teCLa :: Rivista #2

in questo numero contributi di Simonetta La Barbera, Roberta Santoro, Massimo Privitera, Consuelo Giglio, Giovanna Di Marco, Marina Giordano .

codice DOI:10.4413/RIVISTA - codice ISSN: 2038-6133
numero di ruolo generale di iscrizione al Registro Stampa: 2583/2010 del 27/07/2010

Musica nel “Poliorama pittoresco” di Massimo Privitera

Oggetto di questo articolo è la musica nelle pagine del “Poliorama Pittoresco”, «opera periodica diretta a spandere in tutte le classi della società utili conoscenze di ogni genere e a rendere gradevoli e proficue le letture in famiglia», pubblicata a Napoli dal 1836 al 1860[1].

Nel “Poliorama” non si trovano spartiti (salvo un’eccezione di cui parleremo), come succede invece ne “Il Sibilo” (1843-1845), settimanale napoletano che ogni due numeri inserisce una pagina per canto e pianoforte. Non ci sono neanche recensioni di spettacoli («il nostro Poliorama – si dichiara nella presentazione del primo numero – sfuggirà scrupolosamente ogni polemica, non parlerà di opere teatrali del tempo, non dirà di questo o quell’attore»)[2]. Per questo il “Poliorama” è entrato solo di striscio negli studi musicologici, mentre viene preso in considerazione dagli storici dell’arte per la sua specificità, cioè i tanti «disegni buoni a render chiari gli articoli […], ché molte volte uno sguardo sul disegno produce all’intelletto quella chiarezza per la quale abbisognerebbe un lungo giro di parole»[3].

Tuttavia dallo spoglio della rivista si può constatare che in realtà la musica compare nelle sue pagine: non tantissimo, ma in una maniera interessante. Essendo esclusi il taglio tecnico e quello cronachistico, la musica viene affrontata in una prospettiva generale e sotto forme diverse: come opera d’arte conchiusa; come fatto estetico e risultato di un processo creativo; come apoteosi di virtuosi; come genuina espressione del folklore; come spunto per divagazioni letterarie; come prodotto di artigiani e di industrie; etc. Sicché il lettore moderno, sfogliando il “Poliorama”, può farsi un’idea abbastanza efficace di cosa significasse la musica per gli intellettuali che vi scrivevano, e per i loro lettori – cioè per la borghesia della Napoli romantica[4].

La rivista mira ad un enciclopedismo popolare e «a buon mercato», ma ambizioso[5]. Benché esca in fascicoli settimanali di otto pagine, il “Poliorama” vuol essere «libro e non giornale, poiché atto ad occupar un posto durante lungo tempo nella biblioteca». Si rivolge ad un pubblico vasto: «all’indotto, al giovane, alla donzella», ma anche «allo scienziato, all’uomo di esperienza, alla donna colta» e a quella non colta («quell’anima del mondo, quell’essere indispensabile alla felicità»). Amplissimo poi è il ventaglio di soggetti trattati: «scienze, arti, mestieri, antichità, scoverte […], prosa, poesia […], leggende, racconti, novelle, necrologie, biografie». E la risposta del pubblico è lusinghiera: nel 1840 (a. IV, p. 327) il direttore della rivista, Filippo Cirelli, può orgogliosamente dichiarare che «pubblicansi ogni settimana cinquemila cinquanta copie»[6].

La varietà degli argomenti trattati dal “Poliorama” si coglie dall’Indice degli articoli che la rivista pubblica ogni semestre[7]. In appendice ho riportato quello del primo semestre dell’anno I, 1836-37, dove i soggetti sono: architettura, archeologia, agricoltura, arti industriali e meccaniche, biografia, costumi, curiosità naturali, igiene, istituzioni, lavori donneschi, musica, morale, poesia, pittura, scultura, statistica, storia, storia naturale, viaggi, vedute, varietà letterarie. Come si vede la musica ha una propria rubrica (in verità piuttosto smilza), che però scomparirà nelle annate successive. Tuttavia soggetti musicali si trovano sotto altre voci: ad esempio nella rubrica “Biografia” compare la vita della grande cantante Maria Malibran;[8] nelle “Varietà letterarie” una litografia sul soggiorno parigino del basso napoletano Luigi Lablache[9]; e le “Arti industriali e meccaniche” ospitano un articolo su “L’organo di S. Martino de scalis” e sul nuovo “Piano forte di ferro fuso”. Così, zigzagando fra queste varie rubriche si può costruire un mosaico degli interessi musicali del “Poliorama Pittoresco”.

Cominciamo il nostro percorso dall’unica pagina di musica presente nella rivista, un’arietta inedita di Rossini pubblicata nel fascicolo 13 della prima annata (pp. 100-101)[10]. La scelta di Rossini è tutt’altro che casuale. Il compositore era arrivato a Napoli ventitreenne, nel giugno del 1815, quando il re Nasone (Ferdinando I) si era appena reinsediato dopo la sconfitta di Murat. Per ammorbidire il processo di restaurazione i Borbone potenziano gli spettacoli, così viene messo sotto contratto il giovane autore dell’Italiana in Algeri; il quale, pur operando anche in altre città, proprio a Napoli avrebbe mantenuto il centro della propria attività fino al 1822[11]. Ed è in questa città che Rossini conosce la sua prima moglie, la grande cantante Isabella Colbran, ed ottiene la consacrazione a sommo artista – «filosofo de’ cuori» lo definisce entusiasta il soprintendente ai teatri reali, Giovanni Carafa duca di Noja[12].

Quando il “Poliorama” pubblica l’arietta inedita, nel 1836, la stagione napoletana di Rossini era finita da tempo: per dodici anni aveva soggiornato prevalentemente a Parigi, e a quella data si era da poco ristabilito a Bologna. Inoltre dal 1829, dopo il successo del Guillaume Tell, aveva smesso di scrivere per il teatro, limitandosi a comporre occasionalmente ariette e duetti da camera. Entro questa affettata inattività Rossini si compiace di rimusicare molte volte lo stesso testo, preso dal Siroe di Metastasio: nel corso dei decenni arrivò a scriverne una ventina di versioni differenti, ricopiandole centinaia di volte in vari album privati[13]. La versione pubblicata dal “Poliorama” è una delle prime: «Mi lagnerò tacendo / della mia sorte amara / ma ch’io non t’ami, o cara, / non lo sperar da me. / Crudel, perché finora / farmi penar cosi?». Dunque un ghiotto bocconcino per i lettori della rivista.

Ma il “Poliorama” non si limita a questo. Il 25 giugno del 1839 Rossini torna ancora a Napoli[14]; ma non per lavorare, bensì per riprendersi dal recente lutto per la morte del padre, che si era andato a sommare ad una già forte depressione. Napoli, con le sue amenità e l’affetto degli amici, è terapeutica per l’umore di Rossini (Olympe Pélissier, la sua nuova compagna, che viaggia con lui, scrive ad un amico bolognese: «Rossini è tutto ciò che potremmo desiderare, non dimentica il suo vecchio padre ma si rilassa alla vista dell’allegria che lo circonda»)[15]. Un contributo a questa accoglienza lo dà anche il “Poliorama”, pubblicando nel fascicolo 48 (a. III, 13 luglio 1839, p. 379) un sonetto di Pasquale Francesconi e un’ode di Lorenzo Morgigni (sotto la rubrica Il ritorno di Rossini a Napoli). Nel fascicolo successivo (20 luglio, pp. 385-387) compare poi un lungo quanto inconcludente pezzo di Cesare Malpica: Rossini nella villa Barbaja a Posillipo. E quando Rossini sarà già ripartito per Bologna il “Poliorama” lo omaggia ancora con un Elenco distinto delle opere musicali del celebre Maestro Gioacchino Rossini (a. IV, pp. 158-159), fatto eccezionale per le consuetudini della rivista.

Il compositore comparirà nel “Poliorama” anche in seguito. L’undicesima annata (1846-47, fasc. 2, pp. 16-17) pubblica un reportage non firmato da Parigi, con tanto di litografia, sulla cerimonia svoltasi per la sistemazione all’Opéra della statua di Rossini scolpita da Antoine Étex. E ancora nel 1857 vengono pubblicate due lettere da Reggio Calabria che recensiscono l’esecuzione in quella città dello Stabat mater (a. XVIII, fasc. 32).

         Il “Poliorama” si occupa anche di pochi altri musicisti; maestri del passato vicino e lontano, sulla cui grandezza nessuno può obiettare: Mozart (a. X), Palestrina, Haydn, Sacchini (tutti e tre nell’a. XI), Gluck. Se ne pubblicano profili biografici, prendendo spesso spunto da suggestioni non musicali: come il profilo di Gluck che accompagna la litografia di Una scena dell’infanzia di Gluck di Félix Hullin de Boischevalier (a. XIII, pp. 253-254). Oppure viene pubblicata una lettera di Mozart concernente il processo creativo, dalla concezione alla scrittura (a. II, p. 351).

Ci sono poi riferimenti a musicisti napoletani o che hanno avuto a che fare con Napoli: il lungo scritto di Francesco Costabile su Nicola Zingarelli (a. I, pp. 357-359), con funzione di necrologio; l’ode di Cesare Malpica In morte di Adolfo Nourrit, famoso cantante suicidatosi a Napoli (a. III, p. 351); l’ode di Raffa e le stanze di Malpica in memoria di Wenzel Robert von Gallenberg, musicista austriaco naturalizzato napoletano (a. IV); il trafiletto con la riproduzione del busto del tenore Giovanbattista Rubini (a. XV, p. 280); le lodi del cantante francese Naudin, che è a Napoli per la stagione 1853-1854 (XV, p. 370); etc.

Di particolare interesse risulta un articolo su Vincenzo Bellini (a. IV, pp. 305-306, con ritratto). Ne è autore Domenico Anzelmi, il più assiduo ed intelligente fra i redattori del “Poliorama” che si occupano di musica. Rispondendo all’ardente richiesta di «molti de’ nostri intelligenti associati», Anzelmi tratteggia un ampio profilo critico del compositore morto cinque anni prima. Al pari degli altri articoli, il tono generale è encomiastico, ma si apprezzano alcuni spunti originali. Anzelmi si inserisce nel filone del confronto fra Rossini e Bellini[16], e per distinguerne i caratteri e le poetiche identifica Bellini con l’espressione dell’amore (tema molto sentito dai giovani romantici napoletani)[17]:

 

Ma l’amor meditato potentemente e sentito da lui non fu […] il lieto e fortunato amore, ma l’amore infelice […]; ei lo dipinse or combattuto da calunnia di maligno livore, or travagliato da destino inclemente, or in contrasto con eroico dovere, ora in gara con magnanimi sensi di virtù sovrumana. In lui quindi trovi a vicenda la mestizia dell’elegia, la soave querimonia dell’idillio, la pietosa e in un terribile magniloquenza della tragedia.

Così, pur senza pronunciare il termine, Bellini è collocato decisamente nel campo del romanticismo. Nella seconda parte invece Anzelmi risponde alle accuse rivolte a Bellini.
A noi qui interessa la seguente:

Bellini [secondo i suoi detrattori] non è qualche volta che autor fortunato d’una rapsodia musicale: ei tradusse su le scene in ben connessi centoni le arie dell’armonica sua terra natale – Infelici! I patetici accenti del Pirata, l’insormontabile addio di Giulietta e Romeo, il sublime olocausto di Norma, sono mai canzoni popolari? Ma se voi udiste mai di tali canzoni, se conoscete una terra che ne sia rallegrata, perché non ne traducete ancor voi su le scene?

Ecco toccato uno dei temi prediletti in quegli anni: la cultura del popolo (che significa soprattutto canzoni) e i suoi rapporti con le creazioni artistiche. Arriviamo così al filone musicale più interessante del “Poliorama”, quello con più diramazioni.

Nel fascicolo del primo maggio 1847 (a. XI, pp. 314-315) c’è un interessante articolo su Gli organetti, a firma L.C. L’organetto, inventato nel 1829 in Austria, si diffonde velocemente in Europa perché è semplice da imparare a suonare, è facile da trasportare, e permette di eseguire in contemporanea melodia e accompagnamento. Dopo il 1840 è ormai diffuso un po’ dappertutto, specialmente fra i ceti artigiani e popolari, diventando una specie di pianoforte del popolo. È grazie ad esso che la musica può fluire più velocemente dai teatri alle strade e viceversa. L’articolo del “Poliorama” magnifica proprio questa virtù dell’organetto, strumento «pe’ fanciulli e pel popolo»:

La musica, vedete, dei grandi maestri, che brillò nei teatri della città, ridotta com’è da un organetto e adattata ai bisogni e alla condizione del popolo, è come quella scienza che spogliata della farragine dei suoi teoremi, delle sue dimostrazioni, semplificata per la capacità di tutti, si presenta in un serto di volume economico, si fa popolare, si divulga, e insegna in un modo facile e comodo i risultati di profonde meditazioni, ed arricchisce la mente colle cognizioni della natura […]. E non si odono infatti lungo le vie e nelle taverne e nei campi quelle melodie [d’illustri compositori] canticchiate, e sibilate senza che mai chi le canta o chi le sibila le abbia imparate nei teatri? Esse per mezzo degli organetti s’insinuano nel popolo.

L’organetto, insomma, simboleggia proprio quel progetto di portare tutti a conoscere le cose belle ed importanti che sta alla base stessa del “Poliorama”. E l’organetto si mostra anche strumento per alleviare, col mezzo della musica, la dura condizione femminile: «Anche la donna del popolo ha un cuore per la musica, che le fa dimenticare un istante le angustie e la povertà della sua soffitta, e le indora con un lampo di luce il ruvido stame de’ suoi giorni».

Ma il “Poliorama” offre uno sguardo ancor più ravvicinato sulla ‘musica del popolo’. Torniamo alla prima annata della rivista (1836-1837), dove compare l’articolo Delle arie nazionali dei differenti popoli (fasc. 4, pp. 30-31), del sacerdote Giustino Quadrari18[18]:

Ogni popolo ha certe melodie caratteristiche che son tutte sue com’è sua la lingua che parla, ed avendo esse un legame a certe rimembranze, resistono a’ cambiamenti ed al progredire dell’arte musicale. Tali melodie hanno tra loro un carattere atto a farle ravvisare con facilità […].

Dietro le parole di Quadrari si intravedono le idee sulle arie nazionali di Rousseau, esposte nella voce «chanson» del Dictionnaire de musique (1767). Tuttavia l’articolo ha una propria originalità, soprattutto nella parte finale in cui parla delle arie napoletane:

Come presso molte nazioni le arie nazionali sono la decomposizione, l’accozzamento, o la ripetizione di motivi favoriti al popolo ma composti da maestri, o intesi negli spartiti, così quelle del popolo delle due Sicilie non hanno altra sorgente che l’istinto musicale del popolo stesso. A niuna melodia di gran compositore possono esser rassomigliate se vengono esaminate una per una le nostre belle e spontanee cantilene, tutte effetto, tutte natura. Anzi i più grandi maestri non isdegnarono valersene per ottenere grandissimo favore, e basterà per tutte accennare come nel cantabile dell’ultimo duetto di Semiramide Rossini abbia allogato sulle parole: È dolce al misero – Che oppresso geme – Il duol dividere – Piangere insieme, il motivo della nostra ricciolella. Sin da’ principii dello scorso secolo alla festa di Piedigrotta nasce quasi in ogni anno una nuova canzone tutta invenzione di qualche popolano spontaneo compositore, ed in un istante passa di bocca in bocca per tutta la provincia. È in voga oggi una novissima detta del Fabbricatore piena d’ingenue musicali bellezze che daremo altra volta. Il carattere della musica del regno riunito, ma più de’ Napoletani è quasi sempre melanconico, ed abbonda di cantilene in tuoni minori, reliquie forse delle greche antiche ispirazioni, o de’ mali che sì lungamente pesarono sul regno. La tarantella stessa, ballo pieno di vivacità e di sentimento, è in la terza minore. Per vedere se siamo troppo amici del nostro suolo basta svolgere la raccolta impressa da B. Girard in via Toledo, e vi si troveranno pensieri teneri originali non copiati da’ maestri, ma creati dal popolo d’una terra che inspira la musica e l’amore.

 

Ritroviamo qui alcuni concetti già circolanti: l’idea che i canti popolari potessero essere semplificazioni di composizioni colte (si può vedere cosa ne dice l’abate Scoppa)[19]; la convinzione che il popolo napoletano fosse naturalmente portato alla musica (come aveva scritto l’abate Galiani) [20]; la suggestione che il popolo conservi vestigia viventi del glorioso passato greco-romano (tema ricorrente in Bidera)[21]; e l’immagine oleografica di Napoli come luogo che ispira le arti e l’amore (tratteggiata da Domenico Romanelli)[22]. Spiccano però elementi originali: il riconoscimento dell’imprestito rossiniano dalla Ricciolella[23]; la menzione delle canzoni lanciate alla festa di Piedigrotta; il lodevole sforzo musicologico di cercare un tratto tecnico specifico, cioè il prevalere del tono minore, tanto nelle canzoni quanto nella tarantella; e poi la menzione delle canzoni napoletane pubblicate da Girard per la cura di Guillaume Cottrau. Ma soprattutto troviamo quell’attenzione romantica per la ‘cultura popolare’ di cui abbiamo appena detto[24], che conserverà una posizione di spicco in tutta la vita del “Poliorama”. Infatti, a concludere il secondo semestre dell’annata 1836-1837 (a. I, pp. 405-406), troviamo sotto la rubrica “Costumi” un breve articolo di Cesare Malpica dedicato a I Viggianesi.

Fin dagli inizi del Settecento è documentata nel paese lucano di Viggiano (a sud di Potenza) l’esistenza di gruppi girovaghi di strumentisti e cantanti che nell’Ottocento, grazie al mito della cultura popolare, conquistarono particolare visibilità internazionale, anche oltreoceano. Gli strumenti prevalenti erano il violino e soprattutto l’arpa, raffigurata anche in alcune architravi del paese[25]. Ecco come li tratteggia Malpica:

Vedete que’ giovani robusti vestiti di panno cilestro coll’arpa sul dosso, o fra le mani il violino, che a piccole bande di tre o quattro al più, seguiti da un fanciullo il di cui strumento è un triangolo d’acciaio, giungono nelle città e fan risuonar le strade e le osterie di teneri e lieti concenti? Essi vengono di Viggiano picciola terra della Basilicata. Quell’arpa e quel violino è tutto il loro retaggio: la musica il solo mestiere che conoscano. Non l’appresero in alcun conservatorio; san delle note musicali ne più ne meno di quello che molti accademici san de’ geroglifici Egiziani: pur nondimeno senza studio e senza precetti la mano scorre agilissima su le corde sonore, e ne tragge tale armonia da disgradarne sovente quella di qualche orchestra. Ogni luogo è teatro pel Viggianese; e spesso pagato per allegrare una brigata di beoni l’odi suonar la tarantella con tale un’espressione sentita, che quei come ammaliati lascian le tazze per intrecciar la danza della gioia e dell’amore […]. Entrano nelle botteghe da caffè […] ripetono alla meglio le care note di Bellini o del Pesarese […] e finito che abbiano, mandano attorno il ragazzetto con una guanterina a raccorre la scarsa mercede di pochi soldi. Misurare Europa da un capo all’altro è affar da nulla pel Viggianese […].

La prosa di questo pezzo, alquanto compiaciuta, lascia piuttosto insoddisfatte le nostre curiosità di moderni; ma rappresenta bene il citato orientamento del “Poliorama”, poiché Cesare Malpica (1800-1848) ne è il collaboratore più assiduo[26]. E del resto la musica che facevano i viggianesi nell’Ottocento è interessante anche per noi, perché è una manifestazione di autentica cultura popolare e provinciale, che si intreccia con la cultura dotta e urbana.

Dieci anni dopo l’articolo di Malpica, proprio la stamperia di Cirelli pubblica un volumetto di poesie intitolate I canti del Viggianese. Ne è autore Pietro Paolo Parzanese (1809-1852), un altro protagonista del romanticismo napoletano, ma di più alto valore di Malpica[27].

Or avendo io forte desiderio che la nostra poesia si rinnovelli e, quasi direi, si rinvergini con immagini ed armonie native e popolari non lasciai passar di qua un sol Viggianese senza avergli fatto cantare le sue cento canzoni; sicché da questo tolsi una ballata, da quello una romanza, da uno presi un concetto, da un altro un ritornello; e rimpastato tutto nella mia mente, come Dio volle, venni incarnando questi miei canti di quanto più bello mi venne fatto raccogliere da cotesti vaganti trovatori de tempi nostri.

Ecco, nella prefazione all’opera, l’idea di una Musa popolare alla cui fonte il poeta si abbevera. E su poesia popolare e poesia per il popolo Parzanese scrive cose molto interessanti in un articolo sul “Poliorama”, a commento dei suoi Canti del Viggianese (a. XII, pp. 10-11):

Ma son poi popolari le mie canzoni? […] In prima dovrei dire che le canzoni del popolo son quelle che egli stesso compone nelle officine, ne’ campi, nelle miniere, su per le vie; per lo più un tantino incolte nella frase, ma riboccanti di spirito e di vita […]. Donde si potrebbe conchiudere, che poesie veramente popolari le mie non sono, né fatte assolutamente per tutti coloro che diconsi popolo, e che formano le inferiori classi della cittadinanza. Ma il popolo non è il volgo, né la plebe. In tutte le condizioni e classi della civile società sono ben pochi coloro che intendono e gustano la poesia di pura arte, o d’imitazione; parecchi gli uomini svegliati ma non dotti; di mezzanamente addestrati nelle lettere; di fanciulli, e di giovinette, di artigiani ingegnosi, e che so io, abbonda ogni borgo, ogni città, ogni famiglia; e questa buona gente in petto a cui vive tuttora la fede, l’amore e la pietà, questa buona gente è che io chiamo popolo […]. Ed è per tutti costoro propriamente che io avrei voluto scrivere canzoni e ballate, e per costoro ho cantato più di una volta, ed è per essi che vorrei una poesia popolare.

Sull’efficacia di questa poesia scritta per il popolo nello spirito del popolo tornerò fra poco. Intanto vorrei segnalare che è un coetaneo ed amico di Parzanese a continuare il discorso sui viggianesi nel “Poliorama”: Giuseppe Regaldi (1809-1883)[28]. Nel giugno del 1848 (a. XII, pp. 326-327 e 334) Regaldi pubblica un lungo articolo su di loro (che sarà poi ristampato da Francesco De Bourcard nel famoso Usi e costumi di Napoli e contorni, 1853-58).

Poeta errante, Regaldi si sente vicino a questi poeti popolari che, anch’essi, girano il mondo per guadagnarsi il pane («Io figlio errante della poesia cerco in Viggiano i miei fratelli, i figli dell’armonia»). Anche Regaldi tratteggia i viggianesi con immagini idilliache («gli abitanti [di Viggiano] a guisa degli usignoli vivono di armonie naturali!»). Ma, a differenza di Malpica, fornisce anhe informazioni precise, con tanto di nomi e cognomi.

Racconta Regaldi che dal balcone della sua casa di S. Lucia sente un soave suono di arpa: affacciandosi vede che a suonare è un vecchio, accompagnato da due giovani. Li invita a salire e parlando apprende il nome dell’arpista viggianese: «Son Francesco Pennella: da diciassette anni viaggio con quest’arpa su la quale il mio avo sonò i canti di Cimarosa e di Jommelli; e mio padre m’apprese quelli di Rossini e di Mercadante». Non sono più le figure indistinte di Malpica; sono persone in carne ed ossa, con la loro storia e la loro estetica. Spuntano i nomi anche di due altri arpisti, Vincenzo Miglionico, che ha viaggiato per tutto il mondo dal 1806 al 1832, e Antonio Varalla, che «per trentacinque anni aiutato solo dalla musica corse Europa ed America, ed ora vive dovizioso in patria». E spunta fuori anche il nome di Vincenzo Bellizia, rinomato costruttore di arpe, che partecipa nel 1845 all’Esposizione di Belle Arti in Napoli, ed ha prodotto fin lì centoquarantacinque strumenti.

Regaldi ci fornisce anche un dato numerico impressionante: «A’ dì nostri si contano trecento di tai viaggiatori lucani che ricchi di armonia vanno per il mondo». E ci descrive anche lo strumentario di queste orchestrine viaggianti: «Alcuni suonano il violino, certi altri toccano con maestria la mandola, ve n’ha dei valenti nel clarino e nel flauto, ma la più parte di questi armoniosi pellegrini suonano l’arpa, strumento che meglio di ogni altro al popolo viggianese si addice».

E poi Regaldi sottolinea che il viggianese non suona solo arie d’opera: «reca pure altre armonie de’ nostri pastori, de’ nostri devoti». E infatti egli chiede a Pennella e ai suoi nipoti di «sonarmi melodie popolari». I giovani, accompagnati dall’arpa, gli cantano Sto crescenno no bello cardillo, e atri pezzi; così a Regaldi viene voglia di sapere «come facessero ad averne in tanta copia. Colla massima facilità, mi rispose il Pennella, comperandole al prezzo di un grano per ciascuna dai venditori che con un fascio di tali canzoni schiamazzando fanno il giro di tutta Napoli».

Questa dichiarazione dà a Regaldi lo spunto per scrivere un altro pezzo: I canti popolari di Napoli. È un testo importante, che merita una lettura integrale; per questo l’ho riportato per intero in appendice. Perciò rimando alla lettura diretta, limitandomi a sottolineare il disegno generale e a mettere in evidenza alcuni punti chiave.

L’articolo è diviso in quattro paragrafi. Nel primo viene evocata la figura del cantastorie che si esibiva al Molo prima che questo venisse ripavimentato ed abbellito. Nel secondo viene presentato il tipografo Francesco Azzolino, principale stampatore di fogli volanti con i testi delle canzoni, e vengono ricordate due canzone arcifamose: Io te voglio bene assai, e Don Ciccillo alla Fanfarra. Nel terzo si parla di Totonno Tasso e di altri poeti popolari napoletani, nonché di come funziona il commercio cittadino dei fogli volanti. Nel quarto vengono forniti i numeri, sbalorditivi, della quantità di fogli prodotti; e per chiudere c’è una lunga riflessione sui gusti del popolo, sui poeti popolareggianti, e, più in generale, sullo straordinario valore culturale dei canti popolari.

Come abbiamo già visto nell’articolo sui viggianesi, Regaldi mescola considerazioni estetico-filosofiche con veri e propri dati giornalistici – date, nomi, numeri. Entrambi i due approcci si rivelano molto interessanti: dal primo cogliamo bene il ruolo della musica e della poesia popolare nell’acceso immaginario di un giovane poeta di sentimenti liberali (nel 1849 Regaldi sarà prima arrestato poi esiliato a Malta per aver simpatizzato con gli insorti): «La poesia popolare – scrive nella parte conclusiva dell’articolo – è una fedele emanazione dello spirito d’un popolo: […] è l’arca d’alleanza fra i tempi antichi e i moderni: è l’arca dove il popolo depone le armi del suo eroe, e il santo fuoco delle sue speranze». Dal secondo approccio ricaviamo invece preziosi dati (‘statistici’, come dice lo stesso Regaldi) sulla canzone popolare, solitamente alquanto rari per l’Italia preunitaria. Impressionante è il dato sulle copie di Io te voglio bene assai, che in otto anni, dal 1839 al 1847, sarebbero state ben 180.000! E a proposito di questa canzone viene fornito un preciso anno di nascita: 1839, da prendere per buono vista la vicinanza cronologica all’articolo. In tal modo viene sfatata la leggenda, inventata di sana pianta da Salvatore Di Giacomo, che Io te voglio bene assai sarebbe stata scritta nel 1835, con musica di Donizetti, aprendo la serie alle canzoni di Piedigrotta[29]. Ma forse ciò che più colpisce di tutto l’articolo è la consapevolezza di quanto poca efficacia abbia la poesia scritta per il popolo dai letterati: «So bene che in Napoli, come in altre provincie italiane, v’hanno poeti che colti ed immaginosi sanno i loro versi accomodare al canto del popolo, ingentilendolo di civili venustà. Ma ben di raro incontra che il popolo usi di tali canti nelle sue feste, e ponga giù quelli di Totonno e de’ suoi confratelli; perché il popolo ama i suoi costumi, dipinti e vestiti ne’ canti, com’egli trovasi nella sua educazione, incoltamente, rozzamente».

 

Per chiudere questo excursus sul canto popolare nel “Poliorama” segnalo l’articolo Una cantatrice di strada (a. XIII, 1848-1849, p. 356). Non è firmato, ma senza dubbio viene da una penna di valore – Anzelmi, o, più probabilmente, lo stesso Regaldi. L’articolo prende le mosse da una litografia che mostra una giovane donna che canta, visibilmente misera e vestita di stracci. Andando al di là delle apparenze, l’autore ne sa evidenziare la «figura che nulla ha di ributtante o di basso […], [la] fisionomia piuttosto graziosa e regolare, […], [un] insieme che presenta una certa dolcezza ed avvenenza nella sua compostezza». Però questa ragazza canta non per piacere, ma per fame; la sua canzone «non esprime né la gioia, né la tristezza, ma domanda un pane». In un tempo lontano l’arte dei bardi «trovava posto ovunque eran uomini per ascoltare e capire». «I cantanti delle strade sono dunque gli ultimi rappresentanti di una istituzione che ha avuto la sua importanza nella storia», ma che è ormai decaduta per il logorarsi del rapporto virtuoso fra cantori e società. L’articolo però si chiude con un certo tono di speranza, radicato in quella fede romantica per la poesia popolare di cui abbiamo detto: «Pure potrebbe ancora l’arte rinnovellarsi, prendere un posto definitivo ed utile nella vita comune, e diventare un mezzo di diffusione di idee morali, sante e religiose».

Questo ideale e la visione del mondo che li sottende brilleranno di luce vivida nei moti del ’48, ma saranno ridotti in cenere dalla ottusa reazione borbonica, che non risparmia nemmeno il “Poliorama”. Nel primo fascicolo del secondo semestre dell’anno XII (112 febbraio 1848), la rivista pubblica una grande litografia di «S.M. il re [Ferdinando II] come mostrossi in mezzo al popolo il giorno 29 gennajo», corredata di un lungo articolo di Francesco Palermo ripreso dal “Lucifero” dove si tessono le lodi del re per essersi dimostrato ricettivo alle richieste del popolo napoletano. Come si sa, la disponibilità del re fu solo di facciata, e appena possibile si rimangiò le concessioni ed avviò una stagione di brutale e gretta repressione. Nell’annata seguente, la XIII, che dovrebbe essere 1848-1849, il “Poliorama” mostra l’affanno. Da settimanale diventa quindicinale, e nel secondo semestre trisettimanale, per poi tornare quindicinale; perciò l’annata va dal 1848 al 1850, e qui si ferma. Per due anni sospenderà le pubblicazioni, per riprenderle nel 1852, con la specifica «seconda serie». L’editore è cambiato, come è cambiata la qualità della carta ed il formato (adesso un po’ più grande); inoltre, se rimangono i 52 fascicoli scompare però il concetto di semestre e c’è un solo indice finale per l’intera annata. Ma soprattutto è cambiato lo spirito della rivista. Nel Piccolo proemio ad un grosso volume che apre l’annata XIV (serie seconda), si legge un programma la cui preoccupazione principale è convincere le autorità che nulla hanno da temere da questa rivista: «Il Poliorama è inoffensivo, è neutrale. Il suo soggiorno è un paese sur la grand route [sic]. Vi si trovano belle vie, botteghe da caffè, ristori, teatri, cascate d’acqua, giardini, ma vi si resta due ore, un giorno – poi il Piroscafo fuma, la Diligenza parte, e si va». Sono finiti i fermenti liberali che, pur timidamente, si erano sentiti spirare per le pagine della prima serie della rivista: adesso domina l’intrattenimento superficiale e inoffensivo. Anche i collaboratori sono tutti cambiati: Malpica è morto, De Lauzières è riparato in Francia, Regaldi è stato esiliato a Malta. Adesso il redattore principale è Carlo Tito Dalbono (1816-1880), scrittore prolifico ma politicamente inoffensivo – dedito soprattutto al culto delle cose patrie. Il “Poliorama” va avanti per altre sei annate, con una nuova fisionomia: crescono per importanza le rubriche di invenzioni, tecnologia, industria, arti meccaniche, arti e mestieri, economia domestica e rurale, cose patrie. Diventa così un foglio di informazioni pratiche, reso ancor più accattivante da qualche litografia a colori. Ma quello spirito curioso, quell’ambizione umanista, quell’anelito cosmopolita che avevano caratterizzato la prima serie non ci sono più; e anche la musica si riduce a brevi notizie su vari argomenti e a pezzi encomiastici. La stagione della Napoli romantica è decisamente finita.

Appendice

G. Regaldi, I canti popolari di Napoli 1847, “Poliorama Pittoresco”, a. XII, 1847-1848, semestre secondo, pp. 335, 338-339, 350-351.

I

         Lodevole pensiero di parecchi uomini fu quello di studiare nella poesia popolare applicandola ad utile scopo di che potesse avvantaggiarsi la presente civiltà. In altri tempi gli educatori dell’umanità mirarono all’individuo; oggidì più particolarmente mirano alle masse; le quali vogliono e deggiono con fraterno amore convenire al convivio dell’intelligenza; perocchè Dio ad ogni sorta di gente largendo cuore ed intelletto, ognuno è in diritto di partecipare ai beni che da codeste due sorgenti gli possono derivare. Vittorio Ugo disse – Le theatre doit faire de la poesie le pain de la foule[30] – Ed io reputo la poesia popolare essere meglio acconcia a compiere così nobile uffizio; e segnatamente dove il teatro non ha grandi e frequenti creazioni per ammaestrare colla comedia, quivi dovrà esser maggiore studio della poesia il dispensare alle masse il pane dell’intelligenza, il che verrà fatto di conseguire con molto accorgimento sempre che al poeta occorra un popolo armonioso per eccellenza, un popolo ch’abbia nell’anima e sul labbro l’entusiasmo della musica, e ‘l ritmo del verso, un popolo come quello dell’innebbriante Napoli, della cui poesia ora io andrò alcun poco ragionando. Venuto a Napoli per la prima volta nell’anno 1840, nelle domeniche, lasciati i circoli de’ colti amici, e le sale de’ patrizii, mi facea sulle volcaniche pietre del Molo, dove il sole nel suo tramonto imporporava una carissima scena popolare. Moltitudine di gente faceva corona ad un Cantastorie, Rinaldo rappresentante dell’eroe principale delle scene grottesche de’ cavalieri palladini, che in ottava rima con grande ardore declamava. Ed io godevo in considerare i molti lazzaroni affollati intorno al Rinaldo, gli uni facendo alle guancie puntello delle palme, gli altri incrocicchiate le braccia al petto, e spalancati occhi e bocca; quelli pipando, seduti meditabondi sur una pietra, questi rabbuffati ritti su la persona, e tutti intesi ai racconti del Rinaldo; ed ognuno trovava in quelle strane leggende il suo cavaliere favorito, e ne apprendeva con amore i fatti, come di persona notissima, augurandone fine gloriosa. Per sì fatta guisa trovavano nel Molo il lor teatro; e nel Rinaldo l’animoso Rapsodo, cui gratificavano di qualche moneta, e di festevoli gridi. Quel caro sito si volle quindi ristaurare, operandovi ameno lastricato, ed altre moderne eleganze; il che fu ottimo provvedimento. Si è inoltre creduto un aggiungere decoro cacciando la poesia popolare col suo Rinaldo, e lasciando il molo alle sole faccende del traffico, ed alla inerzia degli oziosi. Ma io non saprei al ristaurato molo quale più pregevole adornamento si potesse recare, di quello che i buoni padri ad esso crearono, facendolo domicilio della poesia popolare, che nelle sere con racconti cavallereschi dava innocenti diletti; nei quali il popolo accennava ad accendersi nella febbre della poesia. Dai racconti del Rinaldo appariva come il popolo Napolitano del meraviglioso si dilettasse; del che vieppiù mi assicurai in vista delle molte novelle in dialetto, esposte su le piazze a vendita, e delle quali parecchie intesi cantare. Codeste novelle sono la tristissima istoria del brigantaggio, che ne’ tempi andati travagliava le provincie del regno; stampate in pessima carta mostrano in capo alla prima pagina impresse strane immagini, ritraenti i più famigerati briganti; quali armati di pugnale in atto di trafiggere qualche sciagurato caduto ne’ loro agguati, altri recanti in trionfo teschi di uccisi, e diversi inseguenti con ogni sorta di ribalderia fuggiasche famiglie. Sotto a tali paurose rappresentanze leggonsi concisi e semplici racconti in ottava rima, e in tal modesto linguaggio italiano, che spesso risente del dialetto; e per la più parte cominciano con invocazioni ad Apolline o ad un santo protettore, e vanno a finire con qualche pensiero morale in cui viene temperata la fierezza delle narrazioni. Eccone alcuni titoli: Nuova istoria del famosissimo e furibondo bandito abbate Cesare Riccardo, in cui si racconta in ottava rima la vita, e morte, uccisioni, ricatti, bravure, e tutte le imprese e scaramuccie fatte con la corte. Crudelissima istoria di Carlo Rainone. Istoria di Titta Grieco, dove si raccontano le sue guapperie, prodezze e morte. etc. etc.

II

         Il brigantaggio andò scemando, e tranquillati gli animi, la poesia tempestosa de’ novellieri si tacque nel popolo stanco di sanguinosi racconti, e sorse in vece una lirica molle e sospirosa: espressione fedele di un popolo beato del suo cielo incantevole, e della benigna natura lussureggiante nei fiori e nelle messi. Apparve nel 1839 una canzoncella musicata con facile e grata melodia – Io te voglio bene assai – della quale dice nelle sue istorie l’illustre C. Cantù ignorarsi l’autore; ma volgarmente si sa in Napoli esserne stato estemporaneo creatore Raffaele Sacco Napolitano, lodato improvvisatore nel suo patrio dialetto. Da quell’anno in poi venne in luce una lunga serie di canzoni nel dialetto napolitano, le quali odonsi tuttodì cantare, fortunate come quella del Sacco, su le arpe dei Viggianesi; ed anco sui cembali delle ornate dame andarono peregrinando per tutta Italia, e fuori. Sono diverse le tipografie intese a metterle in luce, ma quella di Francesco Azzolino è più dell’altre in ciò occupata, e potrebbesi dire inesausta fucina di canzoni napoletane. Quivi amo condurre per poco i miei benevoli leggitori. – Nel vecchio Napoli, lungo la strada dei Tribunali, nel cuore della capitale, fra laberinto di antichissimi viottoli, dove non udite parole di oltramontani, né scorgete lor costumi, ma dove il popolo ferve nelle abitudini de’ suoi padri, e nel suo incontaminato casalingo dialetto; colà la poesia popolare fermò il suo migliore domicilio. Né potea eleggere stanza più veneranda; imperocchè la tipografia dell’Azzolino sorge nella via Geronomini, accosto il tempio in cui dormono le ceneri di Giambattista Vico. La poesia popolare prostrata innanzi all’ara dell’italiana filosofia dispensa le sue mille canzoni. Entrai la modesta bottega dell’Azzolino, e mirai le mille canzoni l’una su l’altra assicurate da rozze pietruzze, perché il soffio dell’aria non disperda le figlie leggiere della poesia popolare. Feci conoscenza dell’Azzolino, e richiestolo di varie cose risguardanti il commercio di tali poesie, da lui seppi che in altri tempi, soltanto due volte all’anno, nella festa di Piedigrotta e in quella di Montevergine usciva dal popolo una nuova canzone: nelle due feste più caramente dilette al popolo, la sua poesia prendeva nuove sembianze. Ora ad ogni occasione di nuovo evento che tocchi l’animo del popolo, compare una nuova canzone, la quale fa tacere le sue sorelle, e prende il dominio delle voci canore e degli stromenti musicali. Siccome dalle novelle che narrano le ribalderie de’ briganti si potrebbe trarre l’istoria del brigantaggio, così pure dalle canzoni pubblicate dal 1840 in qua si potrebbe trarre l’istoria de’ nuovi costumi introdotti in Napoli, e di eventi in cui si accolse la pubblica attenzione. Del che fui certo, leggendo la serie numerosa delle canzoni. La strada ferrata da Napoli conduce a Caserta – la nuova lanterna alzata al Molo – La flotta napoletana veleggiante per il Brasile – Il ginnastico Roux disfidante a lotta la gagliarda turba de’ lazzaroni, e di essa vincitore – il soverchio uso de’ sigari – l’illuminazione a gas – le pulci industriose – lo splendido Caffè d’Europa – e simili altre novità furono subbietto a canzonette di che i tipografi procacciarono guadagno stampandole, e diletto la moltitudine cantandole. Talvolta un motto bizzarro lanciato entro il popolo va a fermentare per tramutarsi in fiamma di molta poesia. A cagion d’esempio, quando nella stagione estiva venne introdotto il piacevole uso di allegrare di musiche militari la villa di Chiaja, tosto divenne piucchè mai la villa ai giovani di ogni stato il caro sito di convegno nell’ora della Fanfara, della musica militare. Forse un tale D. Ciccillo studente abruzzese avrà detto agli amici – ci rivedremo alla Fanfara – Questo motto di convegno più volte ripetuto divenne subbietto a spiritosa divulgatissima canzoncella – Don Ciccillo alla Fanfara – Quindi una donna volgare per nome Luisella venne in voce per bellezza di forme, e tosto la poesia popolare associò i nomi di Ciccillo, e di Luisella, e ne emerse un lungo periodo di venture narrate da diversi poeti. Ora è Ciccillo che amorosamente profferisce il suo cuore a Luisella: ora è il poeta che loda le grazie dell’amata donna: quindi la poesia descrive Ciccillo e Luisella, che accoppiati vanno passeggiando negli odorosi viali di Chiaja: in altro canto Luisella viene rimproverata d’infedeltà, ma tosto Ciccillo si pacifica colla sua donna ricondotta a benigno amore. Ciccillo e Luisella dopo traversie di speranze e di affanni, sono fatti sposi; e sono beati del consorzio conjugale, se non che la povertà li costringe a dolorare. Luisella, lasciate da parte le vanità cittadine, per lenire le miserie al consorte, si acconcia quando può a farsi panettiera, e quando ad essere giardiniera sui poggi dello Scudillo. Ma povero Ciccillo! ogni gioia gli viene tolta dalla morte che tronca i giorni alla solerte e leggiadra donna. La poesia ne lamenta il tristo caso, e dipinge l’anima della rimpianta donna comparsa in sogno al vedovato; ed uno de’ poeti commiserando alla sventura di D. Ciccillo dice d’essergli fratello segnando ai piè dell’elegiaca canzone – Chillo soleto poeta frate de D. Ciccillo – Totonno Tasso. – Questa novelletta ho potuto trarre dalle molte diverse canzoni, ed avrà forse ancora tali e tanti episodi, da formarne un compiuto romanzo. Il che ben considerando, non mi è più paruta tanto aliena dal probabile la sentenza di coloro che opinarono l’Illiade non ad un solo autore doversi riferire, altro non essendo che una collezione di antichissimi canti, ripetuti dai rapsodi di età in età ai popoli di Grecia, e gradatamente in una medesima idea trasfusi e contemperati; i quali, assunta epica veste, vennero tramandati sino alle nostre generazioni. Onde io penso qualche avveduto scrittore potrebbe dalle molte canzoni del popolo trarre novelle canzoni da non digradarne i più severi.

III

         Ora veniamo agli autori di tali poesie che sono Tommaso Bonito, Enrico Gianni, Pietro Durelli, e parecchi altri; [de]i Beranger del popolo napolitano il più conosciuto è Totonno Tasso, che nella tipografia dell’Azzolino è l’anima vivificante dei tipi, sempre inteso, prima che altri nol prevenga, a cogliere l’opportunità di canzoncelle delle cose nuove che giornalmente accadono. L’aule dei principi, e delle splendide dame ebbero in Torquato Tasso il poeta Cesareo, il Cavalieresco lor Virgilio Italiano. Ai dì nostri le piazze e le bettole della plebe hanno in Totonno Tasso il poeta lor popolano. Torquato e Totonno che tanto distano l’un dall’altro per inspirazione naturale e per vigoria di studii, sono eguali in due cose soltanto – Nel nome e nella miseria – Totonno è un bizzarro povero uomo di mezza età, basso di statura, incolto della persona: il quale al primo vederlo, non vi dà l’impronta di un tipo napolitano, ma lo rivela tosto ch’ei parla. Allora nel fuoco degli occhi azzurri, nell’agitarsi de’ capegli scarmigliati, e nel suo gesto, e nelle argute facezie si espande la fiamma del cielo meridionale; e nei tratti molto pronunziati del suo volto è tale un movimento, che ora esprime il riso della commedia, ed ora il ghigno della satira. Molta festività di espressione e ingenuità di pensieri hanno le semplici, incolte sue canzoni, atte a facilmente entrare in campo alla minuta gente, dilettandola, ed anco talvolta ammaestrandola. Richiesi il poeta se prima di metterle in luce cercasse di emendarle addomesticandosi con critici valorosi. Al che ingenuamente rispose: consigliarsi alcune volte col barone Michele Zezza, e con Giulio Genoino, poeti molto reputati nel dialetto napolitano. Richiesto inoltre d’onde avesse di che trarre la vita, mi rispose il meglio dell’esistenza derivargli dalle sue canzoni, ed ecco il come suole procacciarselo. Il paese d’Italia che vanta in maggior quantità canzoni popolari è quello di Napoli, talché sono divenute oggetto di commercio, piccolo se vogliasi raffrontarlo alle tipografiche speculazioni del Fontana e del Pomba, ma utile bastamente applicandolo ai modesti desiderii dell’Azzolino; il quale acquista la proprietà dei versi pagando per ciascuna canzone sei carlini al poeta, e dandogli inoltre gran numero di copie della canzone stampata, ch’egli poscia va dispensando a’ suoi proteggitori, i quali largamente lo retribuiscono. E dove mai non incontrerà conforti il povero poeta del popolo? Trova mecenati fra i ministri di stato e fra i patrizi: reca le sue canzoncelle ne’ palazzi di Chiaja, e nelle splendenti officine di Toledo, e nelle locande, e nelle bettole, e per ogni dove le sue strofe sono salutate d’un sorriso e d’una moneta. Frattanto Azzolino reso proprietario de’ versi, e lo dice ai piè della canzone, consegna le centinaja di copie ai venditori; dei quali il più noto è un tale Gennaro Pennone nerboruto giovane, che ogni mattina viene dalla vicina Casoria sua patria, e recando un fascio di canzoni, va per ogni parte della città con stridula voce annunziandone il titolo ed il prezzo di un grano. Corre Gennaro per le vie, pei crocicchi, per le piazze, e per entro tutte le botteghe: il merciajo, il pizzicagnolo, il panicuoco, l’erbajolo acquista una copia della nuova canzone; e verso sera vedesi il buon Gennaro camminare a sghembo per le strade, sostare alle taverne, trafficar le canzoni coi bicchieri di vino; e finalmente stanco del petto pel continuo far baccano, e per soverchio tracannare ebbro il cervello, avviasi nel vecchio Napoli, e va in casa dell’Azzolino a rendergli i conti del suo poetico traffico. Di ogni cento copie vendute deve recare quattro carlini al tipografo; il quale però solo tre ne richiede dalla cieca vechiarella Lisabetta, sventurata vedova donna che va attorno per la città accattando un pane col vendere, insieme a’ calendari, le canzoni, condotta dal suo poverello trilustre figliuolo. I miei leggitori non mi facciano rimprovero che io spenda cure letterarie in cose di nessun conto. Tali sembrano a chi non le voglia assennatamente esaminare; ma ponendovi mente, appariranno, come realmente sono, di gran rilievo, e di grandissimo per quello che potrebbero divenire in migliori condizioni di tempo.

IV

         Non vi ha scrittura nel regno di Napoli di cui si stampino e si vendano copie in tal numero, quanto avviene giornalmente di tali canzoni.

Della canzone – Io te voglio bene assai – se ne stamparono copie     180,000

         La Luisella   .         .         .         .         .         .         45,000

         D. Ciccillo alla Fanfara    .         .         .         .         100,000

         Alla finestra affacciati      .         .         .         .         40,000

         Il Bivacco    .         .         .         .         .         .         12,000

         La Palombella       .         .         .         .         .         30,000

Potrei esporre una più lunga statistica, se non reputassi le riferite cifre per se sole bastevoli a manifestamente significare che sì fatte canzoni sono un mezzo efficace a propagandare nel popolo utilissime sentenze. Volete che un pensiero civile dominante nelle caste superiori della società discenda a quelle della minuta gente? Non vi esorterò a distenderlo in purgate prose, ma per meglio e più tosto raggiungere lo scopo, vi esorto di recarlo a Totonno Tasso od a qualchuno dei suoi confratelli, perché a modo di gemma preziosa lo chiudano nelle lor canzoni: e quel pensiero sarà seme che aiutato dalle strofe popolari, subitamente si propagherà nella moltitudine, e non tarderà di molto a fruttificare. So bene che in Napoli, come in altre provincie italiane, v’hanno poeti che colti ed immaginosi sanno i loro versi accomodare al canto del popolo, ingentilendolo di civili venustà. Ma ben di raro incontra che il popolo usi di tali canti nelle sue feste, e ponga giù quelli di Totonno e de’ suoi confratelli; perché il popolo ama i suoi costumi, dipinti e vestiti ne’ canti, com’egli trovasi nella sua educazione, incoltamente, rozzamente. In Sicilia l’abate Meli giunse ad incivilire le poesie popolari, loro dando elette forme, talché meritò l’aggiunto di Anacreonte siciliano [C. Cantù Storia Universale. Letteratura vol. secondo pag. 2 e pag. 619 Torino 1847]; pertanto il popolo, mi perdoni il chiaro sig. Cantù se da lui dissento [C. Cantù cit. op. pag. 62], non cessa dal cantare le sue strofe incolte; ed in due anni di operosa pellegrinazione in quella benedetta isola, non mi occorse mai di udire dalla plebe cantare le soavissime canzoni del Meli. Lo stesso accade in Napoli, dove G. Genoino scrisse care poesie in dialetto, ed A. de Lauzières ne dettò alcune di tal leggiadria, che potrebbonsi tenere per modelli di poesia popolare; e Paolo Parzanese ne scrisse pure delle molto pregevoli italianamente. Le quali tutte ammirate nell’amena letteratura, non sono per anche diffuse nella moltitudine; non perciò inutili. Fate che il popolo napolitano sia incivilito, ed entreranno nella sua mente le canzoni dei colti poeti. Il che accadrà, quando delle scuole normali di mutuo insegnamento, e delle scuole di agricoltura Napoli e le sue provincie si provvederanno, come decreti sovrani saviamente statuirono. Il cielo benedica il voto de’ buoni! perché il popolo napolitano si dirozzi, e si levi a quel progredimento civile, cui a gran passo si vanno accostando le altre genti d’Italia. Allora il poeta colto disvezzerà il popolo dalle fole ch’ei va tutto dì canterellando, per mettergli sul labbro canti nobilissimi, che valgano a divellere male radici di perniciose consuetudini: ed usando del libero ministero della parola, potrà a guisa del Brofferio nel dialetto piemontese, de Giusti nel purgato toscano dare al popolo canti che delle patrie condizioni lo ammaestrino. La poesia popolare è una fedele emanazione dello spirito d’un popolo: il perché ne’ tempi prosperevoli è la nota affettuosa d’Anacreonte, o l’idillio di Gesner, e nei cittadini rivolgimenti il canto del popolo vuol essere l’inno guerriero di Tirteo, o l’ode patria di Berchet. La poesia popolare è l’arca d’alleanza fra i tempi antichi e i moderni: è l’arca dove il popolo depone le armi del suo eroe, e il santo fuoco delle sue speranze: epperò custodisce egli severamente il santuario nazionale in cui stanno riposte le sue più grandi memorie. Può consumarsi nelle fiamme, perdersi nelle rovine l’istoria ritratta nelle tele, sculta nei marmi; ma l’istoria che il popolo scolpisce e ritrae ne’ suoi canti vincitrice sopravvive alle più tristi vicende dell’età. Non altrimenti dell’usignuolo che incendiatosi il palazzo dove spandeva l’ambrosia delle sue armonie, s’invola tosto alla sala e al tetto della sua dorata prigione, e si ripara nella campestre solitudine per quindi cantare ai pellegrini l’inno della libertà o della morte. Che sia canto popolare direttamente intendano i nostri poeti, perché talvolta mal consigliati per canti popolari non offrano all’Italia canzoni imitate da tedesche ballate, che per nulla si confanno all’indole italiana. Io sento prossimo il giorno in cui il nostro popolo meridionale cessando da miserevoli rime effeminate, intonerà i cantici che ricordino l’antica sapienza italica esser uscita dai loro padri, dai quali ebbero in retaggio svegliato intelletto e generose memorie, perché sappiano modo d’informarsi a magnanime azioni di civile comunanza. Che se negli antichissimi tempi la sapienza fu tesoro di pochi eletti, oggi sarà patrimonio di tutto un popolo. La stampa e le strade ferrate hanno raccolto i popoli ad un solo, ad un medesimo convivio di fratellanza e di amore. Laonde il poeta non troverà più nell’umanità le inspirazioni che provengono dalla varietà de’ costumi e delle favelle; ma sarà largamente compensato dall’inspirazione che gli deriverà dall’unità della fede, e dell’amore. Gli eventi favoriranno il desiderio degli uomini; e il poeta diverrà un pensatore musicista, che avvantaggiato delle virtù nazionali nel suo canto celebrerà al popolo il gran banchetto della fratellanza universale


[1]  Della rivista usciranno in tutto 19 annate, ciascuna composta da 52 fascicoli (tra il 1850 ed il 1852 c’è un’interruzione). L’uso sistematico delle litografie fa spiccare il “Poliorama Pittoresco” fra i tanti periodici pubblicati nella Napoli dell’Ottocento – una città che ha avuto il primato della stampa periodica, come mostra l’Indice dei periodici ordinati per luoghi di pubblicazione nel catalogo della Biblioteca di storia moderna e contemporanea di Roma (Biblioteca di storia moderna e contemporanea. Periodici dei secoli XVIII e XIX, a cura di A. Martinoli, prefazione di F. Della Peruta, Roma, 1990)–; cfr. F. Della Peruta, Il giornalismo dal 1847 all’Unità, in A. Galante Garrone, F. Della Peruta, La stampa italiana del Risorgimento (Storia della stampa italiana, a cura di V. Castronovo e N. Tranfaglia, vol. II), Laterza, Roma-Bari 1979, pp. 438-458. Nel sito della Biblioteca di archeologia e storia dell’arte di Roma (BIASA) sono disponibili le digitalizzazioni delle annate 1837-1846 del “Poliorama Pittoresco”: http://periodici.librari.beniculturali.it/PeriodicoScheda.aspx?id_testata=41. Sono invece scaricabili in PDF (http://books.google.it) le annate 1836-1837 e 1839-1840, messe in rete dalla biblioteca universitaria di Princeton.

[2]  Filippo Cirelli, l’editore, tiene in serbo questa funzione per un altro periodico che il suo stabilimento pubblica dal febbraio 1838, “Il Lucifero”: esso comprende una rubrica fissa di recensioni teatrali dove signoreggiano le opere musicali del San Carlo.

[3]  Sempre nella presentazione della rivista, anno I, 1836-1837, semestre primo, fasc. I, 20 agosto 1836, pp. 2-4. In particolare, per tutta la sua esistenza, la rivista andrà pubblicando riproduzioni commentate di quadri, sculture ed edifici; inizialmente solo opere del passato, ma dal 1840 c’è un’apertura al presente grazie ad una «alleanza giornalistica» con “Il Tiberino”, periodico romano di arte contemporanea privo di illustrazioni. Nel fascicolo del 23 maggio 1840 il “Poliorama” annuncia che «i disegni di quelle pregevoli opere di cui abbia reso o renderà conto nelle sue colonne, [“Il Tiberino”] li trasmetterà al Poliorama che li riprodurrà in litografia riserbandone dieci copie agli autori». Inoltre il “Poliorama” mostra da subito grande interesse per l’invenzione del dagherrotipo: il fasc. 21 del dicembre 1839 (a. IV) reca una dettagliata spiegazione di come funzioni il dagherrotipo, e in fascicoli successivi della stessa annata vengono pubblicate litografie tratte da dagherrotipi. Cfr. N. Barrella, Il dibattito sui metodi e gli obiettivi dello studio sull’arte a Napoli negli anni quaranta dell’Ottocento e il ruolo del «Poliorama Pittoresco», in Percorsi di critica. Un archivio per le riviste d’arte in Italia dell’Ottocento e del Novecento, a cura di R. Cioffi, A. Rovetta, Vita e Pensiero, Milano 2007, pp. 21-34. Per un approccio al “Poliorama” da un diverso punto di vista, cfr. A. Russo, Medicina e scienze attraverso la lettura degli «Annali Civici delle Due Sicilie» (1833-1860) e del «Poliorama Pittoresco» (1836-1860), in “Rendiconti e atti dell’Accademia di scienze mediche e chirurgiche”, CXXXVIII, 1984, pp. 88-96.

[4]  L’espressione si è consolidata dopo il bel libro di E. Cione, Napoli romantica, 1830-1848, terza edizione interamente rifatta, Morano, Napoli 1957 (I ed. 1942).

[5]  Così si legge nel programma editoriale del primo numero: «Istruire e dilettare nel modo più semplice, più efficace, più sicuro ed a buon mercato per tutti; vedere molte cose, di molti secoli, di molte regioni, di molti uomini; discorrere tutto quanto con utile o con diletto, interessar possa le intellettuali e fisiche facoltà dell’uomo; aggiungere alle descrizioni le grafiche rappresentazioni della cosa in disamina, ecco la divisa dell’opera che presentiamo al pubblico, ecco l’oggetto, il proponimento e lo scopo del nostro Poliorama». Anche le altre citazioni nel testo, ove non specificato, vengono da questo articolo, che secondo Nadia Barrella (Il dibattito sui metodi..., p. 29) va attribuito al direttore della rivista, Filippo Cirelli. Tuttavia questo indirizzo «Al cortese lettore» reca la sigla G.Q., che, come indica la stessa Barrella (p. 30) corrisponde ad un assiduo collaboratore della rivista, Giustino Quadrari.

[6]  Dal 1839 esce anche un supplemento ‘trimensile’: “La Moda, appendice al Poliorama Pittoresco”, il cui compilatore unico è Domenico Anzelmi, che vi pubblica un profilo di Donizetti (con ritratto) all’inizio della seconda annata. Nel 1838 Cirelli aveva creato un altro periodico, “Il Lucifero, giornale scientifico, letterario, artistico, industriale”, e nel 1840 aggiungerà all’impresa “Il giornale de’ giovanetti, ovvero letture piacevoli ed istruttive per la prima età”, opera periodica compilata da Cesare Malpica. N. Barrella, Il dibattito sui metodi..., p. 28, attribuisce a Cirelli anche “Medicina Pittoresca”, “Ore solitarie” e “Il Sibilo” (ma non ho trovato prove che anche “Il Sibilo” sia una creatura di Cirelli).

[7]  Il “Poliorama” esce con 52 fascicoli settimanali di 8 pagine (in 4° di 31 cm.) per ogni annata, divisa in due semestri. La paginazione è unica (416 pp., con qualche eccezione per il fascicolo 52 che può avere solo 4 pp.), ma compaiono due indici degli articoli, uno per ciascun semestre (compaiono anche due diversi frontespizi, aggiunti in seguito).

[8]  Maria Felicia Malibran (1808-1836) è stata una leggendaria diva dell’Ottocento musicale. Figlia del famoso tenore Manuel García, fu grande interprete rossiniana e belliniana, e compose arie e duetti. Soggiornò per tre volte a Napoli, cantando nel teatro S, Carlo. Morì prematuramente per i postumi di una caduta da cavallo.

[9]  Luigi Lablache (1794-1858), cantante napoletano di padre francese e madre irlandese, fece una trionfale carriera nei teatri di tutta Europa. Si ritirò dalle scene nel 1857 (cfr. F. Florimo, La scuola musicale di Napoli e i suoi conservatori […], 3 voll., Napoli, 1881-1883, rist. anast., Forni, Bologna 1969, III, pp. 467-484, 485-492).

[10]  «Vagheggiavamo da gran tempo il modo d’incomiciar ad adornare il Poliorama di qualche originale composizione musicale che portasse il nome d’illustre vivente Maestro, per essere anche in ciò esatti nelle nostre premesse. Ed ecco la gentile condiscendenza di uno stimabile amico ci da il mezzo di soddisfare questo nostro desiderio e di offrire ai cortesi lettori un’aria inedita del grande Maestro Rossini – Tal quale noi la riproduciamo nell’altra pagina. Ei la scrisse di proprio pugno in Parigi nel Febbrajo del prossimo scorso anno 1835 nell’Album della Signora Principessa di Montevago, apponendovi in fine la sua firma, che noi riproduciamo del pari con un perfetto fac-simile. Molte altre egregie composizioni e musicali e letterarie adornano quel famoso Album con nelle firme nomi di grande rinomanza. Noi non ristaremo dal tentare di renderle man mano di pubblica ragione».

[11]  Cfr. il divertente quanto fantasioso racconto delle gesta di Rossini a Napoli e dei suoi rapporti con l’impresario Barbaja in A. Dumas, Il corricolo, trad. it., introduzione e note di G. Doria, Colonnese, Napoli 2004, pp. 47-54

[12]  V. Emiliani, Il furore e il silenzio. Vite di Gioacchino Rossini, Bologna, Il Mulino, 2007, p. 151.

[13]  Cfr. L. Rognoni, Gioacchino Rossini, nuova edizione riveduta e aggiornata, Einaudi, Torino 1977, p. 480; V. Emiliani, Il furore e il silenzio..., pp. 324, 369, 381.

[14]  Cfr. “Il Lucifero”, anno secondo, n. 21, mercoledì 3 luglio 1839.

[15]  V. Emiliani, Il furore e il silenzio..., p. 142.

[16]  Nel 1832 era uscito a Palermo un volumetto di Liborio Musumeci dal titolo Parallelo dei due maestri Bellini e Rossini, in cui i due compositori erano messi sullo stesso livello di grandezza. Nel 1834 gli aveva risposto un altro siciliano, Stefano Mira marchese di San Giacinto, con un altro opuscoletto dal titolo Osservazioni sul merito musicale dei maestri Bellini e Rossini in risposta ad un parallelo tra i medesimi pubblicato in Palermo (Bologna, Tipografia della Volpe; parzialmente ripubblicato in Rossiniana. Antologia della critica nella prima metà dell’Ottocento, a cura di C. Steffan, Studio Tesi, Pordenone 1992). Mira afferma che in Bellini vi è sì grandezza, ma solo in Rossini genio.

[17]  E. Cione, Napoli romantica..., pp. 283 sgg. Gli stessi temi trattati da Cione sono efficacemente rivisitati, con metodologie e strumenti aggiornati, da M. Sansone, La letteratura a Napoli dal 1800 al 1860, in Storia di Napoli, 10 voll., ocietà editrice Storia di Napoli, Napoli 1967-1974: vol. IX, 1972, pp. 295-644. Domenico Anzelmi (1803-1890), firma ricorrente nella prima serie del “Poliorama”, è autore di un fortunato volume su Estetica di lettere ed arti belle (1854), oltre che di raccolte di poesie e di un libriccino sul colera (1936), nonché redattore unico del citato supplemento al “Poliorama”, “La Moda”.

[18]  Su questa interessante personalità di erudito, teologo e paleografo (nato nel 1802 e morto nel 1871) poche notizie si trovano in Degli scienziati italiani formanti parte del VII Congresso di Napoli nell’autunno del MDCCCXLV. Notizie biografiche raccolte da Gaetano Giucci, Tipografia parigina di A. Lebon, Napoli 1845, pp. 271-272. Non ho potuto consultare il più importante A. Ferrante, Della vita degli studi e delle opere del prof. Giustino Quadrari, in Id., Scritti vari editi e nuovi pubblicati a ricordo dei parenti, a premura degli amici a bene di tutti i cristiani, Guasti, Prato 1881 (cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Giustino_Quadrari - dove però ci sono alcuni errori; pagina consultata il 25 settembre 2010).

[19]  «Souvent on appelle musique nationale celle qui a été créé par des musiciens, ou par des simples amateurs d’une nation; et qui, étant analogue au goût de cette même nation, est adoptée et préférée avec prédilection par le peuple» (A. Scoppa, Les vrais principes de la versification développés par un examen comparatif entre la langue italienne et la française, 3 voll., Courcier, Paris 1814, III, 270-271, cit. in P.E. Carapezza, Musiche ‘nazionali’ italiane e francesi raccolte da un accademico del buon gusto, “Atti dell’Accademia di Scienze Lettere e Arti di Palermo”, serie IV, a. XXXV, 1975-76, pp. 351-373: 356).

[20]  «Il Napoletano […] pare che sempre poeteggi, o canti. Non vi è donna, che possa addormentar cullando il suo bambino tra noi, se non canta, e non pronunzia, o compone una canzone, o cantilena che siesi, che per lo più essa stessa fa, e verifica, e rima, accozzando parole spesso senza senso, e senza saper quel che si dica: tanto è meccanismo d’istinto il lei il poetare. Lo stesso fa l’artigiano, se si annoia nel lavoro; lo stesso il fabbricatore, se batte un lastrico; lo stesso il vetturino, se il pigro passo de’ suoi muli scuotendolo dal sonno, gliene indica tediosamente la misura. Voga il navicellajo, e absentem cantat amicam multa protulus vappa nauta. Non vi è festa di contado, dove non chiaminsi improvvisatori, e cantori. Tutto in somma cantò, e poetò, e tutto ancor poeteggia tra noi» (F. Galiani, Del dialetto napoletano, edizione seconda corretta ed accresciuta, Porcelli, Napoli 1789, rist. anast., Centro editoriale del Mezzogiorno, Napoli 1976, pp. 11-12)

[21]  G.E. Bidera, Passeggiata per Napoli e contorni, Manuzio, Napoli 1844 (scaricabile in PDF da http://books.google.it).

[22]  «In questo clima felice ed in questa posizione teatrale, che accresce l’energia al cuore, e dà forte impulso alle facoltà dello spirito, debbonsi sviluppare i talenti in tutti i rami delle scienze, e nascere i Poeti, i Musicisti ed i Pittori» (Napoli antica e moderna, dedicata a S.M. Ferdinando IV. Re delle due Sicilie dall’ab. Domenico Romanelli […] parte seconda, Angelo Trani, Napoli 1815, p. 17; scaricabile in PDF da http://books.google.it).

[23]  La canzone La Ricciolella, che si basa sul medesimo schema melodico-armonico del Carnevale di Venezia, è riportata nel terzo volume del cit. A. Scoppa, Les vrais principes (trascriz. in P.E. Carapezza, Musiche ‘nazionali’ italiane, p. 369), e un arrangiamento a tre voci con pianoforte compare nel secondo fascicolo dei Passatempi musicali di Guillaume Cottrau. Cfr. L. Calella, Guillaume Cottrau e l’’invenzione’ della canzone napoletana, tesi di laurea, Università di Pavia, a.a. 2002/2003, p. 151.

[24]  Cfr. E. Cione, Napoli romantica..., specialmente i capp. V e VI della seconda parte.

[25]  G.R. Celeste, L’arpa popolare viggianese nelle fonti documentarie, Amministrazione comunale, Viggiano 1989. Il viggianese Alberso Salvi, nel prima metà del Novecento è stato prima arpa al Metropolitan di New York e nell’orcehstra della NBC di Chicago (http://www.viggianoinmusica.it/it/arpa-viggianese/la-famiglia-salvi; pagina consultata il 25 settembre 2010).

[26]  La sua prolificità di scrittore è impressionante: in poco meno di vent’anni pubblica oltre venticinque volumi, fra poesie e prose varie (soprattutto cronache di viaggi), fra i quali spicca una fortunata biografia di Napoleone, prima pubblicata a puntate in cinque anni sul “Poliorama”. È anche il curatore unico de “Il Florilegio ovvero il novelliere per gli adolescenti”, periodico per ragazzi che esce a Napoli nel 1838 presso l’editore Trani. Quando questa impresa finirà (dopo qualche numero), Cirelli, l’editore del “Poliorama”, gli affida integralmente la redazione de “Il giornale dei giovanetti ovvero letture piacevoli ed istruttive per la prima età”, che Malpica condurrà dal 1840 al 1845. Inoltre Malpica, sul modello di Basilio Puoti (di cui è stato allievo, e poi acceso critico) e al pari di Francesco De Sanctis, apre nel 1836 un fortunato ‘studio’, cioè una delle non poche scuole private che suppliscono alla crassa disattenzione del governo borbonico per l’educazione (si pensi che non è neanche previsto un ministro per l’istruzione). Insomma, una furia di scrittura che non può non andare a scapito della qualità. De Sanctis, che lo aveva conosciuto bene, nutre fiera avversione per lui e per il suo sodale Achille de Lauzières (un altro importante collaboratore del “Poliorama”); avversione che ha ereditato dal marchese Puoti, il quale «sfogava spesso la sua ira contro di lui [Malpica] nel suo schiettissimo dialetto napoletano» (M. Sansone, La letteratura a Napoli..., pp. 313 sgg). Vincenzo Torelli, direttore de “L’Omnibus”, rivale del “Poliorama”, scrive di Malpica che «è caldo e sentito nel verso […] ma difettoso nella prosa perché riboccante, fantastico, improprio ed esagerato» (cit. nel “Poliorama”, a. I, p. 279)

[27]  De Sanctis lo aveva caro: lo vedeva affettuoso poeta del villaggio, «pittore specialmente della fanciullezza, di tutto ciò che quell’età ha di grazioso, d’ingenuo, d’amabile» (F. De Sanctis, La letteratura italiana nel secolo XIX. Scuola liberale-scuola democratica, lezioni raccolte da Francesco Torraca e pubblicate con prefazione e note da Benedetto Croce, Morano, Napoli 1914, p. 125). E poeta felice, indubbiamente, era Parzanese, che aveva esordito come apprezzato improvvisatore; poeta ‘popolare’, con i Canti popolari (1843), ma anche poeta nazionale, con le Armonie italiane (1841). Su Parzanese cfr. D. Santoro, Studi sul Parzanese, Jecco, Chieti 1904; M. Sansone, La letteratura a Napoli..., pp. 452-457.

[28]  Nato a Novara, Regaldi era divenuto presto un brillante poeta improvvisatore, uno degli ultimi rappresentanti di una gloriosa tradizione tutta italiana che dai primi del Settecento fin dentro all’Ottocento avanzato aveva goduto di grande favore internazionale. Regaldi gira per l’Italia (in seguito per il mondo), e fra il 1840 ed il 1849 si stabilisce a Napoli (con dentro un paio d’anni passati in Sicilia), dove fa pubbliche ed acclamate esibizioni come quella del 6 gennaio del 1841 descritta dal marchese De Sterlich: «nel teatro di Caserta il poeta Regaldi à cantato versi all’improvviso dinanzi alle Loro Maestà il Re e la Regina. Il teatro era pienissimo: nel lato destro della platea stavano tutti gli ufficiali della guarnigione, nel sinistro le autorità civili e il pubblico». Cfr. Cronica delle due Sicilie di C. De Sterlich dei marchesi di Cermignano, Nobile, Napoli 1841, p. 9 (reperibile in PDF in http://books.google.it). Regaldi pubblicò poesie e soprattutto libri di storia e di viaggi. Incappato nella vendetta borbonica per aver partecipato ai moti del ’48, ottenne riconoscimenti dal nuovo regno italiano in ragione del suo appassionato patriottismo: fu nominato professore di storia nell’Università di Parma nel 1860, poi a Cagliari, infine a Bologna, dove divenne buon amico di Carducci, il quale nel 1878 ne scrive un affettuoso profilo. Cfr. G. Carducci, Studi, saggi e discorsi, Opere di Giosuè Carducci, X, Zanichelli, Bologna 1898, pp. 117-127; A. Vitagliano, Storia della poesia estemporanea nella letteratura italiana dalle origini ai nostri giorni, Loescher, Roma 1905, pp. 204-218; M. Caesar, Poetic Improvisation in the Nineteenth Century: Giuseppe Regaldi and Giannina Milli, The Modern Language Review, CI/3, 2006, pp. 701-714.

[29]  S. Di Giacomo, Napoli. Figure e paesi. Il teatro, la canzone, la storia, la strada, a cura di T. Iermano, Mephile, Atripalda (AV) 2006, pp. 151-158 (ed. or. 1909). Al contrario, Regaldi riporta la testimonianza di Azzolino che già nei tempi passati «due volte all’anno, nella festa di Piedigrotta e in quella di Montevergine usciva dal popolo una nuova canzone».

[30]  Ho riportato la grafia originale del francese.



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Temi di Critica - numero 2

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