Nella primavera del 2008 viene 
								pubblicato un numero speciale della rivista “October”, 
								edito da Claire Gilman[1], 
								dal titolo Postwar Italian Art che presenta una 
								panoramica di riflessioni da parte di studiosi 
								ed esperti internazionali di arte italiana del 
								Dopoguerra: dall’opera di Alberto Burri e Lucio 
								Fontana all’arte povera, esaminando in 
								particolare la produzione di Giovanni Anselmo, 
								Alighiero Boetti, Marisa Merz e Michelangelo 
								Pistoletto[2]. 
								A nessun italiano viene richiesto un contributo 
								e questo per spezzare forse il sistema delle 
								solite penne, quella tirannia di pensiero che 
								sembra perdurare in Italia, che Gilman poteva 
								finalmente bipassare – per assecondarne un’altra 
								forse persino più potente, diranno alcuni – 
								dettato dalle Università della East Coast 
								(Columbia, Harvard e Princeton). La 
								pubblicazione risulta capace di innescare un 
								vortice di interesse e di parziale restyling 
								volto a sottolinearne i collegamenti con il 
								contesto storico di diffusa contestazione e i 
								riferimenti multidisciplinari al mondo culturale 
								italiano. Il numero speciale viene seguito da 
								due mostre monografiche: nel 2010 Michelangelo 
								Pistoletto. Da uno a molti 1956-2011, curata da 
								Carlos Basualdo e co-prodotto dal Philadelphia 
								Museum of Art e dal MAXXI[3], 
								e nel 2012 Alighiero Boetti. Game Plan, curata 
								da Mark Godfrey, esito di una collaborazione tra 
								Museum of Modern Art di New York, il Reina Sofia 
								di Madrid e la Tate Modern di Londra. 
								L’esposizione di Boetti rappresenta per 
								l’istituzione inglese «la prima retrospettiva 
								dedicata ad un artista dell’arte povera», come 
								si legge all’interno del comunicato stampa, 
								sebbene l’artista stesso abbia preso le distanze 
								dal movimento già a partire dal 1968, ovvero in 
								seguito alla sua partecipazione alla mostra 
								amalfitana RA3 Arte Povera + Azioni Povere[4].
In mezzo a queste due mostre trova 
								posto un complesso progetto espositivo, 
								accompagnato da due pubblicazioni, a cura del 
								medesimo critico-ideatore del movimento Germano 
								Celant, che ha visto coinvolti da nord a sud i 
								principali musei d’arte contemporanea italiani[5]. 
								In Italia nulla di nuovo sotto il sole, tutto 
								immutato come da quell’ormai lontano 1967: lo 
								stesso critico, all’incirca gli stessi artisti 
								ad essere presentati; del resto si dirà che 
								l’arte povera è un movimento storicizzato, ma 
								raramente si storicizza il critico insieme al 
								movimento, ritenendolo quasi come un fattore 
								insostituibile, come si trattasse di un creatore 
								tra i creatori. Sulla scorta di questi eventi – 
								editoriali e curatoriali – ritengo fondamentale 
								riproporre la medesima basilare questione, 
								esplicitata attraverso il quesito del titolo di 
								questo intervento, ma già sollevata da Alanna 
								Heiss nel 1985, in occasione della mostra del 
								movimento organizzata – ancora una volta da 
								Celant – presso il P.S.1 di New York. 
Nell’introduzione al catalogo, la 
								storica direttrice sostiene che sarebbe un 
								errore considerare i dodici artisti facenti capo 
								al movimento, come un gruppo dedicato a 
								promuovere il messaggio dell’arte povera. In 
								effetti lo scetticismo di Heiss si lega 
								all’annoso problema di classificare gli artisti 
								all’interno di un movimento, paragonabile alle 
								stesse inadeguatezze tematiche che riguardano la 
								Pop Art o il Minimalismo[6].
Certamente le etichette, pur nascendo 
								spesso con una valenza dispregiativa, posseggono 
								il dono della semplificazione manualistica 
								avvicinando in questo modo il pubblico a 
								questioni altrimenti difficili da afferrare. Ma 
								sono anche destinate, per la loro ineluttabile 
								genericità, a alimentare il dibattito 
								storico-artistico. L’arte povera non costituisce 
								un’eccezione in tal senso. Una volta ammessa la 
								positività della risposta alla domanda di 
								partenza, ovvero se l’arte povera sia mai 
								esistita, essa ne genererebbe almeno altre due: 
								quando e dove? La complessa ed itinerante 
								geografia di questo movimento, all’interno della 
								quale un ruolo fondamentale è giocato dalla 
								città di Torino, venne proposta da Celant già 
								nel 1976[7]: 
								in quel caso ne forniva anche riferimenti ad una 
								panoramica internazionale, ridiscussa di recente 
								da Lara Conte[8].
Per cercare di rispondere ai quesiti 
								sull’effettiva esistenza del movimento, in 
								termini di assonanze formali e di principi 
								condivisi, cercherò di partire dalle opere 
								d’arte stesse considerandole come il primo 
								documento, come dati portatori di un’evidenza 
								non soltanto formale ma capace di dare conto di 
								un network di relazioni e scambi alla base del 
								sistema dell’arte della cronologia di interesse; 
								nonché dalle considerazioni degli stessi autori. 
Le risposte alle domande che ci poniamo 
								sono in qualche modo sempre parziali, anche il 
								nostro punto di vista può contenere un margine 
								di errore e, nel caso dei protagonisti 
								coinvolti, anche una dose di parzialità o 
								distorsione dei fatti – è il rischio del resto 
								di ogni intervista, che va comunque 
								interpretata, ricalibrata e ricontestualizzata[9]. 
								Questo concetto assume un valore fondamentale 
								soprattutto quando le dichiarazioni e le 
								testimonianze dei protagonisti o degli eredi 
								coinvolti nelle vicende, nella maggior parte dei 
								casi ancora in vita, possono risultare 
								contraddittorie o dettate da interessi di natura 
								altra rispetto alla verità storica, con un 
								rischio molto alto di inattendibilità rispetto 
								ad una ricerca basata su di una ricostruzione 
								archivistica, che pure presenta inevitabili 
								lacune. 
Le opere assumono perciò una valenza 
								capace di orientare oltre ogni possibile 
								querelle – come vedremo tutt’altro che 
								infrequente all’interno della travagliata storia 
								di questo movimento – e di ristabilire 
								l’equilibrio tra immagine e interpretazione di 
								quella immagine. In questa sede mi riferirò 
								anche a quei momenti che definisco come 
								contestuali cioè le mostre, in cui le opere 
								vengono presentate al pubblico, agli altri 
								artisti e ai collezionisti. 
Farò particolare riferimento 
								all’attività dell’ancora poco investigato  
								Deposito D’Arte Presente, come curioso caso di 
								rimozione della memoria.
Questo testo si prefigge di offrire 
								dunque una riflessione sui problemi legati alla 
								categoria storiografica di movimento, nello 
								specifico, dell’arte povera. Come anticipato 
								precedentemente, vorrei iniziare questa 
								riflessione presentando due opere cartacee, 
								entrambe di Alighiero Boetti, poiché questo 
								artista fu uno dei pochi a tradurre la fitta 
								rete di relazioni tra gli artisti all’interno di 
								schemi visuali ed estetici[10]. 
								La prima si intitola Manifesto, realizzata nel 
								1967, anno come vedremo affatto insignificante. 
								Si tratta di un vero e proprio manifesto che 
								presenta un elenco composto da sedici cognomi di 
								artisti che non seguono un ordine alfabetico. 
								Rilevante ai fini del nostro discorso, il fatto 
								che Boetti abbia associato a ciascun cognome un 
								numero variabile da due a quattro simboli 
								astratti di natura geometrica, il significato 
								dei simboli non è indicato all’interno 
								dell’opera, bensì in un atto depositato da un 
								notaio con il vincolo di aprire il documento, 
								svelando così il mistero che si cela dietro quei 
								simboli, soltanto dopo un certo lasso di tempo 
								indicato dall’artista. Il notaio non è ancora 
								stato identificato, forse quell’atto non è stato 
								neppure scritto o depositato. In sintesi ancora 
								oggi non disponiamo della chiave che ci 
								consentirebbe la decifrazione dei simboli. 
								L’opera suggerisce però alcune considerazioni: 
								che Boetti conoscesse o avesse dei contatti più 
								o meno stretti con gli artisti contenuti 
								nell’elenco, che avesse visto, fosse venuto in 
								contatto con le opere all’interno di qualche 
								mostra; che avesse qualcosa da dire (un 
								pensiero, un giudizio, un apprezzamento, una 
								stroncatura) in merito all’artista, alla sua 
								opera o anche soltanto in merito alla sua 
								personalità. Infine che gli artisti fossero tra 
								loro in qualche modo collegati e che esistessero 
								delle relazioni o addirittura un sorta di 
								gerarchia. Il 28 maggio 2011, nel corso 
								dell’“Alighiero e Boetti Day”, un evento 
								non-stop di dodici ore a cura di Luca Cerizza, 
								Massimiliano Gioni e Francesco Manacorda, viene 
								data lettura di una lettera di Paolini 
								indirizzata a Boetti intitolata “A.B. & C.”. Il 
								nome di Paolini risulta essere il primo della 
								lista contenuta nel manifesto. Vi sono alcuni 
								punti del breve testo di Paolini che occorre 
								riprendere e che si riferiscono proprio 
								all’opera-manifesto. 
Quel manifesto – scrive Paolini –, 
								elenco muto e imparziale di una visione privata, 
								soggettiva e inespressa, annunciava però 
								paradossalmente una scelta di campo esplicita e 
								rigorosa: la considerazione che se di arte si 
								parla di artisti si tratta, e non di tutto il 
								resto [...].
Paolini nel suo breve scritto afferma 
								anche che proprio grazie a Boetti si rese conto 
								della «cerebralità, saputezza storica e 
								citazionismo enciclopedico» che 
								contraddistinguevano il suo fare artistico. 
								Paolini evidenzia un importante fattore che li 
								accomuna: la rincorsa alla semplicità.
Una semplicità intesa come fragile ma 
								sublime traguardo della complessità che occorre 
								sempre attraversare per cogliere il bersaglio 
								dell’opera da realizzare. Furono queste le 
								componenti che arricchirono il nostro 
								linguaggio: dico di proposito “arricchirono” con 
								esplicito riferimento ai materiali abituali dei 
								nostri colleghi artisti “poveristi” di quegli 
								anni.
Paolini giudica le sue opere, come 
								quelle di Boetti, molto lontane dal territorio 
								dell’arte povera; in effetti se si guarda ad 
								opere come Giovane che guarda Lorenzo Lotto 
								(1967), Autoritratto (1968) oppure la scultura 
								Elegia (1969)[11] 
								la distanza concettuale e stilistica appare 
								evidente. La seconda opera sulla quale vorrei 
								soffermarmi, è stata realizzata da Boetti l’anno 
								successivo, nel 1968, e si intitola Città di 
								Torino. Mostra un precocissimo interesse 
								dell’artista per le mappe che diventeranno, dopo 
								il primo soggiorno in Afghanistan nel 1971, un 
								motivo ricorrente che lo accompagnerà lungo il 
								suo percorso artistico, terminato con la morte 
								nel 1994. Nel dedalo viario urbano torinese 
								troviamo delle indicazioni prodotte al margine 
								della mappa, in stampatello con una biro blu, 
								che indicano gli indirizzi in cui si trovavano 
								gli atelier degli artisti[12]. 
								L’artista ci consegna quindi una sorta di 
								itinerario, una mappa per compiere un Grand Tour 
								dell’Arte Povera,  passando in rassegna i 
								vari luoghi all’interno dei quali venivano 
								pensate e realizzate le opere. Occorre però 
								notare che lo studio di almeno tre degli artisti 
								presenti in questo manifesto, ovvero Jannis 
								Kounellis, Mario Schifano e Pino Pascali, non si 
								trovavano a Torino ma a Roma. 
Questa considerazione permette di 
								questionare l’assoluta supremazia di Torino in 
								quanto centro produttivo e capitale indiscussa 
								dell’Arte Povera, immettendo anche Roma 
								all’interno di questo discorso, città dove Palma 
								Bucarelli in quegli stessi anni dirigeva la 
								Galleria Nazionale di Arte Moderna, dimostrando 
								un’apertura internazionale ma anche nei 
								confronti dei giovani artisti[13]. 
								Sempre a Roma si trovava la galleria L’Attico di 
								Fabio Sargentini, che nel 1966 dedicò una 
								personale a Pino Pascali e nel 1969 permise a 
								Jannis Kounellis di realizzare la celebre 
								installazione con dodici cavalli vivi[14]. 
Una galleria che, in quanto a 
								sperimentazione, era al pari di quella di Konrad 
								Fischer a Düsseldorf[15]. 
								Un rimando al gallerista tedesco non risulta 
								inappropriato dal momento che nel 1972 Fischer 
								intraprese, nel biennio successivo, una joint 
								venture con Gian Enzo Sperone proprio nella 
								capitale. Nel mese di febbraio del 1973, furono 
								organizzate due collettive che presentavano 
								lavori di artisti internazionali quali Buren, 
								Art & Language, Gilbert & George e Kosuth, 
								insieme ad opere di artisti dell’arte povera: 
								Anselmo, Boetti, Paolini e Penone, i quali 
								ebbero anche una personale nel corso del 
								medesimo anno.
L’importanza e la consistenza del 
								network con il suo fulcro a Torino ma in dialogo 
								con la capitale, come esemplificato nelle due 
								opere di Boetti, venne veicolato anche 
								attraverso il contributo di Celant, il quale si 
								impegnò sia sul versante letterario – nel 
								fissare quello che stava succedendo all’interno 
								della produzione artistica italiana, come 
								risposta o in dialogo con quanto accadeva nel 
								resto d’Europa e negli Stati Uniti, in 
								particolare rispetto all’arte concettuale, al 
								minimalismo e all’anti-form – che sul versante 
								organizzativo, impegnandosi in prima persona 
								nella realizzazione di diverse occasioni 
								espositive che servivano come piattaforma di 
								visibilità e momento di confronto per gli 
								artisti. 
Nel novembre del 1967, infatti, Celant 
								pubblica un breve articolo incendiario dal 
								titolo Arte Povera. Appunti per una guerriglia[16], 
								a due mesi di distanza dalla mostra Arte Povera 
								– Im Spazio presso la Galleria La Bertesca della 
								sua città natale, Genova. Si tratta della prima 
								mostra a presentare la dicitura «Arte Povera» e 
								che riflette sulla nozione di spazio e sulla 
								materialità, attraverso opere scultoree come 
								pile di tubi (Boetti), cubi pressati di terra (Pascali), 
								recipienti di acciaio riempiti di carbone (Kounellis). 
Non si può negare che Celant dimostrò 
								un formidabile fiuto e tempismo nell’inventare, 
								prima di altri, un’etichetta per un movimento in 
								un momento storico particolarmente ricettivo e 
								sensibile a determinate tematiche e che desse 
								conto della vivacità produttiva che si svolgeva 
								proprio sotto i suoi occhi, collegando le varie 
								personalità artistiche attorno a quell’aggettivo 
								povero, desunto dalle contemporanee indicazioni 
								teatrali di Jerzy Grotowski. 
Come sostiene Robert Lumley, prima del 
								2001 in ambiente anglosassone, «Arte Povera» non 
								era una definizione d’uso comune come è accaduto 
								invece per altre correnti, ma in Italia 
								l’etichetta era stata accettata senza sollevare 
								troppe questioni, almeno all’inizio. 
Si deve invece alla mostra Zero to 
								Infinity, Arte Povera 1962-1972, organizzata 
								congiuntamente dalla Tate Modern di Londra e dal 
								Walker Art Center di Minneapolis[17], 
								il merito di averne veicolato la conoscenza e la 
								diffusione all’interno del linguaggio dell’arte 
								contemporanea[18]; 
								occorre ricordare però che già nel 1985 fu 
								organizzata presso il P.S.1 una mostra. 
La vivacità creativa tipica di quel 
								decennio così eccezionale, fu sostenuta e 
								portata avanti da un sistema molto strutturato, 
								come avremo modo di vedere nel caso del Deposito 
								D’Arte Presente, per nulla alieno alle dinamiche 
								di mercato, una vera e propria struttura fatta 
								di gallerie – la Sperone[19] 
								e la Christian Stein[20] 
								in modo particolare – che poterono contare su 
								una solida base di collezionisti provenienti da 
								famiglie aristocratiche, dall’alta borghesia 
								imprenditoriale e da diverse categorie 
								professionali come medici o avvocati. In 
								un’ottica di contestazione secondo la quale 
								bisognava disprezzare il padrone-oppressore, il 
								manifesto di Celant tralascia volutamente quella 
								maglia socio-economica che sosteneva il progetto 
								culturale, poiché l’artista doveva sostituirsi 
								alla catena di montaggio imposta dal sistema 
								dell’arte. 
Eppure erano proprio i padroni gli 
								acquirenti privilegiati. Fin dagli esordi il 
								movimento era quindi connaturato da una dinamica 
								tensiva tra libertà espressiva e contenutistica 
								e logica mercantile.
Nel celebre testo, il critico dedica un 
								paragrafo a Michelangelo Pistoletto il quale, a 
								suo avviso in maniera più evidente rispetto ad 
								altri, si era posto il problema della libertà di 
								linguaggio e di coerenza stilistica, attraverso 
								la realizzazione, tra il 1965 ed il 1966, della 
								serie degli Oggetti in Meno. Una serie che 
								Pistoletto creò nel suo studio-abitazione di via 
								Raymond 13 e che si presentava nell’aspetto come 
								una collettiva, tanto erano dissimili tra loro 
								le opere: un presepe poggiato su una base di 
								cartone accartocciato, una rosa bruciata, una 
								struttura metallica come una balconata per 
								parlare in piedi, tavolo e sedie fatti con 
								cornici di legno appesi al muro, un sarcofago, 
								una lampada, una sfera di giornali pressata ecc. 
Ciascuno degli Oggetti in meno 
								rappresenta una sottrazione, un’estrazione dal 
								mucchio delle pressoché infinite possibilità 
								dalle quali un artista può attingere. Come ha di 
								recente annotato Gabriele Guercio
gli Oggetti in Meno sono chiaramente 
								evasivi in merito alla propria origine e 
								destinazione. Questa incertezza, però, è 
								curiosamente produttrice di senso. Induce a 
								riconoscere che l’opera eccede una 
								referenzialità autoriale come pure 
								l’applicazione o la valorizzazione di un 
								determinato saper-fare creativo[21].
Quindi l’autore riporta delle 
								dichiarazioni di Pistoletto, il quale aveva 
								rifiutato il suggerimento di Leo Castelli di 
								trasferirsi negli Stati Uniti che significava 
								far dipendere il successo della sua carriera in 
								relazione all’adesione ad un gruppo di artisti 
								rappresentati dal gallerista. Pistoletto rifiuta 
								e torna in Italia dove appunto realizza questa 
								serie, che si pone dunque in reazione a una 
								concezione di mercato e di dominio culturale che 
								imponeva l’affiliazione ad un clan.
Sulle analogie e sulle scatole chiuse
Appartenente agli Oggetti in meno è il 
								Metrocubo d’infinito, di cui esistono diverse 
								versioni prodotte e riutilizzate da Pistoletto a 
								posteriori: una viene distrutta davanti al 
								pubblico con l’ausilio di lunghi martelli e 
								occhiali protettivi all’interno del progetto 
								ARteATRO a Torino nel 1993, un’altra viene 
								inserita al centro dell’installazione che prende 
								il nome di Luogo multiconfessionale di 
								raccoglimento e preghiera, realizzato a 
								Marsiglia nel 2000[22]. 
								Ultima versione in ordine di tempo si trovava 
								inserita in un ambiente creato a Palazzo Grassi 
								in occasione della mostra curata da Francesco 
								Bonami Italics: Arte italiana tra tradizione e 
								rivoluzione: 1968-2008[23].
Nell’ambiente che si intitolava The 
								cubic meter of infinity in a mirroring cube, il 
								visitatore entrava in una stanza le cui pareti 
								ed il cui pavimento erano interamente rivestiti 
								di specchi e contornati da neon. In termini 
								strutturali, il Metrocubo d’infinito è 
								realizzato tramite l’accostamento di sei specchi 
								di un metro per lato, rivolti all’interno e 
								legati con dello spago per pacchi, in modo da 
								formare un cubo. 
Il centro dell’opera è un luogo 
								impenetrabile fisicamente e fruibile solo con il 
								pensiero, poiché se si provasse ad aprire il 
								cubo, allontanando così le facce degli specchi 
								si interromperebbe immediatamente quel dialogo o 
								meccanismo di riflessione all’infinito, che dà 
								il titolo all’opera. Il cubo nella sua finitezza 
								può in potenza contenere l’infinito al suo 
								interno come concetto, accettato razionalmente, 
								poiché alcuni angoli che sporgono dagli specchi 
								ci permettono di verificare che si tratta di 
								veri specchi, ma non arriviamo mai a verificare 
								la riflessione al suo interno. Oltretutto essa è 
								destinata ad un accesso meramente concettuale, 
								poiché all’interno il metrocubo è buio, privo di 
								illuminazione e noi sappiamo dalla nostra 
								esperienza quotidiana che la riflessione non è 
								realizzabile in assenza di luce e quindi nemmeno 
								la riflessione ad infinitum. Infatti, se 
								spegnessimo la luce di una stanza qualsiasi, non 
								vedremmo più gli arredi e nemmeno la nostra 
								faccia o sagoma riflessa nello specchio di 
								fronte a noi; lo stesso succederebbe se avessimo 
								due specchi, uno di fronte all’altro con uno 
								spazio nel mezzo tra i due. Conscio della 
								necessità della luce per la realizzazione della 
								riflessione speculare, Pistoletto inserisce 
								nella recente installazione di Palazzo Grassi 
								un’illuminazione al neon. Praticamente coeva al 
								Metrocubo è un’altra opera di Boetti che si 
								intitola Lampada annuale (1966). Si tratta di un 
								parallelepipedo, 76 x 37 x 37 cm, una scatola 
								rettangolare di legno, metallo verniciato e 
								vetro sulla sommità. Il vetro ci permette di 
								vedere che si tratta di un dispositivo elettrico 
								con una lampadina. In effetti, come esplicitato 
								nel titolo, si tratta di una lampada senza 
								interruttore, che quindi non si può accendere e 
								si attiva una sola volta l’anno per undici 
								secondi, regolata da un meccanismo e da leggi 
								interne stabilite dall’artista, che 
								l’osservatore non può vedere né controllare. 
								Statisticamente difficile trovarsi presenti in 
								quell’unico momento di accensione; il 
								funzionamento prescinde e non richiede dalla 
								presenza di un fruitore che anzi deve limitarsi, 
								secondo quanto stabilito da Boetti, a un 
								rapporto fiduciario con l’opera. 
Di fronte a questa opera si può 
								soltanto credere a quanto descritto nel suo 
								titolo: che sia una lampada e che, in quanto 
								tale, si accenderà, ma soltanto per undici 
								secondi una volta l’anno, ogni anno senza una 
								scadenza. 
Esattamente come avviene per il 
								Metrocubo: si deve credere alla riflessione 
								speculare senza poterne avere un’esperienza 
								diretta. Centrale per entrambe le opere, è 
								l’idea. Non avviene nulla quando siamo di fronte 
								a questi oggetti, eppure sono capaci di 
								attirarci con la loro carica concettuale 
								parlandoci di qualcosa che potrebbe avvenire in 
								potenza, ma anche di qualcosa che è stato 
								isolato dall’autore dell’opera, sia esso nel 
								tempo o nello spazio, ma che avviene a 
								prescindere da noi e dal tempo della nostra 
								fruizione.
Allo stato non vi è notizia di 
								documenti a sostegno dell’influenza degli 
								Oggetti in meno sulle prime sculture di Boetti 
								realizzate dal 1966 al 1968, per quanto il 
								paragone ed una relazione sia stilisticamente 
								sostenibile e cronologicamente plausibile. 
Se guardiamo alla documentazione 
								fotografica della prima personale di Boetti alla 
								Galleria Christian Stein nel 1967, la vicinanza 
								formale con le foto dello studio di Pistoletto 
								occupato dagli Oggetti in meno impressiona. 
								Anche se guardiamo la foto dell’allestimento 
								presentato dall’artista nel 1968 in occasione 
								della mostra di Amalfi ritroviamo la stessa 
								logica di accumulazione: sopra un telone bianco, 
								che aveva la funzione di delimitare il perimetro 
								dell’intervento, erano infatti collocati vari 
								oggetti quali sedie, una pianta, dei pezzi di 
								legno, un rotolo di filo di rame di grandi 
								dimensioni. 
L’artista prese le distanze da questa 
								installazione arrivando a paragonare alcuni 
								momenti dell’Arte Povera a una drogheria. 
La risposta di Boetti fu quella di 
								ripartire in qualche modo da zero: con fogli 
								quadrettati e matita, abbandonò Torino per Kabul 
								e quindi Kabul per stabilirsi a Roma. Sulla 
								stessa linea di distacco, Pistoletto e il suo 
								collettivo “Lo Zoo” scrissero una lettera, il 5 
								dicembre 1968, indirizzata a Marcello Rumma, 
								collezionista e editore che aveva coinvolto 
								Celant nell’esperienza di Amalfi. 
Nella lettera si legge:
Ecco ora il pensiero dello Zoo che ad 
								Amalfi ha presentato L’Uomo ammaestrato: Noi non 
								aderiamo, non facciamo parte e non accettiamo il 
								termine arte povera benché amiamo gli amici con 
								cui ci siamo trovati ad Amalfi[24].
Per tornare al fuoco di questo saggio, 
								vi sono due domande da porre. Individuare ed 
								evidenziare le analogie concettuali e formali 
								tra le opere realizzate in uno stesso periodo – 
								persino nella stessa città – dagli artisti 
								appartenenti a uno stesso movimento – secondo la 
								costruzione letteraria di un critico militante – 
								può supportare la tesi del movimento stesso? È 
								possibile, procedendo in questo modo ed 
								allargando questo metodo comparativo arrivare ad 
								ammettere l’evidenza e l’esistenza di una 
								categoria superiore alla quale queste opere 
								possono essere riferite?
Sui contrasti e le fratture
La situazione di straordinaria vitalità 
								dell’ultima generazione di artisti, il cui 
								lavoro, per il suo carattere di novità, ha in 
								Torino difficoltosi riscontri sul piano della 
								comprensione, ha sollecitato un gruppo di 
								persone a riunirsi per dare vita ad un “Centro” 
								che avrà la funzione di promuovere modelli di 
								informazione attiva presso un più vasto 
								pubblico. Tale Centro prende il nome di 
								“Deposito D’Arte Presente” “D.D.P.” e articolerà 
								la sua azione in manifestazioni diverse: mostre 
								personali e di gruppo – esperienze dirette tra 
								pubblico, artisti e critici d’arte – bollettino 
								periodico che dovrà servire di collegamento fra 
								l’iniziativa torinese ed altre affini nel mondo. 
								Il Centro sta allestendo una sede propria, che 
								sarà luogo di libero e cordiale incontro aperto 
								a tutte le persone interessate alle espressioni 
								più attuali dell’arte visuale. Le persone 
								interessate che, su invito dei Soci Fondatori, 
								aderiranno all’iniziativa, si impegnano a 
								corrispondere per un periodo di almeno 2 anni 
								una quota mensile di £. 10.000 sul c/c n- 6064 
								della Banca Mobiliare Piemontese (via 
								Arcivescovado n. 16)[25].
Questa la trascrizione del volantino, 
								che potrebbe essere definito di “reclutamento”, 
								del Deposito D’Arte Presente, al quale fanno 
								seguito i nomi di circa una cinquantina di Soci 
								Fondatori. 
L’idea di questo centro per l’arte 
								contemporanea era nato nell’estate del 1967 per 
								iniziativa di Marcello Levi, proprietario di 
								un’azienda tessile ma la cui vera passione era 
								collezionare arte moderna e contemporanea. 
Levi frequentava la galleria di Gian 
								Enzo Sperone dove ebbe modo di familiarizzare 
								con il lavoro di artisti locali ma anche di 
								artisti statunitensi – in considerazione della 
								collaborazione con Sonnabend-Castelli e Fischer 
								–, così decise di coinvolgere il gallerista e il 
								critico d’arte Luigi Carluccio, il quale divenne 
								il presidente dell’associazione. 
La scelta del luogo ricadde su un’ex 
								concessionaria di automobili di 450 metri 
								quadrati, in via San Fermo numero 3, una via 
								residenziale vicino Corso Fiume, al di fuori 
								quindi del circuito di gallerie. 
Il progetto era mirato a sostenere e 
								presentare i talenti locali, offrendo spazio 
								soprattutto ai giovani che non possedevano un 
								proprio studio per sperimentare nuovi materiali 
								o produrre installazioni particolarmente grandi, 
								come nel caso di Zorio allora ventitreenne 
								oppure Penone allora ventunenne. 
Allo stesso tempo veniva offerta anche 
								una piattaforma mondana dove entrare in contatto 
								con collezionisti, che potevano quindi 
								sostenerli acquistando le opere; questa 
								considerazione non deve stupire dal momento che 
								Sperone non era l’unico gallerista a comparire 
								nell’elenco dei Soci Fondatori, all’interno dei 
								quali figurava anche Christian Stein. 
Del Deposito oggi esistono pochi scatti 
								di vedute di insieme in bianco e nero. Lo spazio 
								ci appare svuotato dalla presenza umana ma 
								affastellato di opere, le quali sembrano 
								gareggiare tra loro in quanto a tensione tra 
								materialità ed una nuova forma di monumentalità 
								non gerarchica. 
Quello che non viene trasmesso dalle 
								foto, è lo scambio, il confronto che in questo 
								spazio si svolgeva tra gli artisti e i critici, 
								tra autopromozione e presentazione ai 
								collezionisti. 
Altro fatto curioso da notare era che 
								Germano Celant non fosse stato coinvolto in 
								questo progetto di grande qualità ma caduto in 
								qualche modo nell’oblio. Eppure al Deposito 
								esposero tutti gli artisti individuati dal 
								critico, con la sola esclusione di Pino Pascali 
								che aveva fissato – come già è stato esposto – 
								la propria base a Roma, e con l’aggiunta di 
								Paolo Icaro e Ugo Nespolo.
Alla fine del novembre del 1968 accade 
								un fatto che in qualche modo segnerà la fine del 
								D.D.P. Pier Paolo Pasolini era stato invitato 
								dal Teatro Stabile di Torino a presentare la sua 
								nuova opera Orgia. L’artista aveva accettato ma 
								aveva richiesto di allestire l’opera in uno 
								spazio non tradizionale. A quel punto gli venne 
								offerto proprio il Deposito, che per l’occasione 
								venne svuotato e al posto delle opere furono 
								collocate panche di legno, per sostituire le 
								poltrone di velluto del teatro borghese che 
								Pasolini attaccava. Sul piccolo palcoscenico con 
								una scenografia disegnata da Mario Ceroli, 
								trovano posto soltanto tre attori: un uomo una 
								donna e una ragazza; si trattava di una dramma 
								senza azioni, soltanto parola e ricordo. Gli 
								artisti si sentirono oltraggiati e per protesta 
								rinchiusero Pasolini in una stanza, 
								contestandolo. 
L’intromissione dall’alto del Teatro 
								Stabile, in quanto istituzione pubblica esterna 
								e che tra l’altro già disponeva di uno spazio, 
								questa intromissione insieme alla disponibilità 
								dei Soci Fondatori ad aprire lo spazio a 
								progetti esterni al circolo di artisti, furono 
								percepite da questi ultimi come mosse che 
								limitavano la libertà di disporre dello spazio. 
								Nell’aprile del 1969, cioè allo scadere del 
								primo biennio di affitto lo spazio venne chiuso 
								e l’associazione si sciolse. Questo progetto 
								come del resto altri legati all’Arte Povera sul 
								finire degli anni Sessanta, meriterebbero una 
								più attenta ricognizione storica e critica, che 
								ancora oggi manca, anche a causa della 
								dispersione dei documenti in particolare del 
								bollettino e di tutte le pubblicazioni collegate 
								all’attività del D.D.P., o della difficoltà di 
								capire a quale archivio riferirsi, quando gli 
								archivi ancora non esistono, si stanno appena 
								formando oppure sono ancora privati. 
Molti studiosi si stanno interrogando 
								sull’arbitrarietà dell’etichetta e su una sua 
								contestualizzazione fondata anche sulla storia 
								delle esposizioni tra la fine degli anni 
								Sessanta e gli anni Settanta. Nonostante ciò il 
								processo di musealizzazione risulta avviato e 
								l’arte povera viene rincorsa dai principali 
								musei del mondo, sotto forma di mostre-evento ma 
								anche di acquisizioni. 
Del resto è stato così fin dagli esordi 
								del movimento e l’ingenuità dei discorsi 
								celantiani della prima ora, della contestazione 
								del sistema capitalistico, devono essere 
								accompagnati da uno studio sulle gallerie che 
								supportavano il movimento da un punto di vista 
								tanto mercantile che collezionistico. 
Questo solido sistema ha permesso, 
								insieme alle mostre, la fortuna dell’etichetta, 
								che deve molto all’impegno di Celant come 
								project manager più che come teorico.
Finché gli studiosi non potranno 
								consultare il suo archivio privato, le 
								corrispondenze anche scomode, oppure ricostruire 
								la spinosa questione dei falsi – che nel caso di 
								Boetti ad esempio sembrano proliferare –, ma 
								anche i registri contabili delle gallerie non 
								sarà possibile valutare effettivamente questo 
								fenomeno, che ad oggi appare come un romanzo, 
								fondamentalmente cristallizzato, della durata di 
								oltre quaranta anni.
________________________
																
																
																[1]          
																La studiosa 
																americana inizia 
																ad interessarsi 
																al fenomeno per 
																la sua tesi di 
																dottorato 
																condotta alla 
																Columbia 
																University. La 
																prima 
																pubblicazione 
																sul movimento 
																risale infatti 
																al 2001. C. 
																Gilman, Arte 
																Povera. 
																
																Selections from 
																the Sonnabend 
																Collection, 
																Wallach Art 
																Gallery - 
																Columbia 
																University 
																Press, New York 
																2001.
																
																
																[2]         
																C. 
																Gilman 
																(edited by), 
																Postwar Italian 
																Art. A Special 
																Issue, in 
																“October”, n. 
																124, Spring 
																2008, The MIT 
																Press. 
																In parte 
																in risposta al 
																tentativo di 
																Gilman e forse 
																il primo 
																tentativo di 
																problematizzare 
																l’arte italiana 
																dal 1960 in 
																avanti, viene 
																pubblicato a 
																cura di Gabriele 
																Guercio e Anna 
																Mattirolo un 
																testo che 
																riunisce voci 
																tanto italiane 
																quanto 
																internazionali. 
																Cfr. Il confine 
																evanescente. 
																Arte Italiana 
																1960-2010, 
																Electa, Milano 
																2010.
																
																
																[3]          
																Per una 
																panoramica sulla 
																produzione 
																iniziale 
																dell’artista 
																rimando al testo 
																E. Charans, 
																Oltre il muro: 
																l’aspetto 
																partecipativo 
																nell’opera di 
																Michelangelo 
																Pistoletto, in 
																“Ricerche di 
																S/Confine”, Vol. 
																II, n. 1, 2011, 
																pp. 89-104.
																
																
																[4]          
																La mostra di 
																Amalfi, che tra 
																l’altro 
																presentava un 
																catalogo 
																pubblicato a 
																posteriori 
																l’anno 
																successivo a 
																Salerno da 
																Marcello Rumma – 
																gallerista, 
																collezionista e 
																promotore 
																dell’iniziativa 
																giunta alla sua 
																terza edizione 
																con una prima a 
																cura di Renato 
																Barilli – era 
																stata preceduta 
																da una strategia 
																espositiva 
																attuata da 
																Celant e basata 
																su una serie di 
																mostre 
																collettive in 
																gallerie 
																private: Arte 
																Povera - Im 
																Spazio 
																(settembre-ottobre 
																1967) presso la 
																galleria La 
																Bertesca di 
																Genova – la 
																prima ad 
																impiegare la 
																dicitura del 
																movimento – e 
																Arte Povera 
																(febbraio-marzo 
																1968) presso la 
																Galleria de’ 
																Foscherari di 
																Bologna, 
																entrambe 
																accompagnate da 
																catalogo edito 
																dalle gallerie.
																
																
																[5]          
																Per le 
																specifiche del 
																fitto programma 
																rimando al sito 
																http://www.artepovera2011.org/ 
																e alle due 
																pubblicazioni di 
																accompagnamento: 
																G. Celant, Arte 
																Povera 2011, 
																Electa, Milano 
																2011 e G. Celant, 
																Arte povera. 
																Storia e Storie, 
																Electa, Milano 
																2011. 
																Quest’ultimo 
																volume raccoglie 
																e ripubblica 
																tutti gli 
																scritti di 
																Celant apparsi 
																su riviste o 
																cataloghi e 
																costituisce un 
																aggiornamento 
																rispetto al 
																similare volume 
																G. Celant, Arte 
																Povera, storie e 
																protagonisti, 
																Electa, Milano 
																1985. 
																
																
																[6]          
																The Knot Arte 
																Povera at P.S.1, 
																a cura di G. 
																Celant, (New 
																York, 6 
																ottobre-15 
																dicembre 1985), 
																Umberto 
																Allemandi, 
																Torino 1985.
																
																
																[7]          
																G. Celant, 
																Precronistoria 
																1966-1969: 
																minimal art, 
																pittura 
																sistemica, arte 
																povera, land 
																art, conceptual 
																art, body art, 
																arte ambientale 
																e nuovi media, 
																Centro Di, 
																Firenze 1976.
																
																
																[8]          
																L. Conte, 
																Materia, corpo, 
																azione 
																1966-1970, 
																Electa, Milano 
																2010.
																
																
																[9]          
																Sull’argomento 
																si vedano i vari 
																contributi 
																contenuti in 
																Costruire il 
																dispositivo 
																storico. Tra 
																fonti e 
																documenti, a 
																cura di J. 
																Gudelj, P. 
																Nicolin, Bruno 
																Mondadori, 
																Milano 2006.
																
																
																[10]         
																La prima 
																personale di 
																Boetti venne 
																organizzata 
																presso la 
																galleria 
																Christian Stein 
																di Torino nel 
																gennaio del 1967 
																a cui seguì, nel 
																dicembre dello 
																stesso anno, 
																quella 
																organizzata 
																presso la 
																Galleria La 
																Bertesca di 
																Genova; 
																quest’ultima era 
																accompagnata da 
																un catalogo con 
																testi di Celant, 
																Henry Marin e 
																Tommaso Trini: 
																Alighiero Boetti 
																(Genova, 
																dicembre 1967), 
																Edizioni Masnata/Trentalance, 
																Genova 1967.
																
																
																[11]         
																Consultabili sul 
																sito 
																dell’artista 
																http://www.fondazionepaolini.it/opere.php; 
																per qualsiasi 
																approfondimento 
																sull’opera 
																dell’artista, si 
																rimanda a M. 
																Disch, Giulio 
																Paolini. 
																Catalogo 
																ragionato 
																1960-1999, Skira, 
																Milano 2008.
																
																
																[12]         
																Gli atelier 
																erano 
																rispettivamente 
																quelli di Merz, 
																Piacentino, 
																Zorio, Anselmo, 
																Pistoletto e 
																Paolini.
																
																
																[13]         
																Sulla gestione 
																Bucarelli si 
																veda M. Margozzi, 
																Palma Bucarelli: 
																il museo come 
																avanguardia, 
																catalogo della 
																mostra (Roma, 26 
																giugno-1 
																novembre 2009), 
																Electa, Milano 
																2009.
																
																
																[14]         
																F. Sargentini, 
																R. Lambarelli, 
																L. Masina, 
																L’Attico 
																1957-1987. 
																Trenta anni di 
																pittura, 
																scultura, 
																musica, danza, 
																performance, 
																video, catalogo 
																della mostra 
																(Spoleto, 1 
																luglio-30 agosto 
																1987), 
																Mondadori-De 
																Luca, 
																Milano-Roma 
																1987.
																
																
																[15]         
																Una disamina 
																dell’attività di 
																Fischer permette 
																di spiegare la 
																fortuna 
																collezionistica 
																di Mario Merz, 
																ad esempio, in 
																ambiente tedesco 
																e più in 
																generale nel 
																Nord Europa.
																
																
																A riguardo si 
																veda S. 
																Richard, 
																Unconcealed. The 
																International 
																Network of 
																Conceptual 
																Artists 1967-77.
																
																Dealers, 
																Exhibitions and 
																Public 
																Collection, 
																Ridinghouse, 
																Londra 2009. 
																Sull’attività 
																della galleria 
																di Fischer si 
																rimanda invece 
																alla 
																pubblicazione 
																che contiene le 
																documentazione 
																fotografica 
																degli 
																allestimenti, 
																spesso 
																site-specific: 
																Ausstellungen 
																bei Konrad 
																Fischer: 
																Düsseldorf 
																Oktober 1967 – 
																Oktober 1992, 
																Edition Marzona, 
																Bielefeld 1993; 
																oppure al 
																recente catalogo 
																AA.VV., With a 
																probability of 
																Being Seen: 
																Dorothee and 
																Konrad Fischer. 
																Archives of an 
																Attitude, 
																catalogo della 
																mostra 
																(Barcellona, 15 
																maggio-12 
																ottobre 2010), 
																Museum d’Art 
																Contemporani de 
																Barcelona 2010.
																
																
																[16]         
																G. Celant, Arte 
																Povera. Appunti 
																per una 
																guerriglia, in 
																“Flash Art”, n. 
																5, 
																novembre-dicembre 
																1967, p. 3.
																
																
																[17]        
																R. 
																Flood, F. Morris, 
																Zero to 
																infinity: arte 
																povera 
																1962-1972, 
																Walker Art 
																Center – Tate 
																Modern, 2001. 
																 
																
																
																[18]         
																R. Lumley, Arte 
																Povera a Torino: 
																l’intrigante 
																caso del 
																Deposito d’Arte 
																Presente, in 
																Marcello Levi: 
																ritratto di un 
																collezionista 
																dal Futurismo 
																all’arte povera, 
																catalogo della 
																mostra (Londra, 
																14 settembre-18 
																dicembre 2005), 
																Hopefulmonster, 
																Torino 2005.
																
																
																[19]         
																Si rimanda alla 
																storia della 
																galleria 
																contenuta in 
																Gian Enzo 
																Sperone: Torino, 
																Roma, New York. 
																35 anni di 
																mostre tra 
																Europa e 
																America, 
																Hopefulmonster, 
																Torino 2000.
																
																
																[20]         
																B. Della Casa, 
																Collezione 
																Christian Stein. 
																Una storia 
																d’arte italiana, 
																catalogo della 
																mostra (Lugano 
																12 marzo-15 
																maggio 2011), 
																Electa, Milano 
																2010.
																
																
																[21]         
																G. Guercio, 
																L’opera d’arte e 
																il divenire 
																generico del 
																creativo. Cinque 
																momenti 
																“italiani”?, in 
																Il confine 
																evanescente. 
																Arte italiana 
																1960-2010, 
																Electa, Milano 
																2010, p. 348.
																
																
																[22]         
																M. Farano, M.C. 
																Mundici, M.T. 
																Roberto, 
																Michelangelo 
																Pistoletto. Il 
																varco dello 
																specchio. Azioni 
																e collaborazioni 
																1967-2004, 
																Edizioni 
																Fondazione 
																Torino Musei, 
																Torino 2005.
																
																
																[23]         
																Questa mostra, 
																la prima e forse 
																la più riuscita 
																nel ripensare a 
																partire dalle 
																opere d’arte gli 
																ultimi quaranta 
																anni di storia 
																italiana, fu 
																capace di 
																attirarsi 
																critiche ancora 
																prima 
																dell’inaugurazione, 
																probabilmente 
																poiché proponeva 
																un vero 
																rimescolamento 
																secondo una 
																logica tematica 
																e non più 
																sottomettendosi 
																alla logica del 
																movimento F. 
																Bonami, Italics: 
																Arte italiana 
																fra tradizione e 
																innovazione 
																1968-2008, 
																catalogo della 
																mostra (Venezia, 
																27 settembre 
																2008-22 marzo 
																2009), Electa, 
																Milano 2008. 
																Jannis Kounellis 
																ritirò una sua 
																opera dalla 
																mostra 
																(Scarpette 
																d’oro, 1971). 
																Come dichiarava 
																Bonami in un 
																articolo «Tutta 
																questa 
																confusione 
																dimostra una 
																cosa: c’è una 
																lobby di potere 
																che mette 
																l’energia solo 
																per bloccare. 
																[...] se non 
																appartieni alla 
																“Famiglia” di 
																Bonito Oliva o 
																di Celant, non 
																puoi e non devi 
																fare niente». In 
																G. Colin, Bonami: 
																«Meglio io di 
																certi artisti». 
																Il curatore di 
																Italics: se non 
																stai con Bonito 
																Oliva o Celant 
																hai chiuso, in 
																“Corriere della 
																Sera”, 19 
																settembre 2008, 
																p. 54.
																
																
																[24]         
																In Michelangelo 
																Pistoletto. 
																Azioni 
																materiali, 
																catalogo della 
																mostra 
																(Innsbruck, 11 
																agosto – 10 
																ottobre 1999), 
																König, Colonia 
																1999, p. 66.
																
																
																[25]         
																R. Lumley, Arte 
																Povera a Torino…, 
																p. 22.

