ripensamento più evidente, su quanto dichiarato precedentemente riguardo alla pittura isolana del XV secolo, si trova nella rubrica Contributi, dal titolo Taccuino meridionale, Resti di un polittico di Tommaso de Vigilia (?) del numero aprile-giugno 1960[52]. Qui, in un articolo ancora più stringato, traccia un po’ il quadro della situazione sugli studi riguardanti il pittore Tommaso De Vigilia, alla luce della mostra su Antonello e la pittura del Quattrocento in Sicilia, che avrebbe aggiunto ben poco, a suo avviso, riguardo al pittore palermitano.
Aggiungendo il contributo fondamen-tale del Frammento siciliano[53] di Roberto Longhi, Bottari sottolinea quanto complesse e intricate fossero le trame della cultura pittorica siciliana, influenzata da varie correnti culturali.
Esempio di questo intreccio culturale caratterizzante in particolare la produzione figurativa isolana dei secoli XIV-XV, è per Bottari quello relativo al problema attributivo dei resti di un polittico raffigurante un San Paolo ed un Santo Vescovo, anteriore al Battesimo della collezione Santocanale, a suo avviso, da collocarsi «tra il polittico di Corleone (sia o no del De Vigilia) e il Battesimo Santocanale»[54].
Egli ritiene che l’enigma si sarebbe potuto svelare se si fosse riusciti a decifrare l’identità della città e del santo Vescovo che ne regge il modello tra le mani: elementi fondamentali per comprendere la provenienza del manufatto. Di sicuro, a suo avviso, non si tratta di un centro siciliano; se non fosse una raffigurazione ideale, potrebbe piuttosto essere un città dell’Italia centrale; e, in tal senso, un indizio comparabile potrebbe riscontrarsi, ancora una volta, nel Battesimo Santocanale, che propone, sullo sfondo un’immagine simile, forse ancora più nordica.
Vi sono dunque delle componenti, che, come nel Battesimo, sarebbero provenienti da contesti culturali eterogenei; Bottari scorge, insieme ad elementi marchigiani, anche delle assonanze che ricordano i «mosaicisti bizantini (ma su modelli arabi) nelle decorazioni della Sala di Re Ruggero di Palermo»[55], nei dirami di un albero di uno scomparto: una supposizione dunque coadiuvata da una lettura complessa del de Vigilia.
Ciò che mi preme sottolineare riguarda un altro tema, finora apparentemente sottinteso: Stefano Bottari scrive del Battesimo Santocanale come di un’opera devigiliana, ma non era di questo avviso nel 1954. Scriveva allora che nel Battesimo[56] erano presenti troppi elementi eterogenei che richiamavano dipinti spagnoli, ma non solo, anche somiglianze con opere di Antonio da Fabriano, con la Croce di Piazza Armerina, di educazione provenzale, in particolare nelle figure degli Angeli, e ascendenze nordiche. Aggiunge: «di tanta complessità di cultura non è traccia nelle opere autografe del de Vigilia, e però se il Battesimo fosse veramente suo riuscirebbe cosa ben ardua inserirlo in un percorso, dal principio alla fine, ben definito»[57].
Ma sono gli scritti sulla scultura meridionale a segnare, a mio avviso, la frattura con il primo tempo degli studi del Nostro e ad inaugurarne un altro.
Il primo di questi riguarda il Monumento funebre della regina Isabella d’Aragona nella Cattedrale di Cosenza[58]. Secondo Bottari, l’eccezionalità storica del monumento, avrebbe offuscato l’interesse storico-artistico. In effetti il monumento, ritrovato solo nel 1891, è una preziosa traccia storica perché collegato ad eventi di fondamentale importanza: la regina Isabella, non ancora incoronata, era morta di parto in seguito ad una caduta da cavallo proprio a Cosenza, durante il viaggio che l’avrebbe dovuta ricondurre in Francia, di ritorno dalla fallimentare, nonché ultima, crociata, conclusasi, tra l’altro con la morte dello stesso sovrano capetingio, Luigi IX, suocero della stessa Isabella. Oltre alle notizie storiche, Bottari aggiunge alcuni accenni sul degrado in cui versava l’opera d’arte e sulle manomissioni subite per poi affermare che, nonostante tutto: «è sempre possibile cogliere il senso raffinato della primitiva bellezza e intendere il valore e il significato che l’opera viene ad assumere tanto nelle vicende della scultura francese che in quelle dell’arte italiana»[59].
Dell’opera rimane soltanto ciò che dovette appartenere all’altare: la Madonna con il Bambino al centro e ai lati Isabella e il reale consorte, nel gesto di preghiera; nelle due figure regali Bottari rileva che «appaiono al naturale e girate pressoché di tre quarti, come per chiudere in un cerchio di preghiera la loro commozione. Di qui se la figura centrale è d’impronta quasi architettonica e sembra più legata alla statuaria francese, le due laterali hanno uno svolgimento più libero e fortemente insistono sui profili […]. Il volto della regina, così emerge dal velo che elegantemente l’avvolge, sembra calcato – come si desume dalle palpebre chiuse dal cavo dell’ombra – sulla maschera funebre, e ciò accresce il senso dell’intimità assorta e lontana»[60].
Le composizione scultorea, sicuramente realizzata da artisti francesi, è direttamente collegata alle sculture di Saint-Denis, dove i resti della sfortunata regina furono in seguito traslati. Bottari riscontra una maggiore naturalezza nella raffigurazione cosentina di Isabella, rispetto alla quale quella di Saint-Denis manifesterebbe una «più sofferente sottigliezza […] e una anonima e generica fissità»[61]. Allarga quindi gli orizzonti e si pone degli importanti interrogativi su avvenimenti della Storia dell’Arte sicuramente più celebri: «si pensi all’incidenza che sculture del tipo di quella di Cosenza possono assumere nei confronti del problema della formazione di Simone Martini così misterioso»[62].
Il monumento cosentino, in effetti, è anche un prezioso documento, una testimonianza di scultura puramente francese, prima del rinnovamento culturale, in senso toscano, voluto da Roberto d’Angiò[63].
Bottari pone l’accento proprio sulla tavola martiniana del Museo napoletano di Capodimonte, il S. Ludovico da Tolosa, che manifesterebbe, a suo avviso, «il senso prezioso di un oggetto di oreficeria»[64]. Egli conclude la discussione approdando proprio ad un oggetto di arte “decorativa”: un reliquiario del Museo annesso alla Basilica di S. Domenico a Bologna, contenente proprio le reliquie del re di Francia Luigi IX, che presenterebbe caratteristiche simili a quelle del monumento cosentino.
Sarebbe questa una prova ulteriore che dimostrerebbe la circolazione di una matrice culturale gotica, che si preannuncia nel Meridione con i fatti cosentini, e che s’irradia nei decenni successivi nel resto d’Italia.
Bottari ripropone sulla rivista le sue argomentazioni sulla scultura inserendosi con pieno rigore metodologico nel filone di studi, sempre più scandagliato sulla scultura meridionale, con gli articoli su Nicola Pisano: il primo articolo dedicato allo scultore uscirà in un numero del 1959 di “Arte Antica e Moderna”, e avrà come titolo Nicola Pisano e la cultura meridionale[65].
La patria ideale dello scultore, non quella anagrafica, secondo Bottari, sarebbe ravvisabile nel Meridione, un Meridione informato dei fatti di Castel del Monte, impregnato di una cultura federiciana[66]. E, a supporto delle tesi incentrate sul classicismo fa un paragone letterario felicissimo con la prosa di Pier delle Vigne, in cui: «[...] il cursus della prosa latina, già snervato dall’aridità delle formulette, riacquista il suo respiro, riportandosi consapevolmente alle origini [...] delle Artes dictandi con il risultato di un periodare più complesso e articolato [...] vicino a quello della prosa numerosa della classicità»[67].
Nella cultura federiciana, vi è dunque uno slancio verso il recupero di una sorta di classicità, depurata dai bizantinismi e accompagnata dall’interesse curioso ed incline ad indagare empiricamente il reale. Questo fenomeno, in poesia, avviene attraverso la scuola poetica siciliana, che si esprimerà in una lingua che si allontana dal latino e ritrova in sé stessa un contatto maggiore con il reale.
Questo linguaggio si può estendere dunque alle arti figurative, proprio perché, sulle orme di Dante, lo studioso siciliano afferma che: «ai tempi di Federico II e Manfredi, ciò che di buono vi fosse nella cultura, si diceva siciliano, che è, si sa bene, una estensione per dire “del regno.” Al di là della letteratura si può ampliare alle arti figurative»[68].
La riflessione ed il parallelismo sulla lingua si intensificano maggiormente in un altro articolo che uscirà qualche anno dopo sempre sulla rivista, nel gennaio-marzo 1962, e sarà dedicato alla Deposizione di Nicola Pisano in
S. Martino di Lucca. In quest’opera, che si trova proprio sul portale della chiesa lucchese, lo studioso individua un altro passaggio fondamentale nel profilo poetico dello scultore: «non già dal gotico verso la classicità, ma dalla classicità verso il gotico, o se più piace, non già dal volgare verso il latino, ma dal latino verso il volgare. La lunetta di Lucca si connette alla scultura del pulpito pisano, ma da essa risulta profondamente diversa»[69].
A questo punto il confronto avverrà nel campo delle arti, con la pittura giottesca: il pulpito pisano starà alla Deposizione, come le Storie di Isacco affrescate nella Basilica di S. Francesco ad Assisi staranno alle Storie francescane della medesima chiesa.
Non tutti gli studiosi concordano nel riconoscere a Giotto le Storie di Isacco[70], che comunque nascono nello stesso contesto culturale e nello stesso grande cantiere assisiate.
Si contraddistinguono per il plasticismo, per un recupero dello «spazio abitabile perduto con la fine dell’arte classica». Ecco, nelle storie francescane, è invece ravvisata una verità umana più accordata alla lingua parlata, più reale: «L’impegno umano travalica il prestigio della dottrina, sicchè la forza del dramma trova in se stessa la misura della sua grandezza, del suo trasfigurarsi nel mito: il mito delle nuova realtà figurativa. Il percorso dialettico non è dalla realtà alla classicità, ma dalla classicità alla realtà. Qui, per la prima volta, Nicola si esprime in volgare, e lo fa attraverso la spiritualità gotica. Un tal passaggio prefigura quello di Giotto dal latino delle storie di Isacco, al volgare delle storie francescane»[71].
È in questo passo che Bottari ci regala una delle sue pagine più interessanti. Il periodare raggiunge nella scrittura quell’ottimo compromesso tra l’ansia appassionata e l’equilibrio puntuale e limpido della scelta lessicale, nell’espressione dei passaggi.
Un passo calibrato, espressione di “metriotes”, di giusto mezzo stilistico ed espositivo che fa scorrere, come in una galleria di immagini, i tratti salienti della rivoluzione giottesca, che consiste proprio nell’abbandono di quell’aura mitica, al fine di una creazione, a livello figurativo, di una nuova lingua, parallela alla lingua parlata.
Quanto per Bottari sarebbe davvero rivoluzionario in Nicola, risiederebbe nel precedere, attraverso la scultura, sia la rivoluzione giottesca, che la riflessione sul volgare da parte di Dante, come se il «profumo della pantera» fosse stato preannunciato nell’opera dello scultore: le arti figurative, con il loro linguaggio avrebbero quindi concorso anch’esse nel riflettere una nuova sensibilità, una nuova espressione d’umanità, più reale, più sincera come il dolore che traspira dalla Deposizione lucchese.
Le riflessioni di Bottari, a questo punto, potrebbero farlo cadere nel meccanismo da lui stesso considerato sterile, ovvero quello di risolvere i problemi dell’arte facendo un rapido ricorso ai fatti culturali e sociali, da cui dipenderebbero le evoluzioni o le scelte artistiche, rischiando di reintegrare le arti, anzi, l’arte, come assoggettata ad un sistema che la privi della sua autonomia, la riduca a breve corollario, a satellite.
Lo studioso siciliano, però, aggiunge una riflessione e lo fa nel nome del linguaggio specifico della scultura: innanzitutto pratica il classico confronto stilistico, imprescindibile per il lavoro dello storico dell’arte. Il suddetto confronto mette in relazione l’opera lucchese con quella realizzata da un anonimo autore del Jubè della Cattedrale di Bourges. Osserva, infatti, che nel manufatto «le figure s’inseriscono in quadrati, cioè in schemi geometrici fondamentali, proprio secondo la trattatistica francese»[72]. I tratti tipici della scultura gotica vengono quindi studiati dall’interno dell’opera cercando anche di definire una collocazione cronologica: «Le sculture francesi non precedono il pulpito di Pisa o la prima parte di esso, e se non si vogliono sforzare i pochi dati cronologici di cui disponiamo, è possibile ritenere che esse vennero eseguite subito dopo il pulpito di Pisa, avanti l’Arca di San Domenico, nelle cui parti ritenute autografe sta pure sottolineata una profonda intensità d’espressione»[73].
Il percorso dell’artista è dunque ricostruito, tentando il collegamento fra arti figurative e paralleli eventi della lingua e della letteratura, nel nome dei valori più alti dello spirito e non soltanto sulla base di un approccio storico-culturale. Ciò deriva sicuramente da un’impostazione filosofica dichiaratamente crociana. In quest’ottica il critico parte dall’intuizione, avvertita come motivo scatenante d’ispirazione, e in seguito la corrobora con un’analisi più empirica. Lo studioso quindi somiglia all’artista: «Si ricava che l’attività giudicatrice, che critica e riconosce il bello, s’identifica con quella che lo produce. La differenza consiste soltanto nella diversità delle circostanze, perché l’una volta si tratta di produzione e l’altra di riproduzione estetica. […] Come si potrebbe giudicare da noi ciò che restasse estraneo? Come ciò che è prodotto da una determinata attività si potrebbe giudicare con un’attività diversa?»[74].
Bottari, in quanto critico, attraversa anch’egli diverse fasi creative: nel suo scrivere d’arte coniuga i concetti di intuizione ed espressione asserendo che è l’intuizione pura, lontana da ogni elemento concettuale, a generare le sensazioni, ad esprimerle.
È un po’ come se lo studioso, in questo scritto, riproponesse all’interno del suo pensiero l’antico principio dell’ut pictura poësis, principio in vari modi non nuovo neanche per alcuni protagonisti di prim’ordine della critica d’arte italiana: Longhi e Ragghianti[75]. È interessante notare come questi fenomeni nascano nell’alveo della cultura crociana, come se il tentativo di riproporre l’autonomia dell’arte potesse esser reso attraverso la scelta letteraria, che consiste nel ricalcare sistematicamente nella scrittura ciò che viene espresso attraverso le arti visive.
Bottari, con gli scritti sull’arte meridionale nella prima fase della storia della rivista, ha fornito un contributo proveniente dal proprio bagaglio culturale pregresso. Così, con l’ultimo articolo su Nicola Pisano, ponendo cronologicamente la Deposizione tra il pulpito pisano e l’Arca di S. Domenico, segnala il primo allontanamento dell’artista dalle sue radici meridionali; il che in qualche modo ripropone ciò ch’egli stesso, come studioso, sta vivendo: il distacco da quelle tematiche che tanto aveva prediletto: non vi saranno più, in “Arte Antica e Moderna” articoli di grande rilievo firmati dal direttore Bottari, dedicati all’arte meridionale e soprattutto di pertinenza medievale.
Un po’ come l’amato Nicola Pisano, si allontanerà dai suoi orizzonti mitici per approdare, sempre più entusiasta, verso nuove scoperte, preferirà ritornarvi in altri luoghi, in monografie o in altri periodici.
[1] «[…] Salendo alla cattedra bolognese nel 1957, [aveva] variato e quasi convertito d’un tratto il proprio ambito di vita, arricchendo insieme i propri interessi di ricercatore, così da trasformarsi in animatore o organizzatore vivacissimo […]. Per sua iniziativa […], aveva dato vita a questa Rivista, di cui aveva voluto dividere la direzione col compianto Luciano Laurenzi, e nella quale gli studi intorno all’arte del Medio Evo e dell’età moderna si affiancavano agli studi archeologici». Con queste parole nel febbraio del 1967 Carlo Volpe ricorda Bottari. Cfr. C. Volpe, In memoriam, in “Arte Antica e Moderna”, IX, 34-35-36, aprile/dicembre 1966.
[2] Ibid. «[…] lo studioso affezionato agli impervi itinerari isolani, di cui nulla gli era rimasto ignoto, dove tanto aveva riportato alla luce e che da quelle appassionate stagioni aveva raccolto frutti preziosissimi per la storia dell’arte, siciliana in particolare, e dell’Italia meridionale in genere…».
[3] Bottari lo ricorda erede della scuola archeologica bolognese «che si fregia dei nomi di Edoardo Brizio, Gherardo Gherardini e di Pericle Ducati, a cui successe nella cattedra bolognese nel 1946». Cfr. S. Bottari, In memoriam, in “Arte Antica e Moderna”, IX, 34 -35 -36, aprile/dicembre 1966.
[4] Il pensiero crociano gli aveva offerto «i mezzi per superare i limiti specialistici della disciplina spostando l’accento sui problemi dello stile, del linguaggio, della creazione della personalità artistica». Cfr. G.C. Sciolla, La critica d’arte del Novecento, Utet, Torino 1995, p. 252. Cfr. R. Bianchi Bandinelli, Maestro delle imprese di Traiano, Electa, Milano 2003. Per Ranuccio Bianchi Bandinelli cfr. M. Barbanera, Ranuccio Bianchi Bandinelli. Biografia ed epistolario di un gran archeologo, Skira, Milano 2003.
[5] Un altro ricordo di Bottari sarà tracciato da Luciano Anceschi. Cfr. L. Anceschi, Ricordo, appendice in S. Bottari, Schegge di varia umanità: scritti di arte, cultura e politica apparsi su Il Mondo, La Nazione e la Sicilia negli anni dal 1965 al 1961, prefazione di G. Spadolini, Maggioli, Rimini 1988.
[6] Sul ruolo delle riviste cfr. Riviste d’arte fra Ottocento ed Età contemporanea. Forme, modelli, funzioni, Atti del convegno, Torino 3-5 ottobre 2002, a cura di G.C. Sciolla, Skira, Milano 2003.
[7] Sul riordino da parte di Mauceri delle stampe e disegni confluite nella Pinacoteca bolognese Ciancabilla scrive: «Sarà quello un momento fondamentale per l’attività di Mauceri a Bologna, una svolta: da quella circostanza nascerà il suo interesse verso la grafica che lo porterà nel volgere di pochi anni a risultati storico-critici e museografici di alto livello». Cfr. L. Ciancabilla, Mauceri bolognese, in Enrico Mauceri (1869-1966) storico dell’arte tra connoisserhip e conservazione, Atti del convegno, Palermo 27-29 settembre 2007, a cura di S. La Barbera, Flaccovio, Palermo 2009, pp. 219-220; Cfr. M. G. Aurigemma, Mauceri oltre la Sicilia, ivi pp. 171-181.
[8] Ancora su Mauceri cfr. S. Bottari, Ricordo di Mauceri, in “Il Resto del Carlino”, 5 luglio 1966, p. 3.
[9] Cfr. S. Bottari, Introduzione a Caravaggio, in “Nuova Italia”, 20 luglio-20 agosto 1935, I, pp. 95-97; II, pp. 30-47; Id., Jacopo della Quercia, in “Emporium”, ottobre 1938; Id., Leonardo, Istituto italiano d’Arti grafiche, Bergamo 1943; Id., Il cenacolo di Leonardo, Istituto italiano d’Arti Grafiche, Bergamo 1943.
[10] Cfr. G. Carandente, Casimir Malevic e il “suprematismo”, in “Arte Antica e Moderna”, II, 6, aprile-giugno 1959, pp. 172-173.
[11] Cfr. M. Calvesi, Mosaici moderni di Ravenna, in “Arte Antica e Moderna”, II, 5, gennaio-marzo 1959, pp. 469-470.
[12] Cfr. R. Pallucchini, Attualità di Morandi, in “Arte Antica e Moderna”, I, 1, gennaio-marzo 1958, pp. 57-64; Id., Inediti di pittura veneta del Seicento, ivi II, 5, gennaio-marzo 1959, pp. 97-102.
[13] Cfr. A. Ottani, Un’opera giovanile di Francesco da Bibbiena, in “Arte Antica e Moderna”, V, 18, aprile-giugno 1962, p. 200 e sgg.
[14] Cfr. E. Battisti, Postille documentarie su artisti italiani a Madrid e sulla collezione Maratta, in “Arte Antica e Moderna”, III, 9, 1960, pp. 77-88.
[15] L’annata 1961 della rivista sarà interamente dedicata a Roberto Longhi, in occasione del suo settantesimo compleanno. In questa occasione, verranno riuniti nella rivista i contributi dei più eminenti critici d’arte, da Cesare Brandi a Ferdinando Bologna, da Federico Zeri a Francesco Arcangeli e Giuseppe Fiocco, per citarne solo alcuni.
[16] S. Bottari, Dedica a Roberto Longhi, in “Arte Antica e Moderna”, IV, 8, gennaio-marzo 1961.
[17] Di Longhi si ricorda: «la modalità di stesura dei suoi testi critici insieme alla peculiarità della sua scrittura nella traduzione letteraria dei fatti figurativi studiati. I suoi scritti sono infatti costruiti a due piani, come una pala d’altare […]. Al primo corrisponde il testo, l’analisi dei fatti stilistici, la traduzione letteraria delle ricerche figurative. Al secondo l’apparato filologico e documentario, affidato alle note o alle appendici. Il testo non viene mai modificato, né corretto. È un fatto conchiuso, definitivo». G.C. Sciolla, La critica d’arte del Novecento..., p. 157.
[18] S. Bottari, Dedica a Roberto Longhi, in “Arte Antica e Moderna”, IV, 8, gennaio-marzo 1961.
[19] Cfr. S. Bottari, La critica figurativa e l’estetica moderna, Laterza, Bari 1935.
[20] S. Bottari, Discussioni e Recensioni. L’Enciclopedia dell’Arte, in “Arte Antica e Moderna”, III, n. 10, 1960, pp. 322-323.
[21] Ibid., 323.
[22] S. Bottari, Ricordo di Bernard Berenson, in “Arte Antica e Moderna”, II, 8, ottobre-dicembre 1959, pp. 467-469.
[23] Ibid, p. 468.
[24] Ibid.
[25] Ibid.
[26] Ibid.
[27] «Atene e Firenze: ecco i due miti di Berenson! Questa difesa appassionata e continua non ha i limiti angusti dell’accademismo, ma è dominata e orientata da un interesse profondamente etico: la difesa della libertà, della personalità umana, della ragione». S. Bottari, Momento della critica d’arte contemporanea, D’Anna, Messina-Firenze 1968, p. 204.
[28] S. Bottari, La Mostra di Michelangelo a Roma, in “Arte Antica e Moderna”, Notiziario, VII, 25, 1964, II.
[29] Ibid.
[30] Ibid.
[31] Ibid.
[32] In realtà Bottari si pronuncerà altre volte nella rivista riguardo ai temi di arte “meridionale”, che riflettono però quegli interessi dello studioso sul tema della natura morta, argomento che, nel periodico, prenderà piede intorno al 1963. Cfr. S. Bottari, Una traccia per Luca Forte e il primo tempo della natura morta a Napoli, in “Arte Antica e Moderna”, VI, 23, 1963, pp. 242-243; Id., Fede Galizia pittrice, 1578 -1630, in “Arte Antica e Moderna”, VI, 24, 1963, p. 314 e sgg; Id., Una ipotesi per Aniello Falcone, IX, 34, 1966, p. 142 e sgg. Per altri contributi di Bottari sulla natura morta cfr. La natura morta italiana, catalogo della mostra, Napoli - Zurigo - Rotterdam ottobre 1964-marzo 1965, Alfieri & Lacroix, Milano 1964. S. Bottari, La nature morte italienne, in “L’oeil”, 1964, 117, 2-9, p. 67; S. Bottari, Fede Galizia pittrice, Maroni, Trento 1965.
[33] Cfr. G. Di Stefano, Il duomo di Cefalù: biografia di una cattedrale incompiuta, Palermo 1960.
[34] S. Bottari, Discussioni e recensioni, in “Arte Antica e Moderna”, V, 18, aprile-giugno 1962, p. 216.
[35] «La pianta è semplicissima, ad unica nave (ma il Bottari formula l’ipotesi [assolutamente improbabile] che in origine l’aula fosse tripartita da colonne laterizie, di cui esisterebbe qualche resto». G. Di Stefano, W. Krönig (a cura di), Monumenti della Sicilia normanna, Flaccovio, Palermo 1979, pp. 16-17. Per il secondo esempio cfr. ibid., pp. 22-24; S. Bottari, Chiese basiliane della Sicilia e della Calabria, Principato, Messina 1939, pp. 13-16, 19-31.
[36] S. Bottari, L’architettura della Contea, in “Siculorum Gymnasium”, I, 1948, p. 13, pp. 1-20; G. Di Stefano, Monumenti della Sicilia..., pp. 34-35.
[37] Cfr. S. Bottari, La pittura del Quattrocento in Sicilia, D’Anna, Messina - Firenze 1954.
[38] S. Bottari, Da Tuccio di Gioffredo a Riccardo Quartararo, in “Arte Antica e Moderna”, II, 6, 1959, pp. 170-172.
[39] Cfr. S. Bottari, La pittura del Quattrocento in Sicilia, D’Anna, Messina-Firenze 1954, pp. 84 sgg.
[40] Ibid., p. 52.
[41] «Nel dipinto di Gaeta e in quello di Palermo è infatti la stessa sontuosa profusione di ori; gli angeli svolazzano con la stessa fatuità; i troni su cui si asside la Vergine hanno lo stesso artificiato assetto». Ibid.
[42] Ibid., p. 171.
[43] Cfr. I. Toesca, Un’opera del Quartararo, in “Paragone”, 41, 1953, pp.38-39.
[44] S. Bottari, Da Tuccio di Gioffredo..., p. 171.
[45] Cfr. C.H. Post, A History of Spanish Painting..., X, p. 419.
[46] Ibid.
[47] Cfr. S. Bottari, Echi di Antoniazzo e Cristoforo Scacco nella pittura siciliana, in “La Giara”, 1, 1952.
[48] Cfr. S. Bottari, La pittura del Quattrocento in Sicilia..., pp. 52 e sgg.
[49] Ibid., p. 84 e sgg.
[50] Per una bibliografia di Riccardo Quartararo: G. Di Marzo, Di Pietro Ruzzolone pittore palermitano dei secoli XV e XVI, in “Archivio Storico Siciliano”, XXI, 1896, pp. 36-45; Id., La pittura in Palermo nel Rinascimento, Palermo 1899, pp. 157-202; E. Mauceri, Riccardo Quartararo, in “Emporium”, 18, 1903, pp. 466-473; Id., Riccardo Quartararo a Napoli, in “L’Arte”, 6, 1903, pp. 128-129; Id., Una tavola del pittore Quartararo, in “Rassegna d’Arte Antica e Moderna”, 1903-1915, p. 203; Antonello da Messina e la pittura del ‘400 in Sicilia, catalogo della Mostra (Messina 1953) a cura di G. Vigni, G. Carandente, Alfieri, Venezia 1953, pp. 69-70; M. G. Paolini, Note sulla pittura palermitana tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, in “Bollettino d’arte”, XLIV, 2, 4, 1959, pp. 122-140; R. Delogu, La Galleria Nazionale della Sicilia, Istituto Poligrafico di Stato, Roma 1962, pp. 37-40; F. Zeri, Un S. Michele Arcangelo del Quartararo, in “Paragone”, 61, 1962, pp. 53-54; F. Meli, Regesto dei documenti editi e inediti su Riccardo Quartararo, in “Arte Antica e Moderna”, VII, 1965, pp. 375-384; V. Abbate, in X Mostra di Opere d’Arte restaurate, Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici della Sicilia occidentale, Palermo 1977, pp. 64-72; M. Andaloro, Riccardo Quartararo dalla Sicilia a Napoli, Annuario dell’Istituto di Storia dell’Arte, Roma 1974-75/1975-76 (1977), Università degli studi di Roma “La Sapienza”, Facoltà di Lettere e Filosofia, pp. 81-124; F. Bologna, Napoli e le rotte mediterranee della pittura da Alfonso il Magnanimo a Ferdinando il Cattolico, Società Napoletana di Storia Patria (1977), Napoli 1978, pp. 161-203; P. Santucci, Su Riccardo Quartararo: il percorso di un maestro mediterraneo nell’ambito della civiltà aragonese, in “Dialoghi di Storia dell’Arte”, II, 1996, pp. 32-57; T. Pugliatti, La pittura del Cinquecento in Sicilia. La Sicilia occidentale. 1484-1557, Electa Napoli, Napoli 1998, pp. 21-64.
[51] S. Bottari, Da Tuccio di Gioffredo..., p. 171.
[52] S. Bottari, Taccuino meridionale. Resti di un polittico di Tommaso de Vigilia (?), in “Arte Antica e Moderna”, III, n. 10, aprile-giugno 1960, pp. 159-160.
[53] Cfr. R. Longhi, Frammento siciliano, in “Paragone”, 47, 1953 (IV), pp. 3-44.
[54] S. Bottari, Taccuino meridionale. Resti..., p. 160.
[55] Ibid.
[56] Di Marzo era certo che il Battesimo fosse opera del pittore Tommaso de Vigilia, la critica del Novecento invece non è stata sempre concorde in merito: Vigni e Carandente ne dubitano fortemente nel catalogo provvisorio della mostra, mentre l’attribuiscono a Tommaso nel catalogo definitivo; Bottari, come abbiamo visto, boccia l’ipotesi per poi ritenerla possibile e invece confermarla definitivamente nel 1962; la Di Natale infine, inserisce a pieno titolo l’opera nel repertorio del pittore palermitano dopo uno studio attento e approfondito dal punto di vista stilistico, confrontandola con opere ritenute certe. Cfr. G. Di Marzo, La pittura in Palermo..., p. 94; Antonello da Messina e la pittura del ‘400 in Sicilia, catalogo provvisorio della Mostra (Messina 1953) a cura di G. Vigni, G. Carandente, p. 32; Antonello da Messina e la pittura, p. 64; S. Bottari, L’arte in Sicilia, D’Anna, Messina-Firenze 1962, pp. 42 e 95; M.C. Di Natale, Tommaso de Vigilia, parte I, Quaderno A.F.R.A.S., n. 4, premessa di M. Calvesi, Palermo 1974, p. 29.
[57] S. Bottari, La pittura del Quattrocento..., p. 40.
[58] S. Bottari, Il monumento della Regina Isabella d’Aragona nella Cattedrale di Cosenza, I, n. 4, 1958, pp. 339-344.
[59] Ibid., p. 340.
[60] Ibid.
[61] Ibid., p. 341.
[62] Ibid., p. 342.
[63] «La più antica scultura angioina di committenza “alta”, regale o feudale, parla veramente francese, sia perché opera di artisti transalpini sia perché prodotta da scultori dalla cultura francese profondamente segnati. Occorrerà attendere l’arrivo alla corte di re Roberto, all’inizio del terzo decennio del Trecento, dello scultore senese Tino di Camaino perché l’ambiente della scultura napoletana si allinei alla pittura nel cedere al richiamo della sirena toscana». Per una bibliografia sull’argomento cfr. F. Abbate, Storia dell’arte nell’Italia meridionale. Il Sud angioino e aragonese, Donzelli, Roma 1998, pp. 16-17.
[64] S. Bottari, Il monumento della Regina Isabella..., p. 343. Volpe, nel ricordare che l’ambito degli interessi culturali di Bottari «spaziava nel tempo […]: dai problemi dell’arte romanica…, a quelli dell’arte gotica, fra i quali aveva negli ultimi anni, trascelto quell’episodio altissimo e decisivo, cui intendeva dedicare un volume, che purtroppo resta allo stato di abbozzo: l’arte Nicola Pisano e il suo significato storico», menziona i saggi nei quali lo studioso aveva analizzato le connessioni fra la produzione gotica toscana del Maestro e il passato “federiciano”, osservando che era «prerogativa del pensiero del Bottari, […] affrontare i luoghi della storia […]; i problemi cioè della formazione e della spiegazione delle personalità creatrici che stanno a fondamento di ogni nuova età dell’arte, dei massimi rinnovatori insomma». Cfr. C. Volpe, In memoriam..., p.
[65] S. Bottari, Nicola Pisano e la cultura meridionale, in “Arte Antica e Moderna”, II, 5, gennaio-marzo 1959, pp. 43-51.
[66] Cfr. F. Bologna, Chiesa di S. Giovanni Battista, Castelli, in “Documenti dell’Abruzzo Teramano. La valle siciliana o del Mavone”, I, Roma 1983; F. Abbate, Storia dell’arte nell’Italia...., p. 24, 53.
[67] S. Bottari, Nicola Pisano..., p. 47.
[68] Ibid.
[69] S. Bottari, La Deposizione di Nicola Pisano in S. Martino di Lucca, in “Arte Antica e Moderna”, V, 17, gennaio-marzo 1962, p. 76.
[70] La Romanini, per una serie di motivazioni, giunge a ipotizzare che siano opera di Arnolfo di Cambio. Cfr. A.M. Romanini, Arnolfo di Cambio e il rinnovamento della pittura gotica in Italia, in L’arte medievale in Italia, Sansoni, Firenze 1988, pp. 476-480; cfr. E. Simi Varanelli, Dal Maestro d’Isacco a Giotto. Contributo alla storia della perspectiva communis medievale, in “Arte medievale”, III, 1989, pp. 115-143; B. Zanardi, Giotto e Pietro Cavallini. La questione di Assisi e la pittura medievale della pittura a fresco, Skira, Milano 2002.
[71] Ibid., p. 75.
[72] Ibid.
[73] Ibid., p. 77.
[74] B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, Laterza, Bari 1912, par. I, XVI.
[75] A proposito di Ragghianti Franco Bernabei mette il luce gli influssi del pensiero crociano sulla sua opera critica ma anche un aspetto «non insensibile tuttavia al richiamo delle competenze formalistiche». Cfr. F. Bernabei, Percorsi della critica d’arte, Edizioni Cleup, Padova 1995, pp. 284-285. Recentemente lo stesso Bernabei si è pronunciato anche su Bottari, assertore del crocianesimo nell’opera Il linguaggio figurativo del 1935 i cui Bottari «si era distinto per una crociana polemica anti-purovisibilista (e antiventuriana)», sottolineando poi le “incoerenze” rispetto al pensiero crociano e gli «interessi per il Medioevo non privi di accenti venturiani, indi riserve nei confronti dell’individualismo rinascimentale». Cfr. F. Bernabei, La critica d’arte in Italia e il modello linguistico nella prima metà del Novecento, in Storia, critica e tutela dell’arte nel Novecento. Un’esperienza siciliana a confronto del dibattito nazionale, Atti del Convegno Internazionale di Studi in onore di Maria Accascina, Palermo-Erice 14-17 giugno 2006, a cura di M.C. Di Natale, Salvatore Sciascia editore, Caltanissetta 2007, pp. 59-74 e in part. p. 73.
[76] Cfr. S. Bottari, Saggi su Nicola Pisano, Patron, Bologna 1969.
[77] Id., Momento della critica d’arte contemporanea, D’Anna, Messina-Firenze 1968.