La Palermo degli anni Sessanta[1] rappresentò un momento di vivace fermento culturale e creativo a livello letterario, musicale e artistico, con le sperimentazioni poetiche della “Scuola di Palermo” (Perriera, Di Marco, Testa), la nascita del “Gruppo ‘63”, le Settimane di Nuova Musica[2] (1960-68), le mostre collettive “Revort I” (1965) e “Revort II” (1965), che riunirono in città artisti internazionali, e l’apertura di numerose gallerie d’arte.
Parallelamente si assistette anche nel capoluogo siciliano al sorgere di una pubblicistica ascrivibile all’ambito della cosiddetta ‘esoeditoria’, «quelle esperienze editoriali autogestite, autofinanziate, autonome che hanno prodotto essenzialmente libri, riviste, plaquettes, piccoli cataloghi, manifesti, voltanini…[…], organi militanti, laborativi attivi, sperimentazioni in forma di rivista»[3]. Ciò avvenne con una innovativa proposta di alternativa culturale veicolata da una rivista che prese il nome di “Collage”. Nata nel 1962 come ‘rivista parlata’, con il titolo “Collage. Dialoghi di cultura”, divenne stampata nel 1963 e fu pubblicata fino al 1970.
A fondarla furono tre giovani intellettuali palermitani: lo scrittore Gaetano Testa e i musicologi e critici d’arte Paolo Emilio Carapezza e Antonino Titone. Quest’ultimo, nel 1959, aveva già fatto parte con altri giovani compositori (Franco Evangelisti, Egisto Macchi e Domenico Guaccero) del comitato di redazione della rivista romana “Ordini. Rassegna di studi sulla Nuova Musica”, di cui era uscito un solo numero nel mese di luglio. Come avrebbe dichiarato in seguito Carapezza, «“Collage” fu erede di “Ordini” e frutto delle “Settimane di Nuova Musica”»[4].
La rivista «Collage» parlata era strutturata con dei sommari contenenti tutti gli argomenti previsti. Accanto agli autori e ai titoli degli interventi vi erano i minuti di ogni lettura. Noi mandavamo dei pieghevoli-invito, con indicati, in copertina, il titolo e i redattori: Carapezza per la musica, Gaetano Testa per la letteratura e io per le arti visive, anche se eravamo abbastanza intercambiabili. All’interno c’era il sommario, e al posto delle pagine i minuti di lettura. Alla fine era conteggiata la durata totale dell’incontro, al quale seguiva sempre un dibattito, di solito molto animato[5].
Il primo “numero” debuttò l’8 gennaio 1962, alle ore 18.15, nella saletta dell’ammezzato della Libreria-Casa Editrice Flaccovio.
Salvatore Fausto Flaccovio, appassionato d’arte e gestore di una galleria nei locali attigui alla sua libreria di via Ruggiero Settimo, continuava, editando la rivista, il suo impegno di diffusione e riflessione culturale iniziato nel dopoguerra con la pubblicazione di “Chiarezza. Settimanale di vita sociale”[6] (15 gennaio 1946 – 9 marzo 1947) e proseguito con “Sicilia”7[7], rivista ufficiale dell’Assessorato Regionale Turismo e Spettacolo (1953-1982).
“Collage” rappresentava, quindi, per Flaccovio una nuova scommessa al fianco di alcuni tra i migliori e più vivaci intellettuali della città, che dibattevano non solo sui principali eventi locali (mostre, novità editoriali, ecc.), ma anche su problemi sociali. La pratica di una rivista parlata, piuttosto che scritta, manifestava e per alcuni aspetti anticipava, coi dovuti distinguo, gli influssi di una tendenza più ampia maturata tra gli anni Cinquanta e Sessanta in Europa e poi in altre parti del mondo, come gli Stati Uniti e il Giappone. La «vorticosa progressione dell’insufficienza della scrittura, in maniera direttamente proporzionale all’infittirsi degli intrecci significanti all’interno dello spazio intermediale»[8], e il procedere di alcuni poeti e scrittori verso nuovi progetti basati sulla contaminazione dei sistemi, l’uso di nuovi media (radio, televisione) e supporti di registrazione condussero a una rivalutazione del mezzo vocale, generando una “nuova oralità”. Nacquero, così, alcune esperienze di ‘poesia sonora’ e le cosiddette “Audioriviste”, basate su supporto vinilico e magnetico, come la francese “Ou” (1964), a dimostrazione di un sentimento d’inadeguatezza verso le tradizionali riviste cartacee, oggi sfociato nella proliferazione di pubblicazioni telematiche, molte delle quali dal taglio rigorosamente scientifico, e nel successo della diffusione di informazioni on line.
In questo interessante recupero della dimensione dialogica e orale, “Collage” manifestava uno dei suoi molteplici aspetti di modernità e novità, insieme al carattere multidisciplinare e all’apertura al dibattito pubblico. La condivisione della cultura vissuta come confronto dialettico riecheggiava, inoltre, certe serate avanguardiste di primo Novecento, dal Futurismo al Dadaismo, pur senza gli accenti di dirompente scardinamento e provocazione di queste ultime.
In un articolo apparso nel febbraio 1962 sul quotidiano “Il Tempo”, Titone narrava come fosse nata l’idea della rivista:
Una sera a casa mia, bevendo il tè con Carapezza e Testa, si lamentava la deprimente atmosfera reazionaria, accademica della nostra cultura anche fra i giovani più dotati. Si pensò a un club estemporaneo in cui potessimo raccogliere un gruppo ristrettissimo di amici e leggere poesie, recitare lavori teatrali, fare ascoltare musica, esporre quadri, etc. Il tutto all’insegna del più spericolato avanguardismo, in barba ad ogni prudenza delle accademie e a ogni decoro accademico. Così si passò rapidamente dai fumi del tè all’idea di un giornale parlato che comprendesse tutte queste ambizioni. E nel giro di pochissimi minuti trovammo tutto: la formula, il titolo e persino il sommario del primo numero. Trovammo anche l’editore, ovvero pensammo subito a Flaccovio, come l’unica persona che fosse a un tempo coraggiosa e dotata di mezzi economici e organizzativi[9].
Spiegava anche la struttura di “Collage” e ne evidenziava i vantaggi legati alla sua “oralità”:
il dibattito. Ogni numero di «Collage» ospita trenta minuti di dibattito sugli articoli che esso tratta. 2) la possibilità di avvalersi di altre forme di comunicazione quale l’ascolto della musica attraverso i nastri magnetici; la lettura di testi poetici; la visione di quadri, sculture, addirittura, in futuro, la recitazione di testi teatrali. «Collage» è impaginato rigidamente come la rivista stampata. Le pagine sono i minuti. Noi redattori disponiamo per ogni numero, compreso il dibattito, di ottantacinque minuti di tempo ed entro questo limite tutti gli articoli vengono parlati, rigidamente cronometrati e severamente tagliati quando escono fuori dal limite, come avviene in un qualsiasi giornale. Questa libertà ci permette di tenere ciascuno scritto entro un equilibrio complessivo di tutta la rivista[10].
Essa comprendeva, normalmente, una “verifica” (3’) con gli ascoltatori, corrispondente all’articolo di fondo dei quotidiani; un “pezzo di varietà” su fatti di cronaca, costume, arti visive (8’); un momento più lungo dedicato alla letteratura, con critica e lettura di testi (un quarto d’ora circa); l’argomento centrale della rivista (sempre di 20’) su politica, economia, architettura, costume o altro; un intervento di carattere vario, come la lettura di un testo o l’ascolto di un brano musicale; il dibattito finale (circa 30’), «l’unica parte della rivista che non viene letta, ma improvvisata. Ad essa si è voluto riservare un ampio spazio perché in un certo senso sta a indicare lo spirito di “Collage” che tende ad un incontro vivo, libero, di opinione, di convinzione di temi da discutere, tra i redattori che assumono la veste di stimolatori e il pubblico che in un certo senso è proprio l’elemento fondante di «Collage», rivista che non vorrebbe avere autori ma solo lettori»[11].
Nella Prolessi (phrase à trois), Carapezza spiegava:
“Collage” rivista parlata, nasce dall’insufficienza di un dialogo limitato. A tre, a noi tre (phrase à trois) che abbiamo sempre stimolato la nostra solidarietà attraverso una diuturna azione di disturbo reciproco, isolati in una situazione culturale, in un ambiente sciatto e d’importazione, un dialogo privato finirebbe col risultare dannoso. Ci lega invece la presunzione di «pretendere in compagnia». Ed il senso delle nostre pretese è tale che soltanto una «frase in molti» qui, a Palermo, dove tutto viene orecchiato con molte stonature, può avere un senso. La presunzione di farvi assistere ai nostri «dialoghi» privati, quasi facendovi un onore è forse – perciò giustificata: e non è dunque presunzione. Tutta la mia presunzione è nel credermi integro nell’alienazione generale[12].
La scelta della rivista parlata aveva, dunque, una motivazione sociale profonda che mirava al risveglio degli animi e alla presa di coscienza di sè grazie al confronto con gli altri. La forma verbale, privilegiata rispetto a quella scritta, mirava a una maggiore efficacia comunicativa:
Facciamo tutto parlando […] perché il detto penetra più in profondità che lo scritto. Scritto per la massa, detto per gli individui singoli. […] Veramente preferirebbe, questa nostra prolessi, gridarla nelle piazze (Majakovskij chi lo dimentica?), ma il senso della situazione che viviamo è tale che una qualche soluzione del genere suonerebbe falsa. Proprio perché ci crediamo integri nell’alienazione di tutti e ci crediamo integri in pochi, l’importante è che in pochi ci s’incominci a guardare negli occhi, che si determini una temperatura che poi si possa contagiare ai più. Che un dialogo nasca, anche frammentario e discorde; non pretenderà che di essere un dialogo. E sarà pur sempre una conveniente possibilità di esistere[13].
La lettura del primo numero di “Collage”, ricorda Titone, invece di essere un incontro tra pochi, come quasi auspicava Carapezza
ebbe un successo incredibile, tale da costringerci a spostare la sede dalla Libreria Flaccovio al Salone delle Mostre del Banco di Sicilia. Ebbe tanta eco anche a livello nazionale che vari quotidiani, come “Il Tempo”, scrissero su “Collage” parlato. Anche Roberto De Monticelli, l’illustre critico teatrale de “Il Giorno” [...] venne a farci delle interviste pubblicate con le nostre fotografie. A un certo punto, Carapezza andò a fare il militare a Roma e i suoi pezzi, che ci spediva, venivano letti dalla mia fidanzata, poi prima moglie, Ida Vicari. Durante la lettura di «Collage» facevamo ascoltare musiche, esponevamo quadri, era un misto di vari interventi. C’era una risposta molto dialettica da parte di chi ascoltava. Questo rese anche vivace «Collage», che non avrebbe avuto il successo che ebbe se non avesse trovato l’interlocutore giusto. In fondo, i redattori di “Collage” siamo stati noi e il nostro pubblico[14].
In effetti, l’esperimento suscitò una vasta eco di consensi e fu salutato dai toni entusiastici di critica e stampa, che definirono quasi un miracolo, «un fenomeno di positività»[15], la nascita di un’esperienza così originale e singolare «a Palermo, che in fatto di iniziative culturali mai si è inserita nel vivaio nazionale e che il meglio di sé ha serbato nella intimità degli studi dei suoi autori più rappresentativi, nel geloso silenzio delle case e delle biblioteche»[16].
Il secondo numero di “Collage” fu letto il 3 marzo 1962 alle ore 18, presso il Salone delle Mostre del Banco di Sicilia, in via Mariano Stabile, in uno spazio più ampio e adatto ad accogliere il folto gruppo di lettori-ascoltatori, «più di duecento persone, di tutte le fasce»[17].
L’uditorio era formato soprattutto da esponenti del mondo universitario, come Natale Tedesco – giovane italianista, assistente di Gaetano Trombatore alla Facoltà di Lettere e Filosofia – che accusava i giovani di “Collage” di mancare di prospettiva storica e di non riuscire a mantenere il difficile equilibrio «tra cultura accademica arretrata e cultura d’avanguardia provvisoria»[18], e da intellettuali come l’antropologo Nino Buttitta, i musicologi Roberto Pagano e Gioacchino Lanza Tomasi, il direttore d’orchestra Angelo Musco, gli scrittori Michele Perriera e Roberto Di Marco, il regista Accursio Di Leo e tanti altri. Non mancavano, però, studenti, curiosi e uditori non appartenenti all’intellighenzia cittadina ma in cerca di novità e stimoli culturali: costituivano un pubblico vivace e, in alcuni casi, agguerrito che, come ricorda Testa, «veniva per provocare»[19].
Entusiasta l’editore Flaccovio:
Non mi sono mai fidato del primo successo – ha confessato – perché so per esperienza che la presentazione di un’opera, a qualsiasi genere appartenga, disorienta il pubblico, che si lascia invece influenzare più dal fattore curiosità che da un esame obiettivo ed estetico di ciò che gli viene presentato. Per questa seconda volta avevo delle previsioni di maggiore freddezza del pubblico, e minore partecipazione di esso al dibattito, come logica reazione di attesa a questa nuova formula dell’editoria giornalistica culturale. Invece, nella fase più delicata dei nostri «dialoghi», abbiamo corso il pericolo di essere travolti dall’impreveduto successo. Questo successo ci eccita: e ci spinge a migliorare «Collage», per renderla più interessante ad un pubblico più vasto. Nei prossimi numeri ci saranno, quindi, delle novità[20].
Al Salone delle Mostre del Banco di Sicilia si tenne anche il terzo numero di “Collage” (18 aprile 1962, ore 18)[21], nel quale si registrarono delle particolarità. La prima fu l’intervento diretto dell’editore che, eccezionalmente, si sedette dietro al tavolo con i redattori. La seconda fu il taglio quasi monografico, incentrato in gran parte sul poeta Ezra Pound – molto letto negli anni Sessanta – e sulla sua opera maggiore, i Cantos, quasi un grande poema modellato sulla Divina Commedia di Dante. Il successo della rivista fu tale che ne furono richieste da Milano, Roma e persino da Parigi edizioni speciali, la cui realizzazione, però, avrebbe creato non pochi problemi di costi e che, quindi, non videro la luce.
Gli incontri di “Collage” si tenevano in quel periodo a breve scadenza, tanto che era stato possibile mantenere un ritmo mensile. Dopo poco meno di un mese dal terzo numero, infatti, venne organizzata la lettura del numero 4, di nuovo al Salone delle Mostre del Banco di Sicilia (11 maggio 1962) e il 27 giugno 1962, alle ore 18, fu la volta del numero 5. Anche questo numero ebbe quasi un impianto monografico, incentrato sul teatro a Palermo e sulla sua crisi, soprattutto economica, che rifletteva lo stato di malessere di tutta la cultura siciliana. All’inchiesta parteciparono personalità politiche, artisti, giornalisti, cittadini, con interventi orali e scritti pervenuti in redazione, di cui fu data lettura.
Se la relazione tra “Collage” e le “Settimane di Nuova Musica” era stata sin dal principio significativa, sia per la coincidenza dei loro promotori, sia per la costante attenzione prestata dalla rivista alla musica contemporanea d’avanguardia, essa divenne ancor più palese in occasione del numero 6, un numero speciale, svoltosi il 7 ottobre 1962 alle ore 22 nella Sala Scarlatti del Conservatorio di Musica “Vincenzo Bellini”, in concomitanza con la “Terza Settimana Internazionale di Nuova Musica” (1-8 ottobre 1962)[22].
Con questo numero si concluse l’esperienza di “Collage” parlato, che ebbe un solo ultimo episodio, un numero speciale nel 1964. Il 1963, infatti, fu l’anno della svolta: da parlata, la rivista divenne scritta, poiché, secondo Titone «si sentiva un bisogno di maggiore stabilità. «Collage» si accingeva a cambiare pelle, perdeva la letteratura e da rivista parlata diventava stampata»[23].
Nasceva, così, “Collage.
Dialoghi di cultura. Rivista trimestrale di nuova musica e arti visive contem-poranee”[24]. Pur mantenendo parte del
nucleo originale della
redazione, con Cara-pezza e Titone come curatori, nella rivista cartacea vi furono alcuni cambia-menti: l’uscita di Gaetano Testa e soprattutto il cambio di editore, da Flaccovio a Denaro[25]. Di numeri, tra il 1963 e il 1970, ne uscirono otto, ma sin dal primo, nella Verifica di Carapezza (posta all’inizio come in quella parlata), venne significativamente sottolineato il rapporto con l’originario, glorioso momento della versione orale:
Si conta come settimo questo primo numero scritto di Collage, dopo i sei parlati dal gennaio all’ottobre dell’anno scorso (1962): ad indicare una continuità d’azione e di intenti (e numeri parlati usciranno ancora in speciali occasioni)[26]. Se non si vuol rinunciare al detto, che per il vivo calore umano ancora fisico penetra più in profondità che lo scritto, di questo s’ha pur bisogno e della più serena riflessione e della maggiore profondità di visione che esso solo permette. E s’ha bisogno ancora d’una maggiore durata di quello che facciamo, e della possibilità almeno che non abbia confini di luogo. Di questo il modo come s’è ora costituita la redazione sembra proprio esser garanzia[27].
La redazione di “Collage” stampato si presentava più articolata e coinvolgeva un numero più ampio di persone, che nel corso degli anni sarebbe ulteriormente aumentato o, comunque, mutato. Di fatto, anzi, si trattava di due redazioni parallele, una per la musica e una per le arti visive, con Titone come direttore e coordinatore. La redazione ‘musica’ era composta da Domenico Guaccero, Heinz-Klaus Metzger e Paolo Emilio Carapezza; quella ‘arti visive’ da Maurizio Calvesi, Nello Ponente e Vittorio Rubiu. Ci si avvaleva anche di corrispondenti dall’estero, a riprova del taglio internazionale e decisamente antilocalistico dato alla pubblicazione, diversamente dall’edizione parlata, più attenta e legata alle vicende palermitane. Da Madrid scriveva Luis de Pablo, da Parigi Bihdan Pilarski; i testi italiani erano tradotti e pubblicati anche in inglese, gli articoli stranieri lasciati in lingua originale con la traduzione in italiano a fronte[28].
Carapezza, nella già citata Verifica del primo numero, spiegava: «“Collage” tratta di nuova musica e di arti visive – qualitativamente – contemporanee»[29] e ribadiva «l’affinità costituzionale odierna tra le due arti»[30]. Chiariva, inoltre, il senso del titolo della rivista: «Le differenti posizioni dei redattori, data l’ideologia comune, devon considerarsi un fatto positivo. Dall’unione di tanti differenti il nome della rivista, Collage. E si consideri che la risultante di più forze diverse può essere ben potente, quando applicate allo stesso corpo tendono verso una stessa zona dello spazio»[31].
Il ricco corredo illustrativo, con immagini in bianco e nero e tavole a colori, riguardava entrambe le sezioni, visto che anche nella produzione musicale contemporanea vi era uno stretto rapporto tra segno grafico-colore-forme-partiture. Gli spartiti di Bussotti, Evangelisti, Kayn, ad esempio, si potevano appropriatamente definire ‘espressioni grafiche’ e ‘forme musicali’, quasi una trasposizione in musica di composizioni visivo-verbali simili a quelle di Apollinaire degli anni Dieci, in linea anche con le esperienze di poesia visiva e concreta che nascevano in quel periodo in Italia e all’estero[32].
Titone ricorda «gli sbaffi di Carapezza e i grafismi di Bussotti, che era nipote di un pittore, Tono Zancanaro, e dipingeva, così come Sciarrino, il quale nelle sue opere sfiorava la pittura»[33], ma evoca anche lavori ideati da lui stesso, come una composizione «molto basata sulla spazializzazione del segno musicale che diventava segno grafico»[34].
A parte questa pratica dello sconfinamento tra le arti e le affinità visive legate alla cosiddetta «visualizzazione spaziale della musica»[35] e alla nuova sintassi di matrice weberniana fatta di strutture, costellazioni e punti, quello che più univa i due settori di “Collage” era «il radicalismo dei linguaggi degli uni e degli altri»[36].
La rivista aveva una struttura piuttosto complessa, con ciascuna delle due sezioni composta da rubriche fisse che, nei vari numeri, potevano avere posizione intercambiabile. Quella musicale comprendeva due saggi critici e le rubriche “Collazione”, “Verifica”, “Letture”, “Asterisco*”; quella di arti visive prevedeva altrettanti saggi critici e le rubriche “Confronto”, “Scheda”, “Asterisco**”; queste distinzioni erano, però, alquanto flessibili e furono realizzate “collazioni” e “letture” anche in ambito artistico e “confronti” e “schede” in quello musicale. Paragonando, ad esempio, i vari sommari, si può evincere come, in effetti, le schede[37] monografiche di approfondimento, che potevano essere anche più d’una in uno stesso numero, fossero dedicate quasi esclusivamente a musicisti: Sylvano Bussotti (in “Collage” n. 2), Mauricio Kagel (n. 3-4), Frederic Rzewski (n. 6), Franco Evangelisti e Roland Kayn (n. 7), Franco Donatoni (n. 8) e Aldo Clementi (n. 9); solo due, invece, ebbero come argomento artisti visivi, Mimmo Rotella (n. 1) e Ettore Colla (n. 5), mentre una fu incentrata su una figura chiave dell’ambiente musicale palermitano, il barone Francesco Agnello, Presidente dell’EAOSS (n. 5). Per avviare un meccanismo così elaborato, che si rifletteva nell’altrettanto elaborata struttura della rivista, ci volle tempo, e il primo numero di “Collage” stampato vide la luce nel dicembre 1963. Ricorda Titone: «Dichiarammo nel primo numero che la rivista sarebbe stata trimestrale, ma ben presto scivolammo nei numeri doppi e alla fine la convertimmo in annuario»[38]. I tempi tra un numero e l’altro furono, infatti, sempre abbastanza lunghi, dagli otto mesi a un anno in media, sino ai due anni che intercorsero tra il penultimo e l’ultimo, segno di una stanchezza che avrebbe portato all’interruzione delle pubblicazioni. La sequenza dei numeri pubblicati fu la seguente:
n. 1: dicembre 1963;
n. 2: marzo 1964;
nn. 3-4: dicembre 1964;
n. 5: settembre 1965;
n. 6: settembre 1966;
n. 7: maggio 1967;
n. 8: dicembre 1968;
n. 9: dicembre 1970.
Durante i sette anni in cui “Collage” venne pubblicata, ci fu un avvicendamento tra gli autori coinvolti, pur mantenendosi costante la presenza di Carapezza e Titone, che dal numero 6 (1966) risultò direttore (General Editor) della rivista. Attorno ai due curatori si avvicendarono illustri critici d’arte: all’iniziale nucleo romano costituito da Calvesi, Ponente (presenti fino al numero 5, del 1965) e Rubiu, si unirono Cesare Vivaldi (dal numero 3-4, 1964), Mario Diacono, Otto Hahn, Manfred de la Motte (dal numero 6, 1966), Jasia Reichardt e Laurence Alloway (numeri 6 e 7), fino ad Achille Bonito Oliva (numero 9, 1968). Vi furono anche episodici interventi di Maurizio Fagiolo Dell’Arco, Gillo Dorfles, Filiberto Menna, Giuseppe Gatt. Anche il numero dei corrispondenti esteri si ampliò fino a dieci persone, col coinvolgimento, ad esempio, della gallerista Annina Nosei da Parigi, di Christian Wolff da New York e Edison Denisov da Mosca.
Nino Titone si occupava anche dell’impaginazione, della grafica, sobria e in linea col trend del periodo, e dell’ideazione delle eleganti copertine (formato 33 x 24 cm), caratterizzate fino al numero 5 da uno sfondo rosso scuro con le scritte in nero, mentre dal numero 6 furono contrassegnate da maggiore vivacità e originalità. In quest’ultimo, infatti, vennero inseriti una porzione di un’opera di Kounellis, con la scritta Paint in rosso su uno sfondo bianco, e un particolare della partitura del Requiem di Frederic Rzewski (a cui era dedicata la scheda all’interno). La copertina del numero 7 riportava dettagli di un’opera di Pistoletto e di una partitura di Roland Kayn (anche lui protagonista della scheda). Sin dal primo impatto visivo con la rivista emergeva, quindi, in modo ancor più evidente il binomio arte-musica sotteso alla sua linea editoriale. Gli ultimi due numeri, infine, presentarono una particolarità, come racconta Titone:
Io avevo inventato delle copertine, di cui volevo fare una serie, con delle porte. In una, quella del numero 8, vi era il frammento di un vecchio portone, pieno di escoriazioni e venature, che custodiva il granaio e il forno di un baglio dove io da ragazzo passavo le estati. Allora feci incidere una targa in ottone che avvitai alla porta, tracciai un quadrato con il gesso, dentro cui c’erano una moderna toppa e il grosso buco di un’antica chiave, misi un foglietto di carta fissato con una puntina, e poi feci fotografare il tutto da Gianni Maniscalco Basile, responsabile della redazione fotografica. Sul foglietto la tipografia sovrastampò il titolo «Collage 8». Il numero coincideva con la sesta edizione delle Settimane di Nuova Musica, e per questo feci incidere sulla targhetta d’ottone bombé fotografata sulla porta la scritta «Amici della Musica – VI Settimana Internazionale di Palermo – 27-31 dicembre 1968». Non so cosa darei per ritrovare quella targhetta, che servì per realizzare la copertina della rivista e il manifesto del festival[39].
La serie delle copertine dedicate alle porte continuò col numero 9, che sarebbe stato l’ultimo; vi era riprodotto un particolare di una fotografia di Giuseppe Cappellani che ritraeva la vetrata di una villa ottocentesca, Villa Belforte, nella zona di San Lorenzo, dove allora Titone abitava e che fungeva da redazione.
La vocazione nazionale e internazionale della rivista era testimoniata dal fatto che non si occupò mai, nemmeno nel breve notiziario-calendario delle ultime pagine, delle mostre e delle gallerie private palermitane, tranne il caso delle due rassegne “Revort I” (1965) e “Revort II” (1968), promosse da critici che facevano o che avrebbero poi fatto parte della redazione. In occasione di queste due manifestazioni il coinvolgimento di “Collage” fu totale, tanto da riservare al catalogo delle mostre la parte più ampia dei due numeri editi per l’occasione (il numero 5 per “Revort I” e l’8 per “Revort II”), con saggi, schede degli artisti partecipanti e un ampio repertorio illustrativo.
Lo spazio delle recensioni era, invece, occupato da esposizioni organizzate, ad esempio, in gallerie della capitale come La Salita e La Tartaruga di Roma – vicine ai critici romani della redazione e a Nino Titone, che espose egli stesso a La Salita nel 1964 –, e in quelle più importanti di Parigi, Barcellona, Londra e soprattutto New York.
Il rapporto col milieu americano si stabilì preco-cemente e fu sempre intenso, come testimonia Augusta Monferini, che partecipava spesso alle riunioni di redazione e collaborò con “Collage” scrivendo la scheda su Ettore Colla (n. 3-4):
La rivista era conosciuta negli Stati Uniti, apprezzata dagli artisti e da Ileana Sonnabend, che era agli inizi, già clamorosi, della sua carriera di mercante-collezionista. Il pittore Mario Schifano, nostro grande amico, era partito il 4 dicembre del 1963 per New York e là aveva diffuso il primo numero di Collage. Da New York ci mandava pacchi di cataloghi e materiali per la rivista e inviò anche alcune riprese di Andy Warhol fotografato alla Warhol, cioè dei fotogrammi in sequenza del pittore nel suo studio, che poi apparvero nel numero 3-4 di Collage (dicembre 1964). Schifano preferì non firmare questo scherzoso lavoro, ma era stato lui a farlo[40].
La conferma di questo racconto deriva dal fatto che spesso “Collage” riportò saggi estratti da cataloghi di grosse mostre americane, pubblicati per la prima volta in Italia nella stesura originale e con un’inedita traduzione italiana. Nel primo numero della rivista (1963), ad esempio, uscì l’articolo di Laurence Alloway Six painters and the object (Sei pittori e l’oggetto), scritto in occasione della celebre esposizione omonima allestita quell’anno al Guggenheim Museum di New York. Il critico inglese, già teorizzatore della Pop Art britannica, sistematizzava in una visione unitaria, dopo il suo trasferimento negli USA, il lavoro degli artisti americani Jim Dine, Jasper Johns, Roy Lichtenstein, Claes Oldenburg, Robert Rauschenberg, James Rosenquist, Andy Warhol e Tom Wesselmann[41]. Nel numero 2 (1964), invece, fu pubblicato il saggio di John Coplans American paintings and Pop Art, introduzione al catalogo della mostra “Pop Art Usa”, curata dallo stesso Coplans nel settembre 1964 presso l’Oakland Art Museum. Questi scritti autorevoli venivano spesso commentati, approfonditi, criticati o condivisi dai redattori della rivista.
Dagli articoli citati si può evincere quanta attenzione ci fosse per il fenomeno della Pop Art. Ciò era frutto dell’impostazione programmatica di “Collage” e dei suoi autori, chiarita sin dal primo numero, dove si esprimeva la volontà di superamento del prepotente soggettivismo dell’Informale, senza sacrificare «l’atteggiamento d’attiva e libera (aschematica, senza formalità soggettive preconcette) ricettività»[42] della corrente artistica postbellica. Ciò fece sì che l’interesse s’indirizzasse verso un’arte connotata da un legame forte con la realtà e con gli oggetti che la popolavano: «Così in pittura, al di là di ogni confessione gestuale, al di là di ogni torbida “scrittura del sentimento”, si vuole ritrovare l’incontro con le cose, e – attraverso esse o direttamente – con gli uomini, si vuole proporre una ricostruzione della realtà come scoperta del suo vero apparire. E ci si vuole orientare tra i tentativi, già fatti o che si fanno, in questo senso. Si cerca, in fondo, di fondare un nuovo “umanesimo”»[43].
Ci si concentrò, pertanto, su tendenze del momento come il New Dada, la Pop Art, il Nouveau Réalisme, accomunate da un approccio al reale che si manifestava in vari modi: nel primo caso, basandosi sulla ricognizione, fondendo cioè, come nell’opera di Rauschenberg, oggetto e memoria personale; nel caso della Pop, sulla totale estroversione del reportage, dove «a un denominatore privato si sostituisce un denominatore sociale»[44]nel Nouveau Réalisme, infine, su una radicale, cruda, testuale assunzione dell’oggetto stesso e delle sue implicazioni misteriose, con esiti d’ascendenza surrealista, come in alcune opere di Christo, Arman o Spoerri.
Degli artisti pop si condivideva il recupero di oggetti e immagini comuni con un atteggiamento fenomenologico di presa d’atto, presentandoli così com’erano o con interventi soggettivi limitati, prediligendo un codice iconografico anonimo, legato alla pubblicità e ai mass media.
Questo interesse fu alimentato e facilitato dai già citati contatti di molti fautori della rivista con gli Stati Uniti e mediato anche dalla frequentazione dell’ambiente romano, specie degli artisti e delle gallerie gravitanti attorno a Piazza del Popolo, che avevano assimilato con una certa precocità ascendenze di matrice pop nei primissimi anni Sessanta.
“Collage” divulgò saggi, recensioni e approfondimenti su artisti stranieri, soprattutto americani e inglesi, come Joe Tilson, Roy Lichtenstein, Andy Warhol, Claes Olbenburg, Brett Whiteley (australiano ma residente a Londra), ma anche francesi (Martial Raysse e Daniel Spoerri, esponenti del Nouveau Realisme) e italiani come Pino Pascali, il gruppo della cosiddetta “Scuola di Pistoia” (etichetta coniata da Cesare Vivaldi proprio sulle pagine di “Collage” e comprendente gli artisti Barni, Buscioni, Ruffi e l’architetto Natalini), Mimmo Rotella, Mario Schifano, al quale fu dedicato un articolo sulle opere[45] realizzate a New York a quattro mani col poeta americano Frank O‘Hara (esposte alla Galleria Ferro di Cavallo di Roma nel 1964)[46]. In alcuni casi, come per Tilson, Raysse, Oldenburg, furono pubblicate loro testimonianze dirette.
Ciò non significò, però, adesione acritica al fenomeno pop, esaltazione o lodi incondizionate alle sue manifestazioni, ma problematizzazione, disamina accurata attraverso riflessioni incentrate soprattutto sul rapporto e il confronto con l’Informale. Si evidenziò, ad esempio, il legame delle opere di Rauschenberg con quelle di Burri[47] e con la pratica dell’happening di Allan Kaprow, Robert Watts, John Cage e Merce Cunningham, per la cui compagnia (la “Cunningham Dance Company”) l’artista aveva disegnato i costumi di Suite for five (1953-58)[48]. Il «nuovo senso dello spazio»[49] riscontrato in questi autori, come pure in Warhol o Segal, veniva messo in relazione anche con le comunicazioni radio-televisive e con le Sintesi radiofoniche del futurista Filippo Tommaso Marinetti, in un’interessante “Lettura” di Calvesi.
Estremamente ricorrente era l’analisi del rapporto tra la Pop Art come fenomeno prettamente americano e le sue radici inglesi, le diverse rielaborazioni del linguaggio pop fuori dagli Stati Uniti e, più in generale, l’incontro-scontro tra la visione europea e quella d’oltreoceano[50]. Il confronto, dunque, era tra la “cultura del vino” e quella “della Coca Cola”, parafrasando il titolo di un articolo di Calvesi apparso sul numero 2 di “Collage” (marzo 1964), ispirato, a sua volta, a un pezzo apparso poco prima nel “Sunday Times magazine”.
Di Pop Art e dei suoi più recenti esiti si parlò moltissimo nel numero 5 (settembre 1965), il numero speciale contenente il catalogo della mostra “Revort I. Documenti di arte oggettiva”, allestita durante la “Quinta Settimana di Nuova Musica” presso la Galleria d’Arte Moderna “E. Restivo”.
Essa era stata già annunciata tra le “Notizie”[51] del numero precedente col titolo “Report-Revolt I”, senza, dunque, l’efficace crasi di quello definitivo, con artisti in parte diversi (i due gruppi italiani “Zoom”, con i pittori Lombardo, Titone, Tacchi, Pascali e Mambor, che poi non partecipò, e “P3”, i toscani Barni, Natalini e Ruffi, dei quali fu presente solo Barni).
Ovviamente, non si deve considerare “Collage” come l’esclusiva bibbia del Pop, anche se l’argomento fu tra i più analizzati e i suoi artisti furono protagonisti di molte pagine. A parte la sezione musicale, che spaziava da Cage a compositori siciliani d’avanguardia come Sciarrino e Belfiore e regalava pagine di rara profondità come la Verifica di Theodor Adorno Su alcune relazioni tra musica e pittura[52], anche quella dedicata alle arti visive trattava artisti operanti in ambiti diversi, come Dorazio, Capogrossi[53] e Vedova. Quest’ultimo, ad esempio, firmava nel numero 6 un’interessante testimonianza sulla sua collaborazione col compositore Luigi Nono per le scenografie di Intolleranza 60, azione scenica in due parti eseguita al Teatro La Fenice di Venezia nell’aprile 1961, nell’ambito del XXIV Festival Internazionale di Musica Contemporanea[54].
Altro tema ricorrente era quello concernente l’improvvisazione musicale, l’happening e il lavoro del gruppo Fluxus, con riferimenti all’opera del coreano Nam Jun Paik – del quale, con lungimiranza, fu individuato il ruolo d’iniziatore di una corrente legata ai nuovi media, quando si segnalò la notizia che per lui erano stati costruiti un robot e un televisore a colori che producevano “secondo gli ordini trasmessi, complesse strutture sonore e visive. La critica newyorkese si è chiesta se questo non fosse l’inizio di un’arte cibernetica”[55]– e di altri artisti, da George Brecht a Yoko Ono, come nella “Lettura” Fluxus 1 di Mario Diacono, nel numero 7 (1967)[56].
Quest’ultimo riportava anche i manifesti del GRAV (Groupe de Recherche d’Art Visuel), raccolti da Otto Hahn e pubblicati in lingua originale con l’accompagnamento di disegni. Il GRAV, gruppo francese attivo tra il 1960 e il 1968, promuoveva un’arte basata sull’interazione percettiva tra occhio, immagine, movimento, ma soprattutto, come emergeva maggiormente dai manifesti pubblicati su “Collage”, era animato da una forte tendenza contestatrice nei confronti del rapporto arte-società[57].
“Collage” cercava, dunque, di offrire nuovi spunti inerenti al dibattito sulle arti visive contemporanee, anche attraverso accostamenti visivi o contenutistici tra più artisti. Ne sono un esempio le rubriche “Collazione” e “Confronto”: la prima proponeva carrellate di immagini di opere di vari autori, l’altra analisi parallele delle poetiche o dei lavori di due o più artisti, sottolineandone affinità e differenze.
Nell’arco degli otto numeri furono pubblicate riproduzioni delle pitture di Kitaj, Rauschenberg, Fahlström, Johns, in “Collazione: Inghilterra – USA” (n. 2) e di opere di Warhol e Lichtenstein, insieme alle fotografie di azioni coreografiche di Merce Cunningham, in “Collazione: Spazio e movimento” (n. 3-4). In “Confronti”, Calvesi scrisse su Francis Bacon e Asger Jorn (n. 1)[58] e Diacono sulla già citata mostra di O’ Hara e Schifano (n. 3-4); nel n. 7 vennero paragonati, attraverso scritti degli stessi artisti o di critici a loro vicini come Carla Lonzi, i lavori di Pistoletto, Paolini, Piacentino, Gilardi e Mondino.[59]
Le rubriche “Asterisco*” e “Asterisco**” erano zone franche della rivista, dove potevano trovarsi interviste, testi autografi di artisti, recensioni di mostre e di libri.
Il ricordo dell’esperienza orale di “Collage” non si era, però, del tutto sopito; proprio in occasione della monografia di Cesare Brandi dedicata ad Alberto Burri (Editalia, 1964) venne preparato un numero speciale di “Collage” parlato, ‘comunicato’ al pubblico durante un incontro a Villa Whitaker, nei locali del Circolo Artistico, il 20 aprile 1964, alle ore 18. Era trascorso un anno e mezzo dall’ultimo “Collage” parlato, ma si voleva «superare all’incontrario il tempo riprendendo, con le stesse intenzioni, l’operare di allora, e reinnestare «Collage» rivista scritta internazionale in “Collage” rivista parlata palermitana, dopo che la prima è nata proprio dalla seconda. Lo scopo è solo apparentemente duplice, ché le nostre intenzioni di allora coincidono in gran parte con i probabili effetti di questo innesto»[60].
In seguito nacque l’idea di due numeri speciali orali che avrebbero dovuto tenersi a Reggio Calabria nell’ottobre 1964, in occasione della “Prima Settimana Internazionale di Teatro Musicale”, parallelamente alla I Rassegna Internazionale di arti visive “Oggetto e reportage”, una mostra di pittura incentrata sulla produzione mondiale di ascendenza pop, a cura della redazione della rivista, ma il progetto non fu mai realizzato.
Tra gli ambiti toccati dalla rivista, molto presente fu il connubio teatro - arti visive, testimoniato dai numerosi articoli dedicati al coreografo statunitense Merce Cunningham e all’evoluzione della danza contemporanea:
L’arte della danza soffre di una particolare condizione di isolamento. [...] Che la discussione si istituisca e si allarghi anche alle riviste che comunemente dedicano il loro spazio ai soli problemi delle arti plastiche o della musica è quanto mai auspicabile. Non è comunque con questa ambizione che «Collage» pubblica un articolo dedicato alla danza americana, ma con l’intento di informare sullo stadio attuale di problemi della coreografia che interferiscono così strettamente con le concezioni dello spazio figurativo e sonoro, ed anche per meglio inquadrare avvenimenti in concreta e precisa relazione, come le creazioni della American Dance Company (che la critica italiana ha avuto modo di conoscere a Venezia proprio in sede di Biennale), nate da una collaborazione tra Merce Cunningham, Robert Rauschenberg e John Cage[61].
Anche in uno degli ultimi numeri (n. 8) fu riproposta questa tematica, con la pubblicazione di un servizio fotografico di Gianni Maniscalco Basile sullo spettacolo del Living Theatre di New York Mysteries and small pieces (1964), messo in scena al Teatrofficina di Palermo nell’aprile 1968[62].
Dalla cerchia newyorkese dello spettacolo d’avanguardia e dell’happening (Cage, Rauschenberg, Brecht, La Monte Young, Cunningham), proveniva l’artista Robert Morris – impegnato, insieme alla moglie Yvonne Rainer, anche nell’ambito della danza –, protagonista di un lungo articolo di Mario Diacono, La struttura negativa di Robert Morris, uscito nello stesso numero 8. Partendo dalla base dell’evento/happening, le sue opere si erano sviluppate, negli anni 1961-65, secondo due direzioni parallele: quella delle opere minimaliste, gli Untitled del 1964, e quella strutturale dei feltri dell’AntiForm (tendenza di cui nel 1968 aveva pubblicato il manifesto), accomunate dall’attenzione per la dimensione ambientale dell’environment[63].
Pur non trascurando il filone oggettuale, come si nota, ad esempio, dalle riproduzioni fotografiche delle opere dell’americano Kienholz o del giapponese Kitaj, nel numero 8 fu particolarmente evidente il mutamento di rotta che maturava in quel periodo: alla fine degli anni Sessanta, infatti, accanto alla corrente italiana dell’Arte Povera, si andava affermando la tendenza concettuale della smaterializzazione dell’opera e della riflessione sul rapporto arte-linguaggio, fissata dalla proposizione Art as Idea as Idea di Joseph Kosuth proprio nel 1968.
Di questa nuova direzione post-Minimal e post-Pop, evocata nel numero 8 da un testo dell’artista Fluxus Ben Vautier, Art = Pas Art[64], si sarebbe occupato in modo più evidente il numero 9 di “Collage” (dicembre 1970), con un articolo di Diacono significativamente intitolato Materia–Destruttura, in cui venivano analizzate opere di Richard Serra, Bruce Nauman e dello stesso Kosuth. Accanto a quello di Diacono, il testo Incidents of mirror[65], firmato da Robert Smithson, esponente della Land Art e autore della celebre installazione Spiral Jetty, nel Grande Lago Salato dello Utah, raccontava le fasi dei suoi grandiosi e laboriosi interventi sul territorio americano.
Nell’ottavo numero di “Collage” (dicembre 1968), intanto, si pubblicizzava la nascita di una nuova rivista: “Presenzasud”[66], col sottotitolo “Periodico di cultura contemporanea edito dal Centro di Ricerche Estetiche «Nuova Presenza», direttore Francesco Carbone”. Sorgeva, dunque, a Palermo un’altra esperienza esoeditoriale legata alle arti, con ampie sezioni dedicate anche alla letteratura e al teatro. Gli articoli prestavano maggiore attenzione agli artisti locali rispetto a “Collage”, ma non trascuravano le tendenze più recenti – dall’Arte Povera all’happening, dalla poesia visiva e concreta all’Arte Programmata. Anche gli autori erano in gran parte critici e scrittori non siciliani, tranne Francesco Carbone, Michele Perriera, Aurelio Pes, Lucio Zinna, gli stessi Paolo Emilio Carapezza e Gaetano Testa. Su “Presenzasud”, infatti, apparvero saggi di Argan, Apollonio, Celant, Vinca Masini, Dorfles, Menna, Fagiolo Dell’Arco, Bonito Oliva, alcuni dei quali avevano partecipato pure, con contributi isolati o come redattori, all’esperienza di “Collage”.
Le due riviste, quindi, si ponevano non come rivali ma come ‘complici’; sia l’una sia l’altra, infatti (pur se per poco nel caso di “Presenzasud”, di cui uscì solo il primo numero, nell’ottobre 1968), costituirono un momento importante di svecchiamento e apertura nel contesto delle esperienze palermitane degli anni Sessanta, da ricordare nella storia della cultura della città.
Tornando a “Collage”, la Verifica del numero 9, Le circostanze magiche, conteneva osservazioni che riecheggiavano i toni del momento, intrisi di umori post-sessantottini:
Se l’effimero, per l’accelerazione della produzione e del consumo, è ormai una categoria dell’esistenza e se l’effimero è la provvisoria sistemazione dei materiali, effimera è anche l’emergenza di un senso di morte che prevale sull’uomo, per cui esiste anche un carattere di resistenza permanente. Perché quello che permane è il passaggio e la trasfusione che l’artista fa della propria energia fantastica nella comunità che lo circonda. [...] Ora il cerchio non si chiude, il territorio magico è il varco unico entro cui la parzialità e le circostanze della vita confluiscono nella totalità e nella libertà liberata dell’artista[67].
Il cerchio stava, invece, per chiudersi, e anche piuttosto bruscamente, per “Collage”, il cui nono numero fu edito, come era stato già per la versione orale, da Flaccovio, subentrato a Denaro, non più in grado di sostenerne le spese.
Non sapevamo che il nono numero della rivista, che si apriva allegramente con la vetrata verde e rossa e si chiudeva ottimisticamente con l’annuncio di una “Settima Settimana di Nuova Musica” che non ci sarebbe mai stata, sarebbe stato l’ultimo. […] Al di là dei nostri entusiasmi ancora vivi, nonostante fossimo stanchi e pieni di debiti, questa volta a stancarsi furono gli editori. Denaro, che era subentrato a Flaccovio quando la rivista aveva cambiato pelle, per fare onore al suo nome aveva perso nell’impresa un bel po’ di denari, mentre Flaccovio, che adesso riprendeva l’antico ruolo, prudentemente voleva evitare di perderci i suoi. Sicché la stanchezza di tutti segnò anche la fine di «Collage»[68].
Il carattere elitario, scevro da provincialismi e ammiccamenti verso il grande pubblico, la minore attenzione per le situazioni locali –ancor più che nella versione parlata, dove si faceva un monitoraggio di alcuni eventi cittadini – non destarono l’interesse di molti lettori. Potendo contare solo sui proventi di poche inserzioni pubblicitarie e di alcuni abbonamenti, la rivista era destinata, suo malgrado, a non avere vita lunga.
Terminava, così, un’esperienza ricca di stimoli per il contesto culturale cittadino. Grazie al suo ampio respiro, alla lucida recettività dei fenomeni artistici mondiali, quasi in tempo reale, “Collage” mise, comunque, Palermo al passo con i centri dove venivano edite le principali riviste italiane d’arte contemporanea. La pubblicazione, infatti, aveva rispecchiato l’afflato cosmopolita che attraversò la città in quegli anni di «problematica sperimentazione»[69], come li definisce Piero Violante, il quale ne sottolinea il ruolo nella diffusione della seconda avanguardia musicale e della sua crisi.
[1] Il presente articolo è tratto dal cap. I del saggio dell’autrice Palermo ’60. Arti visive: fatti, luoghi, protagonisti, Flaccovio Editore, Palermo 2006, a cui si rimanda per una disamina più approfondita dell’argomento, una ricostruzione del contesto storico-culturale della Palermo degli anni Sessanta e per più ampli riferimenti bibliografici.
[2] Sulle Settimane di Nuova Musica cfr. P. E. Carapezza, Le sei Settimane Internazionali di Nuova Musica di Palermo (1960-1968), in AA.VV., Di Franco Evangelisti e di alcuni nodi storici del tempo, Nuova Consonanza, Roma 1980 e F. Tessitore, Visione che si ebbe nel cielo di Palermo. Le Settimane Internazionali Nuova Musica 1960 -1968, Cidim-Rai Eri, Roma 2003.
[3] P. Peterlini, Esoeditoria negli anni Sessanta e Settanta in Italia, in G. Maffei, P. Peterlini, Riviste d’arte d’avanguardia. Gli anni Sessanta/Settanta in Italia, Edizioni Sylvestre Bonnard, Milano 2005, pp. 7-8.
[4] P. E. Carapezza, Le sei Settimane..., p. 62.
[5] A. Titone, intervista rilasciata all’A. nel giugno 2003. Cfr. anche M. Perriera, Tre diavoletti in sacrestia, inchiesta Palermo intellettuale 1962, “L’Ora”, 26-27 novembre 1962.
[6] “Chiarezza” costituì un fondamentale strumento d’analisi della situazione politica, sociale e culturale siciliana negli anni della ricostruzione, dopo il secondo conflitto mondiale, ed ebbe una funzione di rinnovamento «pubblicando testi di autori europei di grande spicco e di alcuni americani (Paul Eluard, Louis Aragon, Andrè Malraux, Sherwood Anderson, John Dos Passos, per fare alcune citazioni)». Pur avendo una connotazione eminentemente letteraria e sociale, con interventi di autori come Vittorini, Quasimodo, Aleramo, “Chiarezza” dava spazio anche alle arti visive, ad esempio, con gli scritti dello storico dell’arte siciliano Giuseppe Bellafiore e con un ricco corredo illustrativo che alternava disegni di Grosz, Picasso, Guttuso e di artisti locali, accanto alle fotografie di Bronzetti.
[7] “Sicilia” si presentava con una veste grafica elegante, curata da Bruno Caruso; vi collaborarono artisti di fama mondiale come Picasso, Chagall e Berman, accanto a Clerici, Vespignani, Colombotto Rosso, e prestigiosi fotografi come Brassaï e List. Ebbe successo e risonanza internazionali, utilizzò tecniche di stampa all’avanguardia, fungendo da motore per una modernizzazione della tipografia siciliana e da incoraggiamento per l’editoria locale. Dopo la sua chiusura, la rivista ha ripreso le pubblicazioni nel 2000 grazie all’impegno del figlio di Fausto Flaccovio, Sergio, affiancando alla nuova numerazione anche la precedente (per cui il numero 1 della nuova serie corrisponde al numero 90 della prima), segno di un’ideale continuità col passato.
[8] G. Fontana, Le Audioriviste: casse di risonanza per una nuova oralità, in In/Forma di rivista, catalogo della mostra (Roma, Acquario, 21 ottobre - 20 novembre 1991), a cura di M.I. Gaeta, Edizioni Carte Segrete, Roma 1991, p. 199.
[9] A. Titone in E. Quaratino, Un musicologo, uno scrittore, un pittore e Flaccovio hanno creato “Collage”, una singolare nuova rivista, “Il Tempo”, 18 febbraio 1962.
[10] Ibid.
[11] Ibid.
[12] P.E. Carapezza, Prolessi (phrase à trois), “Collage” parlato n. 1, 4 gennaio 1962. Cit. in F. Tessitore, Visione che si ebbe…, pp. 223-224.
[13] P.E. Carapezza, Prolessi….
[14] A. Titone, intervista, 2003. Cfr. anche R. De Monticelli, Una polemica rivista parlata smuove l’aria baronale, in “Il Giorno”, 26 febbraio 1962.
[15] G. Marino, «Collage » rivista parlata per un dialogo di alto impegno, “Il Tempo”, 2 marzo 1962.
[16] Ibid.
[17] G. Testa, intervista, giugno 2003.
[18] Cfr. R. De Monticelli, Una polemica…. Le frasi sono state riferite anche da Titone nell’intervista rilasciata all’A.
[19] G. Testa, intervista.
[20] S. F. Flaccovio, in E. Quaratino, Continua con successo a Palermo l’originale rivista mensile “Collage”, in “Il Tempo”, 8 marzo 1962.
[21] Sommario di “Collage”, n. 3, 20 aprile 1962. Cfr. anche F. Tessitore, Visione che si ebbe …, p. 307.
[22] Sulla Terza Settimana cfr. F. Tessitore, , Visione che si ebbe ….
[23] A. Titone, intervista, 2003.
[24] Il titolo della rivista dal n. 6 (1966) fu ridotto al solo “Collage”.
[25] Fausto Flaccovio, in effetti, aveva già fatto notare le difficoltà economiche legate a “Collage” parlato, visto che la rivista era del tutto gratuita e non vi era un biglietto d’ingresso previsto per gli ascoltatori-lettori. Anche le richieste dall’estero di testi e registrazioni di numeri speciali non si erano potute esaudire per lo stesso motivo. Il passaggio alla formula stampata avrebbe provocato un inevitabile innalzamento dei costi e lui editava già la rivista “Sicilia” che, per quanto realizzata con la collaborazione dell’Assessorato al Turismo, costituiva un onere difficile da sommare a un altro dello stesso tipo. Flaccovio, in realtà, tornò ad essere coinvolto in “Collage” editandone l’ultimo numero nel dicembre 1970. «Dal primo numero scritto della rivista, la direzione di Collage tiene a ricordare e ringraziare Salvatore Fausto Flaccovio, editore dei primi numeri parlati: alla sua fiducia nella cultura e al suo coraggio si deve la nascita di Collage. Così oggi si vuole associare il suo nome a quello di Giuseppe Denaro che, con pari coraggio e consapevolezza, a queste più impegnative e difficili prove scritte, dà generosamente possibilità di vita». [non firmato né titolato], “Collage. Dialoghi di cultura”, n. s., II, 1 (7), dicembre 1963, p. 90.
[26] In effetti uscirà un solo numero speciale parlato, il 20 aprile 1964.
[27] P. E. Carapezza, Verifica, in “Collage. Dialoghi di cultura”, n. s. anno II, n. 1 (7), 1963, p. 7.
[28] “L’ambizione dei sommari in francese, inglese, tedesco e spagnolo era stata abbandonata sul nascere. Ci eravamo limitati a qualche traduzione integrale in inglese dei testi italiani e in italiano di quelli tedeschi. Ma negli ultimi volumi decidemmo di presentare i saggi solo nella lingua originale. Addirittura, una volta, pubblicammo in russo con traduzione italiana a fronte un importante saggio sulle Variazioni op. 27 di Webern, scritto da Denisov nel ’68 e giunto clandestinamente dall’URSS, e visto che nessuna tipografia palermitana disponeva dei caratteri cirillici, le colonne del testo russo furono preparate dalla tipografia della Città del Vaticano. Mettervi accanto la versione in italiano facendo coincidere i capoversi fu una vera impresa, perché aveva molte note, e c’erano anche numerosi grafici ed esempi musicali infratesto”. A. Titone, intervista, 2003.
[29] P. E. Carapezza, Verifica…, 1963, p. 7.
[30] Ibid.
[31] Ibid.
[32] Nell’ambito della “Terza Settimana Internazionale di Nuova Musica” fu organizzata dal GUNM anche una mostra di grafia musicale contemporanea, Musica e segno, a cura di Sylvano Bussotti e Giuseppe Chiari.
[33] A. Titone, intervista, 2003.
[34] Ibid.
[35] D. Guaccero, Una conclusione provvisoria, “Collage. Dialoghi di cultura”, n. 1 (7), 1963, p. 15.
[36] A. Titone, intervista, 2003.
[37] Ogni scheda era composta da: notizie biografiche dell’autore, elenco delle mostre personali e collettive, nel caso di un artista visivo, o delle composizioni e della discografia nel caso di un compositore, eventuali conferenze, ricco apparato bibliografico, scritti dell’artista, antologia critica e illustrazioni.
[38] A. Titone, intervista, 2003.
[39] A. Titone, intervista, 2003.
[40] A. Monferini, L’Arte della critica. La Pop Art e la rivista Collage, “Art Dossier”, n. 36, giugno 1989, pp. 7-9.
[41] Cfr. L. Alloway, Six painters and the object, “Collage. Dialoghi di cultura”, n. 1 (7), dicembre 1963, pp. 54-62. Sulla mostra, cfr. N. Whiteley, Pop since 1949: Laurence Alloway, “ArtForum International”, oct. 2004, pp. 50-55.
[42] P. E. Carapezza, Verifica…,1963, , p. 7.
[43] Ibid.
[44] M. Calvesi, Ricognizione e reportage, in“Collage. Dialoghi di cultura”, n. 1 (7), p. 67.
[45] Su queste opere cfr. F. Colombo, Il mistero dei quadri scomparsi, in “L’Unità”, 15 gennaio 2004.
[46] Sugli autori citati cfr. i seguenti articoli di “Collage”: M. Diacono, Antimetaphisica. Tilson, Brecht, Kounellis, in “Collage”, n. 6, (13), settembre 1966, pp. 52-56 e J. Tilson, The porcelain factory-questionnaire III, in “Collage”, n. 8, dicembre 1968, pp. 40-50; M. Fagiolo Dell’Arco, La ragion pura-pratica di Lichtenstein, in “Collage”, n. 6, (13), settembre 1966, pp. 62-68; G. Robert Swenson, The darker Ariel: Random notes on Andy Warhol, in “Collage. Dialoghi di cultura”, nn. 3-4 (11), dicembre 1964, pp. 102-106; C. Olbenburg, Store Days, in “Collage”, n. 8, dicembre 1968, pp. 61-64; S. Pinto, Intervista a Brett Whiteley, in “Collage. Dialoghi di cultura”, nn. 3-4 (11), dicembre 1964, pp. 86-91 e, nello stesso numero della rivista, M. Calvesi, A proposito di Whiteley e della situazione inglese, pp. 91-92; M. Raysse, J’ai mille choses à classer…, e D. Spoerri, Una topografia aneddotica del caso, in “Collage”, n. 6 (13), settembre 1966, p. 69 e pp. 90-93; V. Rubiu, I falsi giocattoli di Pino Pascali, in “Collage”, n. 6, settembre 1966, pp. 84-87; C. Vivaldi, La scuola di Pistoia, in “Collage”, n. 6, settembre 1966, pp. 73-76; V. Rubiu, Mimmo Rotella, scheda dell’artista, in “Collage. Dialoghi di cultura”, n. 1 (7), n. s., dicembre 1963, pp. 81-87; M. Diacono, «Parole e disegni» di Frank O’Hara e Mario Schifano, in “Collage. Dialoghi di cultura”, nn. 3-4, dicembre 1964, p. 98.
[47] Cfr. V. Rubiu, La materia dell’Informale è esplosa nell’oggetto, in “Collage. Dialoghi di cultura”, nn. 3-4, dicembre 1964, pp. 93-97.
[48] Cfr. M. Calvesi, Verifica. Un pensiero concreto, in “Collage. Dialoghi di cultura”, nn. 3-4, dicembre 1964, pp. 65-70.
[49] M. Calvesi, Cinque sintesi radiofoniche di F. T. Marinetti e il manifesto del teatro radiofonico, in “Collage. Dialoghi di cultura”, n. 5, settembre 1965, pp. 19-23.
[50] Cfr. M. Calvesi, Cultura del vino e cultura del Coca-cola, in “Collage. Dialoghi di cultura”, n. s., n. 2 (8), marzo 1964, pp. 29-31.
[51] Cfr. Notizie, in “Collage. Dialoghi di cultura”, nn. 3-4, dicembre 1964, p. 118.
[52] T. W. Adorno, Su alcune considerazioni tra musica e pittura, in “Collage”, n. 7 (14), maggio 1967, pp. 3-7.
[53] Cfr. C. Vivaldi, Piero Dorazio alla Malborough, Roma, in “Collage. Dialoghi di cultura”, nn. 3-4, dicembre 1964, pp. 115-116 e, nello stesso numero, V. Rubiu, Capogrossi a La Medusa, Roma, p. 116.
[54] Cfr. E. Vedova, Interventi, in “Collage”, n. 6 (13), settembre 1966, pp. 93-97. Luigi Nono aveva già dedicato all’amico pittore Omaggio a Emilio Vedova (1960), il suo primo studio-realizzazione di tipo elettronico.
[55] Cfr. lettere e notizie, in “Collage, Dialoghi di cultura”, n. 5, settembre 1965, p. 98.
[56] Cfr. M. Diacono, Fluxus 1, in “Collage” n. 7, maggio 1967, pp. 31-34.
[57] Cfr. GRAV, Les manifestes (1960-1966), in “Collage” n. 7, maggio 1967, pp. 34-40.
[58] Idem, F. Bacon e J. Jorn, in “Collage. Dialoghi di cultura”, n. 1 (7), pp. 49-53.
[59] M. Pistoletto, C. Lonzi, H. Martin e altri, Cinque pittori torinesi, in “Collage”, n. 7, pp. 43-50.
[60] P. E. Carapezza, Verifica, in “Collage” parlato, n. 9, 20 aprile 1964, in F. Tessitore, Visione che si ebbe…, p. 227.
[61] Note in calce all’articolo di J. Burunetti, Note sulla danza fino a Merce Cunningham, in “Collage. Dialoghi di cultura”, nn. 3-4 (11), dicembre 1964, p. 109.
[62] Cfr. G. Maniscalco Basile, Living Theatre (Palermo 1968), in “Collage” n. 8, dicembre 1968, pp. 43-47.
[63] Cfr. M. Diacono, La struttura negativa di Robert Morris, in “Collage” n. 8, dicembre 1968, pp. 37-39.
[64] Cfr. B. Vautier, Art = Pas Art, in “Collage” n. 8, dicembre 1968, pp. 54-56.
[65] Cfr. M. Diacono, Materia –Destruttura e Robert Smithson, Incidents of mirror, in “Collage” 9, dicembre 1970, pp. 6-21, 22-29.
[66] Sulla rivista “Presenzasud” cfr. M. Giordano, La rivista “Presenzasud”. Un periodico di cultura contemporanea a Palermo (ottobre 1968), in G. Bongiovanni, Scritti in onore di Teresa Pugliatti, Quaderni di Commentari d’Arte, De Luca Editore, Roma 2007, pp. 194-198.
[67] A. Bonito Oliva, Le circostanze magiche, in “Collage” n. 9, dicembre 1970, pp. 3-5.
[68] A. Titone, intervista, 2003.
[69] P. Violante, Il disagio del progresso, Edizioni della Battaglia, Palermo 1995, p. 30, nota 35.