Nella primavera del 2008 viene
pubblicato un numero speciale della rivista “October”,
edito da Claire Gilman[1],
dal titolo Postwar Italian Art che presenta una
panoramica di riflessioni da parte di studiosi
ed esperti internazionali di arte italiana del
Dopoguerra: dall’opera di Alberto Burri e Lucio
Fontana all’arte povera, esaminando in
particolare la produzione di Giovanni Anselmo,
Alighiero Boetti, Marisa Merz e Michelangelo
Pistoletto[2].
A nessun italiano viene richiesto un contributo
e questo per spezzare forse il sistema delle
solite penne, quella tirannia di pensiero che
sembra perdurare in Italia, che Gilman poteva
finalmente bipassare – per assecondarne un’altra
forse persino più potente, diranno alcuni –
dettato dalle Università della East Coast
(Columbia, Harvard e Princeton). La
pubblicazione risulta capace di innescare un
vortice di interesse e di parziale restyling
volto a sottolinearne i collegamenti con il
contesto storico di diffusa contestazione e i
riferimenti multidisciplinari al mondo culturale
italiano. Il numero speciale viene seguito da
due mostre monografiche: nel 2010 Michelangelo
Pistoletto. Da uno a molti 1956-2011, curata da
Carlos Basualdo e co-prodotto dal Philadelphia
Museum of Art e dal MAXXI[3],
e nel 2012 Alighiero Boetti. Game Plan, curata
da Mark Godfrey, esito di una collaborazione tra
Museum of Modern Art di New York, il Reina Sofia
di Madrid e la Tate Modern di Londra.
L’esposizione di Boetti rappresenta per
l’istituzione inglese «la prima retrospettiva
dedicata ad un artista dell’arte povera», come
si legge all’interno del comunicato stampa,
sebbene l’artista stesso abbia preso le distanze
dal movimento già a partire dal 1968, ovvero in
seguito alla sua partecipazione alla mostra
amalfitana RA3 Arte Povera + Azioni Povere[4].
In mezzo a queste due mostre trova
posto un complesso progetto espositivo,
accompagnato da due pubblicazioni, a cura del
medesimo critico-ideatore del movimento Germano
Celant, che ha visto coinvolti da nord a sud i
principali musei d’arte contemporanea italiani[5].
In Italia nulla di nuovo sotto il sole, tutto
immutato come da quell’ormai lontano 1967: lo
stesso critico, all’incirca gli stessi artisti
ad essere presentati; del resto si dirà che
l’arte povera è un movimento storicizzato, ma
raramente si storicizza il critico insieme al
movimento, ritenendolo quasi come un fattore
insostituibile, come si trattasse di un creatore
tra i creatori. Sulla scorta di questi eventi –
editoriali e curatoriali – ritengo fondamentale
riproporre la medesima basilare questione,
esplicitata attraverso il quesito del titolo di
questo intervento, ma già sollevata da Alanna
Heiss nel 1985, in occasione della mostra del
movimento organizzata – ancora una volta da
Celant – presso il P.S.1 di New York.
Nell’introduzione al catalogo, la
storica direttrice sostiene che sarebbe un
errore considerare i dodici artisti facenti capo
al movimento, come un gruppo dedicato a
promuovere il messaggio dell’arte povera. In
effetti lo scetticismo di Heiss si lega
all’annoso problema di classificare gli artisti
all’interno di un movimento, paragonabile alle
stesse inadeguatezze tematiche che riguardano la
Pop Art o il Minimalismo[6].
Certamente le etichette, pur nascendo
spesso con una valenza dispregiativa, posseggono
il dono della semplificazione manualistica
avvicinando in questo modo il pubblico a
questioni altrimenti difficili da afferrare. Ma
sono anche destinate, per la loro ineluttabile
genericità, a alimentare il dibattito
storico-artistico. L’arte povera non costituisce
un’eccezione in tal senso. Una volta ammessa la
positività della risposta alla domanda di
partenza, ovvero se l’arte povera sia mai
esistita, essa ne genererebbe almeno altre due:
quando e dove? La complessa ed itinerante
geografia di questo movimento, all’interno della
quale un ruolo fondamentale è giocato dalla
città di Torino, venne proposta da Celant già
nel 1976[7]:
in quel caso ne forniva anche riferimenti ad una
panoramica internazionale, ridiscussa di recente
da Lara Conte[8].
Per cercare di rispondere ai quesiti
sull’effettiva esistenza del movimento, in
termini di assonanze formali e di principi
condivisi, cercherò di partire dalle opere
d’arte stesse considerandole come il primo
documento, come dati portatori di un’evidenza
non soltanto formale ma capace di dare conto di
un network di relazioni e scambi alla base del
sistema dell’arte della cronologia di interesse;
nonché dalle considerazioni degli stessi autori.
Le risposte alle domande che ci poniamo
sono in qualche modo sempre parziali, anche il
nostro punto di vista può contenere un margine
di errore e, nel caso dei protagonisti
coinvolti, anche una dose di parzialità o
distorsione dei fatti – è il rischio del resto
di ogni intervista, che va comunque
interpretata, ricalibrata e ricontestualizzata[9].
Questo concetto assume un valore fondamentale
soprattutto quando le dichiarazioni e le
testimonianze dei protagonisti o degli eredi
coinvolti nelle vicende, nella maggior parte dei
casi ancora in vita, possono risultare
contraddittorie o dettate da interessi di natura
altra rispetto alla verità storica, con un
rischio molto alto di inattendibilità rispetto
ad una ricerca basata su di una ricostruzione
archivistica, che pure presenta inevitabili
lacune.
Le opere assumono perciò una valenza
capace di orientare oltre ogni possibile
querelle – come vedremo tutt’altro che
infrequente all’interno della travagliata storia
di questo movimento – e di ristabilire
l’equilibrio tra immagine e interpretazione di
quella immagine. In questa sede mi riferirò
anche a quei momenti che definisco come
contestuali cioè le mostre, in cui le opere
vengono presentate al pubblico, agli altri
artisti e ai collezionisti.
Farò particolare riferimento
all’attività dell’ancora poco investigato
Deposito D’Arte Presente, come curioso caso di
rimozione della memoria.
Questo testo si prefigge di offrire
dunque una riflessione sui problemi legati alla
categoria storiografica di movimento, nello
specifico, dell’arte povera. Come anticipato
precedentemente, vorrei iniziare questa
riflessione presentando due opere cartacee,
entrambe di Alighiero Boetti, poiché questo
artista fu uno dei pochi a tradurre la fitta
rete di relazioni tra gli artisti all’interno di
schemi visuali ed estetici[10].
La prima si intitola Manifesto, realizzata nel
1967, anno come vedremo affatto insignificante.
Si tratta di un vero e proprio manifesto che
presenta un elenco composto da sedici cognomi di
artisti che non seguono un ordine alfabetico.
Rilevante ai fini del nostro discorso, il fatto
che Boetti abbia associato a ciascun cognome un
numero variabile da due a quattro simboli
astratti di natura geometrica, il significato
dei simboli non è indicato all’interno
dell’opera, bensì in un atto depositato da un
notaio con il vincolo di aprire il documento,
svelando così il mistero che si cela dietro quei
simboli, soltanto dopo un certo lasso di tempo
indicato dall’artista. Il notaio non è ancora
stato identificato, forse quell’atto non è stato
neppure scritto o depositato. In sintesi ancora
oggi non disponiamo della chiave che ci
consentirebbe la decifrazione dei simboli.
L’opera suggerisce però alcune considerazioni:
che Boetti conoscesse o avesse dei contatti più
o meno stretti con gli artisti contenuti
nell’elenco, che avesse visto, fosse venuto in
contatto con le opere all’interno di qualche
mostra; che avesse qualcosa da dire (un
pensiero, un giudizio, un apprezzamento, una
stroncatura) in merito all’artista, alla sua
opera o anche soltanto in merito alla sua
personalità. Infine che gli artisti fossero tra
loro in qualche modo collegati e che esistessero
delle relazioni o addirittura un sorta di
gerarchia. Il 28 maggio 2011, nel corso
dell’“Alighiero e Boetti Day”, un evento
non-stop di dodici ore a cura di Luca Cerizza,
Massimiliano Gioni e Francesco Manacorda, viene
data lettura di una lettera di Paolini
indirizzata a Boetti intitolata “A.B. & C.”. Il
nome di Paolini risulta essere il primo della
lista contenuta nel manifesto. Vi sono alcuni
punti del breve testo di Paolini che occorre
riprendere e che si riferiscono proprio
all’opera-manifesto.
Quel manifesto – scrive Paolini –,
elenco muto e imparziale di una visione privata,
soggettiva e inespressa, annunciava però
paradossalmente una scelta di campo esplicita e
rigorosa: la considerazione che se di arte si
parla di artisti si tratta, e non di tutto il
resto [...].
Paolini nel suo breve scritto afferma
anche che proprio grazie a Boetti si rese conto
della «cerebralità, saputezza storica e
citazionismo enciclopedico» che
contraddistinguevano il suo fare artistico.
Paolini evidenzia un importante fattore che li
accomuna: la rincorsa alla semplicità.
Una semplicità intesa come fragile ma
sublime traguardo della complessità che occorre
sempre attraversare per cogliere il bersaglio
dell’opera da realizzare. Furono queste le
componenti che arricchirono il nostro
linguaggio: dico di proposito “arricchirono” con
esplicito riferimento ai materiali abituali dei
nostri colleghi artisti “poveristi” di quegli
anni.
Paolini giudica le sue opere, come
quelle di Boetti, molto lontane dal territorio
dell’arte povera; in effetti se si guarda ad
opere come Giovane che guarda Lorenzo Lotto
(1967), Autoritratto (1968) oppure la scultura
Elegia (1969)[11]
la distanza concettuale e stilistica appare
evidente. La seconda opera sulla quale vorrei
soffermarmi, è stata realizzata da Boetti l’anno
successivo, nel 1968, e si intitola Città di
Torino. Mostra un precocissimo interesse
dell’artista per le mappe che diventeranno, dopo
il primo soggiorno in Afghanistan nel 1971, un
motivo ricorrente che lo accompagnerà lungo il
suo percorso artistico, terminato con la morte
nel 1994. Nel dedalo viario urbano torinese
troviamo delle indicazioni prodotte al margine
della mappa, in stampatello con una biro blu,
che indicano gli indirizzi in cui si trovavano
gli atelier degli artisti[12].
L’artista ci consegna quindi una sorta di
itinerario, una mappa per compiere un Grand Tour
dell’Arte Povera, passando in rassegna i
vari luoghi all’interno dei quali venivano
pensate e realizzate le opere. Occorre però
notare che lo studio di almeno tre degli artisti
presenti in questo manifesto, ovvero Jannis
Kounellis, Mario Schifano e Pino Pascali, non si
trovavano a Torino ma a Roma.
Questa considerazione permette di
questionare l’assoluta supremazia di Torino in
quanto centro produttivo e capitale indiscussa
dell’Arte Povera, immettendo anche Roma
all’interno di questo discorso, città dove Palma
Bucarelli in quegli stessi anni dirigeva la
Galleria Nazionale di Arte Moderna, dimostrando
un’apertura internazionale ma anche nei
confronti dei giovani artisti[13].
Sempre a Roma si trovava la galleria L’Attico di
Fabio Sargentini, che nel 1966 dedicò una
personale a Pino Pascali e nel 1969 permise a
Jannis Kounellis di realizzare la celebre
installazione con dodici cavalli vivi[14].
Una galleria che, in quanto a
sperimentazione, era al pari di quella di Konrad
Fischer a Düsseldorf[15].
Un rimando al gallerista tedesco non risulta
inappropriato dal momento che nel 1972 Fischer
intraprese, nel biennio successivo, una joint
venture con Gian Enzo Sperone proprio nella
capitale. Nel mese di febbraio del 1973, furono
organizzate due collettive che presentavano
lavori di artisti internazionali quali Buren,
Art & Language, Gilbert & George e Kosuth,
insieme ad opere di artisti dell’arte povera:
Anselmo, Boetti, Paolini e Penone, i quali
ebbero anche una personale nel corso del
medesimo anno.
L’importanza e la consistenza del
network con il suo fulcro a Torino ma in dialogo
con la capitale, come esemplificato nelle due
opere di Boetti, venne veicolato anche
attraverso il contributo di Celant, il quale si
impegnò sia sul versante letterario – nel
fissare quello che stava succedendo all’interno
della produzione artistica italiana, come
risposta o in dialogo con quanto accadeva nel
resto d’Europa e negli Stati Uniti, in
particolare rispetto all’arte concettuale, al
minimalismo e all’anti-form – che sul versante
organizzativo, impegnandosi in prima persona
nella realizzazione di diverse occasioni
espositive che servivano come piattaforma di
visibilità e momento di confronto per gli
artisti.
Nel novembre del 1967, infatti, Celant
pubblica un breve articolo incendiario dal
titolo Arte Povera. Appunti per una guerriglia[16],
a due mesi di distanza dalla mostra Arte Povera
– Im Spazio presso la Galleria La Bertesca della
sua città natale, Genova. Si tratta della prima
mostra a presentare la dicitura «Arte Povera» e
che riflette sulla nozione di spazio e sulla
materialità, attraverso opere scultoree come
pile di tubi (Boetti), cubi pressati di terra (Pascali),
recipienti di acciaio riempiti di carbone (Kounellis).
Non si può negare che Celant dimostrò
un formidabile fiuto e tempismo nell’inventare,
prima di altri, un’etichetta per un movimento in
un momento storico particolarmente ricettivo e
sensibile a determinate tematiche e che desse
conto della vivacità produttiva che si svolgeva
proprio sotto i suoi occhi, collegando le varie
personalità artistiche attorno a quell’aggettivo
povero, desunto dalle contemporanee indicazioni
teatrali di Jerzy Grotowski.
Come sostiene Robert Lumley, prima del
2001 in ambiente anglosassone, «Arte Povera» non
era una definizione d’uso comune come è accaduto
invece per altre correnti, ma in Italia
l’etichetta era stata accettata senza sollevare
troppe questioni, almeno all’inizio.
Si deve invece alla mostra Zero to
Infinity, Arte Povera 1962-1972, organizzata
congiuntamente dalla Tate Modern di Londra e dal
Walker Art Center di Minneapolis[17],
il merito di averne veicolato la conoscenza e la
diffusione all’interno del linguaggio dell’arte
contemporanea[18];
occorre ricordare però che già nel 1985 fu
organizzata presso il P.S.1 una mostra.
La vivacità creativa tipica di quel
decennio così eccezionale, fu sostenuta e
portata avanti da un sistema molto strutturato,
come avremo modo di vedere nel caso del Deposito
D’Arte Presente, per nulla alieno alle dinamiche
di mercato, una vera e propria struttura fatta
di gallerie – la Sperone[19]
e la Christian Stein[20]
in modo particolare – che poterono contare su
una solida base di collezionisti provenienti da
famiglie aristocratiche, dall’alta borghesia
imprenditoriale e da diverse categorie
professionali come medici o avvocati. In
un’ottica di contestazione secondo la quale
bisognava disprezzare il padrone-oppressore, il
manifesto di Celant tralascia volutamente quella
maglia socio-economica che sosteneva il progetto
culturale, poiché l’artista doveva sostituirsi
alla catena di montaggio imposta dal sistema
dell’arte.
Eppure erano proprio i padroni gli
acquirenti privilegiati. Fin dagli esordi il
movimento era quindi connaturato da una dinamica
tensiva tra libertà espressiva e contenutistica
e logica mercantile.
Nel celebre testo, il critico dedica un
paragrafo a Michelangelo Pistoletto il quale, a
suo avviso in maniera più evidente rispetto ad
altri, si era posto il problema della libertà di
linguaggio e di coerenza stilistica, attraverso
la realizzazione, tra il 1965 ed il 1966, della
serie degli Oggetti in Meno. Una serie che
Pistoletto creò nel suo studio-abitazione di via
Raymond 13 e che si presentava nell’aspetto come
una collettiva, tanto erano dissimili tra loro
le opere: un presepe poggiato su una base di
cartone accartocciato, una rosa bruciata, una
struttura metallica come una balconata per
parlare in piedi, tavolo e sedie fatti con
cornici di legno appesi al muro, un sarcofago,
una lampada, una sfera di giornali pressata ecc.
Ciascuno degli Oggetti in meno
rappresenta una sottrazione, un’estrazione dal
mucchio delle pressoché infinite possibilità
dalle quali un artista può attingere. Come ha di
recente annotato Gabriele Guercio
gli Oggetti in Meno sono chiaramente
evasivi in merito alla propria origine e
destinazione. Questa incertezza, però, è
curiosamente produttrice di senso. Induce a
riconoscere che l’opera eccede una
referenzialità autoriale come pure
l’applicazione o la valorizzazione di un
determinato saper-fare creativo[21].
Quindi l’autore riporta delle
dichiarazioni di Pistoletto, il quale aveva
rifiutato il suggerimento di Leo Castelli di
trasferirsi negli Stati Uniti che significava
far dipendere il successo della sua carriera in
relazione all’adesione ad un gruppo di artisti
rappresentati dal gallerista. Pistoletto rifiuta
e torna in Italia dove appunto realizza questa
serie, che si pone dunque in reazione a una
concezione di mercato e di dominio culturale che
imponeva l’affiliazione ad un clan.
Sulle analogie e sulle scatole chiuse
Appartenente agli Oggetti in meno è il
Metrocubo d’infinito, di cui esistono diverse
versioni prodotte e riutilizzate da Pistoletto a
posteriori: una viene distrutta davanti al
pubblico con l’ausilio di lunghi martelli e
occhiali protettivi all’interno del progetto
ARteATRO a Torino nel 1993, un’altra viene
inserita al centro dell’installazione che prende
il nome di Luogo multiconfessionale di
raccoglimento e preghiera, realizzato a
Marsiglia nel 2000[22].
Ultima versione in ordine di tempo si trovava
inserita in un ambiente creato a Palazzo Grassi
in occasione della mostra curata da Francesco
Bonami Italics: Arte italiana tra tradizione e
rivoluzione: 1968-2008[23].
Nell’ambiente che si intitolava The
cubic meter of infinity in a mirroring cube, il
visitatore entrava in una stanza le cui pareti
ed il cui pavimento erano interamente rivestiti
di specchi e contornati da neon. In termini
strutturali, il Metrocubo d’infinito è
realizzato tramite l’accostamento di sei specchi
di un metro per lato, rivolti all’interno e
legati con dello spago per pacchi, in modo da
formare un cubo.
Il centro dell’opera è un luogo
impenetrabile fisicamente e fruibile solo con il
pensiero, poiché se si provasse ad aprire il
cubo, allontanando così le facce degli specchi
si interromperebbe immediatamente quel dialogo o
meccanismo di riflessione all’infinito, che dà
il titolo all’opera. Il cubo nella sua finitezza
può in potenza contenere l’infinito al suo
interno come concetto, accettato razionalmente,
poiché alcuni angoli che sporgono dagli specchi
ci permettono di verificare che si tratta di
veri specchi, ma non arriviamo mai a verificare
la riflessione al suo interno. Oltretutto essa è
destinata ad un accesso meramente concettuale,
poiché all’interno il metrocubo è buio, privo di
illuminazione e noi sappiamo dalla nostra
esperienza quotidiana che la riflessione non è
realizzabile in assenza di luce e quindi nemmeno
la riflessione ad infinitum. Infatti, se
spegnessimo la luce di una stanza qualsiasi, non
vedremmo più gli arredi e nemmeno la nostra
faccia o sagoma riflessa nello specchio di
fronte a noi; lo stesso succederebbe se avessimo
due specchi, uno di fronte all’altro con uno
spazio nel mezzo tra i due. Conscio della
necessità della luce per la realizzazione della
riflessione speculare, Pistoletto inserisce
nella recente installazione di Palazzo Grassi
un’illuminazione al neon. Praticamente coeva al
Metrocubo è un’altra opera di Boetti che si
intitola Lampada annuale (1966). Si tratta di un
parallelepipedo, 76 x 37 x 37 cm, una scatola
rettangolare di legno, metallo verniciato e
vetro sulla sommità. Il vetro ci permette di
vedere che si tratta di un dispositivo elettrico
con una lampadina. In effetti, come esplicitato
nel titolo, si tratta di una lampada senza
interruttore, che quindi non si può accendere e
si attiva una sola volta l’anno per undici
secondi, regolata da un meccanismo e da leggi
interne stabilite dall’artista, che
l’osservatore non può vedere né controllare.
Statisticamente difficile trovarsi presenti in
quell’unico momento di accensione; il
funzionamento prescinde e non richiede dalla
presenza di un fruitore che anzi deve limitarsi,
secondo quanto stabilito da Boetti, a un
rapporto fiduciario con l’opera.
Di fronte a questa opera si può
soltanto credere a quanto descritto nel suo
titolo: che sia una lampada e che, in quanto
tale, si accenderà, ma soltanto per undici
secondi una volta l’anno, ogni anno senza una
scadenza.
Esattamente come avviene per il
Metrocubo: si deve credere alla riflessione
speculare senza poterne avere un’esperienza
diretta. Centrale per entrambe le opere, è
l’idea. Non avviene nulla quando siamo di fronte
a questi oggetti, eppure sono capaci di
attirarci con la loro carica concettuale
parlandoci di qualcosa che potrebbe avvenire in
potenza, ma anche di qualcosa che è stato
isolato dall’autore dell’opera, sia esso nel
tempo o nello spazio, ma che avviene a
prescindere da noi e dal tempo della nostra
fruizione.
Allo stato non vi è notizia di
documenti a sostegno dell’influenza degli
Oggetti in meno sulle prime sculture di Boetti
realizzate dal 1966 al 1968, per quanto il
paragone ed una relazione sia stilisticamente
sostenibile e cronologicamente plausibile.
Se guardiamo alla documentazione
fotografica della prima personale di Boetti alla
Galleria Christian Stein nel 1967, la vicinanza
formale con le foto dello studio di Pistoletto
occupato dagli Oggetti in meno impressiona.
Anche se guardiamo la foto dell’allestimento
presentato dall’artista nel 1968 in occasione
della mostra di Amalfi ritroviamo la stessa
logica di accumulazione: sopra un telone bianco,
che aveva la funzione di delimitare il perimetro
dell’intervento, erano infatti collocati vari
oggetti quali sedie, una pianta, dei pezzi di
legno, un rotolo di filo di rame di grandi
dimensioni.
L’artista prese le distanze da questa
installazione arrivando a paragonare alcuni
momenti dell’Arte Povera a una drogheria.
La risposta di Boetti fu quella di
ripartire in qualche modo da zero: con fogli
quadrettati e matita, abbandonò Torino per Kabul
e quindi Kabul per stabilirsi a Roma. Sulla
stessa linea di distacco, Pistoletto e il suo
collettivo “Lo Zoo” scrissero una lettera, il 5
dicembre 1968, indirizzata a Marcello Rumma,
collezionista e editore che aveva coinvolto
Celant nell’esperienza di Amalfi.
Nella lettera si legge:
Ecco ora il pensiero dello Zoo che ad
Amalfi ha presentato L’Uomo ammaestrato: Noi non
aderiamo, non facciamo parte e non accettiamo il
termine arte povera benché amiamo gli amici con
cui ci siamo trovati ad Amalfi[24].
Per tornare al fuoco di questo saggio,
vi sono due domande da porre. Individuare ed
evidenziare le analogie concettuali e formali
tra le opere realizzate in uno stesso periodo –
persino nella stessa città – dagli artisti
appartenenti a uno stesso movimento – secondo la
costruzione letteraria di un critico militante –
può supportare la tesi del movimento stesso? È
possibile, procedendo in questo modo ed
allargando questo metodo comparativo arrivare ad
ammettere l’evidenza e l’esistenza di una
categoria superiore alla quale queste opere
possono essere riferite?
Sui contrasti e le fratture
La situazione di straordinaria vitalità
dell’ultima generazione di artisti, il cui
lavoro, per il suo carattere di novità, ha in
Torino difficoltosi riscontri sul piano della
comprensione, ha sollecitato un gruppo di
persone a riunirsi per dare vita ad un “Centro”
che avrà la funzione di promuovere modelli di
informazione attiva presso un più vasto
pubblico. Tale Centro prende il nome di
“Deposito D’Arte Presente” “D.D.P.” e articolerà
la sua azione in manifestazioni diverse: mostre
personali e di gruppo – esperienze dirette tra
pubblico, artisti e critici d’arte – bollettino
periodico che dovrà servire di collegamento fra
l’iniziativa torinese ed altre affini nel mondo.
Il Centro sta allestendo una sede propria, che
sarà luogo di libero e cordiale incontro aperto
a tutte le persone interessate alle espressioni
più attuali dell’arte visuale. Le persone
interessate che, su invito dei Soci Fondatori,
aderiranno all’iniziativa, si impegnano a
corrispondere per un periodo di almeno 2 anni
una quota mensile di £. 10.000 sul c/c n- 6064
della Banca Mobiliare Piemontese (via
Arcivescovado n. 16)[25].
Questa la trascrizione del volantino,
che potrebbe essere definito di “reclutamento”,
del Deposito D’Arte Presente, al quale fanno
seguito i nomi di circa una cinquantina di Soci
Fondatori.
L’idea di questo centro per l’arte
contemporanea era nato nell’estate del 1967 per
iniziativa di Marcello Levi, proprietario di
un’azienda tessile ma la cui vera passione era
collezionare arte moderna e contemporanea.
Levi frequentava la galleria di Gian
Enzo Sperone dove ebbe modo di familiarizzare
con il lavoro di artisti locali ma anche di
artisti statunitensi – in considerazione della
collaborazione con Sonnabend-Castelli e Fischer
–, così decise di coinvolgere il gallerista e il
critico d’arte Luigi Carluccio, il quale divenne
il presidente dell’associazione.
La scelta del luogo ricadde su un’ex
concessionaria di automobili di 450 metri
quadrati, in via San Fermo numero 3, una via
residenziale vicino Corso Fiume, al di fuori
quindi del circuito di gallerie.
Il progetto era mirato a sostenere e
presentare i talenti locali, offrendo spazio
soprattutto ai giovani che non possedevano un
proprio studio per sperimentare nuovi materiali
o produrre installazioni particolarmente grandi,
come nel caso di Zorio allora ventitreenne
oppure Penone allora ventunenne.
Allo stesso tempo veniva offerta anche
una piattaforma mondana dove entrare in contatto
con collezionisti, che potevano quindi
sostenerli acquistando le opere; questa
considerazione non deve stupire dal momento che
Sperone non era l’unico gallerista a comparire
nell’elenco dei Soci Fondatori, all’interno dei
quali figurava anche Christian Stein.
Del Deposito oggi esistono pochi scatti
di vedute di insieme in bianco e nero. Lo spazio
ci appare svuotato dalla presenza umana ma
affastellato di opere, le quali sembrano
gareggiare tra loro in quanto a tensione tra
materialità ed una nuova forma di monumentalità
non gerarchica.
Quello che non viene trasmesso dalle
foto, è lo scambio, il confronto che in questo
spazio si svolgeva tra gli artisti e i critici,
tra autopromozione e presentazione ai
collezionisti.
Altro fatto curioso da notare era che
Germano Celant non fosse stato coinvolto in
questo progetto di grande qualità ma caduto in
qualche modo nell’oblio. Eppure al Deposito
esposero tutti gli artisti individuati dal
critico, con la sola esclusione di Pino Pascali
che aveva fissato – come già è stato esposto –
la propria base a Roma, e con l’aggiunta di
Paolo Icaro e Ugo Nespolo.
Alla fine del novembre del 1968 accade
un fatto che in qualche modo segnerà la fine del
D.D.P. Pier Paolo Pasolini era stato invitato
dal Teatro Stabile di Torino a presentare la sua
nuova opera Orgia. L’artista aveva accettato ma
aveva richiesto di allestire l’opera in uno
spazio non tradizionale. A quel punto gli venne
offerto proprio il Deposito, che per l’occasione
venne svuotato e al posto delle opere furono
collocate panche di legno, per sostituire le
poltrone di velluto del teatro borghese che
Pasolini attaccava. Sul piccolo palcoscenico con
una scenografia disegnata da Mario Ceroli,
trovano posto soltanto tre attori: un uomo una
donna e una ragazza; si trattava di una dramma
senza azioni, soltanto parola e ricordo. Gli
artisti si sentirono oltraggiati e per protesta
rinchiusero Pasolini in una stanza,
contestandolo.
L’intromissione dall’alto del Teatro
Stabile, in quanto istituzione pubblica esterna
e che tra l’altro già disponeva di uno spazio,
questa intromissione insieme alla disponibilità
dei Soci Fondatori ad aprire lo spazio a
progetti esterni al circolo di artisti, furono
percepite da questi ultimi come mosse che
limitavano la libertà di disporre dello spazio.
Nell’aprile del 1969, cioè allo scadere del
primo biennio di affitto lo spazio venne chiuso
e l’associazione si sciolse. Questo progetto
come del resto altri legati all’Arte Povera sul
finire degli anni Sessanta, meriterebbero una
più attenta ricognizione storica e critica, che
ancora oggi manca, anche a causa della
dispersione dei documenti in particolare del
bollettino e di tutte le pubblicazioni collegate
all’attività del D.D.P., o della difficoltà di
capire a quale archivio riferirsi, quando gli
archivi ancora non esistono, si stanno appena
formando oppure sono ancora privati.
Molti studiosi si stanno interrogando
sull’arbitrarietà dell’etichetta e su una sua
contestualizzazione fondata anche sulla storia
delle esposizioni tra la fine degli anni
Sessanta e gli anni Settanta. Nonostante ciò il
processo di musealizzazione risulta avviato e
l’arte povera viene rincorsa dai principali
musei del mondo, sotto forma di mostre-evento ma
anche di acquisizioni.
Del resto è stato così fin dagli esordi
del movimento e l’ingenuità dei discorsi
celantiani della prima ora, della contestazione
del sistema capitalistico, devono essere
accompagnati da uno studio sulle gallerie che
supportavano il movimento da un punto di vista
tanto mercantile che collezionistico.
Questo solido sistema ha permesso,
insieme alle mostre, la fortuna dell’etichetta,
che deve molto all’impegno di Celant come
project manager più che come teorico.
Finché gli studiosi non potranno
consultare il suo archivio privato, le
corrispondenze anche scomode, oppure ricostruire
la spinosa questione dei falsi – che nel caso di
Boetti ad esempio sembrano proliferare –, ma
anche i registri contabili delle gallerie non
sarà possibile valutare effettivamente questo
fenomeno, che ad oggi appare come un romanzo,
fondamentalmente cristallizzato, della durata di
oltre quaranta anni.
________________________
[1]
La studiosa
americana inizia
ad interessarsi
al fenomeno per
la sua tesi di
dottorato
condotta alla
Columbia
University. La
prima
pubblicazione
sul movimento
risale infatti
al 2001. C.
Gilman, Arte
Povera.
Selections from
the Sonnabend
Collection,
Wallach Art
Gallery -
Columbia
University
Press, New York
2001.
[2]
C.
Gilman
(edited by),
Postwar Italian
Art. A Special
Issue, in
“October”, n.
124, Spring
2008, The MIT
Press.
In parte
in risposta al
tentativo di
Gilman e forse
il primo
tentativo di
problematizzare
l’arte italiana
dal 1960 in
avanti, viene
pubblicato a
cura di Gabriele
Guercio e Anna
Mattirolo un
testo che
riunisce voci
tanto italiane
quanto
internazionali.
Cfr. Il confine
evanescente.
Arte Italiana
1960-2010,
Electa, Milano
2010.
[3]
Per una
panoramica sulla
produzione
iniziale
dell’artista
rimando al testo
E. Charans,
Oltre il muro:
l’aspetto
partecipativo
nell’opera di
Michelangelo
Pistoletto, in
“Ricerche di
S/Confine”, Vol.
II, n. 1, 2011,
pp. 89-104.
[4]
La mostra di
Amalfi, che tra
l’altro
presentava un
catalogo
pubblicato a
posteriori
l’anno
successivo a
Salerno da
Marcello Rumma –
gallerista,
collezionista e
promotore
dell’iniziativa
giunta alla sua
terza edizione
con una prima a
cura di Renato
Barilli – era
stata preceduta
da una strategia
espositiva
attuata da
Celant e basata
su una serie di
mostre
collettive in
gallerie
private: Arte
Povera - Im
Spazio
(settembre-ottobre
1967) presso la
galleria La
Bertesca di
Genova – la
prima ad
impiegare la
dicitura del
movimento – e
Arte Povera
(febbraio-marzo
1968) presso la
Galleria de’
Foscherari di
Bologna,
entrambe
accompagnate da
catalogo edito
dalle gallerie.
[5]
Per le
specifiche del
fitto programma
rimando al sito
http://www.artepovera2011.org/
e alle due
pubblicazioni di
accompagnamento:
G. Celant, Arte
Povera 2011,
Electa, Milano
2011 e G. Celant,
Arte povera.
Storia e Storie,
Electa, Milano
2011.
Quest’ultimo
volume raccoglie
e ripubblica
tutti gli
scritti di
Celant apparsi
su riviste o
cataloghi e
costituisce un
aggiornamento
rispetto al
similare volume
G. Celant, Arte
Povera, storie e
protagonisti,
Electa, Milano
1985.
[6]
The Knot Arte
Povera at P.S.1,
a cura di G.
Celant, (New
York, 6
ottobre-15
dicembre 1985),
Umberto
Allemandi,
Torino 1985.
[7]
G. Celant,
Precronistoria
1966-1969:
minimal art,
pittura
sistemica, arte
povera, land
art, conceptual
art, body art,
arte ambientale
e nuovi media,
Centro Di,
Firenze 1976.
[8]
L. Conte,
Materia, corpo,
azione
1966-1970,
Electa, Milano
2010.
[9]
Sull’argomento
si vedano i vari
contributi
contenuti in
Costruire il
dispositivo
storico. Tra
fonti e
documenti, a
cura di J.
Gudelj, P.
Nicolin, Bruno
Mondadori,
Milano 2006.
[10]
La prima
personale di
Boetti venne
organizzata
presso la
galleria
Christian Stein
di Torino nel
gennaio del 1967
a cui seguì, nel
dicembre dello
stesso anno,
quella
organizzata
presso la
Galleria La
Bertesca di
Genova;
quest’ultima era
accompagnata da
un catalogo con
testi di Celant,
Henry Marin e
Tommaso Trini:
Alighiero Boetti
(Genova,
dicembre 1967),
Edizioni Masnata/Trentalance,
Genova 1967.
[11]
Consultabili sul
sito
dell’artista
http://www.fondazionepaolini.it/opere.php;
per qualsiasi
approfondimento
sull’opera
dell’artista, si
rimanda a M.
Disch, Giulio
Paolini.
Catalogo
ragionato
1960-1999, Skira,
Milano 2008.
[12]
Gli atelier
erano
rispettivamente
quelli di Merz,
Piacentino,
Zorio, Anselmo,
Pistoletto e
Paolini.
[13]
Sulla gestione
Bucarelli si
veda M. Margozzi,
Palma Bucarelli:
il museo come
avanguardia,
catalogo della
mostra (Roma, 26
giugno-1
novembre 2009),
Electa, Milano
2009.
[14]
F. Sargentini,
R. Lambarelli,
L. Masina,
L’Attico
1957-1987.
Trenta anni di
pittura,
scultura,
musica, danza,
performance,
video, catalogo
della mostra
(Spoleto, 1
luglio-30 agosto
1987),
Mondadori-De
Luca,
Milano-Roma
1987.
[15]
Una disamina
dell’attività di
Fischer permette
di spiegare la
fortuna
collezionistica
di Mario Merz,
ad esempio, in
ambiente tedesco
e più in
generale nel
Nord Europa.
A riguardo si
veda S.
Richard,
Unconcealed. The
International
Network of
Conceptual
Artists 1967-77.
Dealers,
Exhibitions and
Public
Collection,
Ridinghouse,
Londra 2009.
Sull’attività
della galleria
di Fischer si
rimanda invece
alla
pubblicazione
che contiene le
documentazione
fotografica
degli
allestimenti,
spesso
site-specific:
Ausstellungen
bei Konrad
Fischer:
Düsseldorf
Oktober 1967 –
Oktober 1992,
Edition Marzona,
Bielefeld 1993;
oppure al
recente catalogo
AA.VV., With a
probability of
Being Seen:
Dorothee and
Konrad Fischer.
Archives of an
Attitude,
catalogo della
mostra
(Barcellona, 15
maggio-12
ottobre 2010),
Museum d’Art
Contemporani de
Barcelona 2010.
[16]
G. Celant, Arte
Povera. Appunti
per una
guerriglia, in
“Flash Art”, n.
5,
novembre-dicembre
1967, p. 3.
[17]
R.
Flood, F. Morris,
Zero to
infinity: arte
povera
1962-1972,
Walker Art
Center – Tate
Modern, 2001.
[18]
R. Lumley, Arte
Povera a Torino:
l’intrigante
caso del
Deposito d’Arte
Presente, in
Marcello Levi:
ritratto di un
collezionista
dal Futurismo
all’arte povera,
catalogo della
mostra (Londra,
14 settembre-18
dicembre 2005),
Hopefulmonster,
Torino 2005.
[19]
Si rimanda alla
storia della
galleria
contenuta in
Gian Enzo
Sperone: Torino,
Roma, New York.
35 anni di
mostre tra
Europa e
America,
Hopefulmonster,
Torino 2000.
[20]
B. Della Casa,
Collezione
Christian Stein.
Una storia
d’arte italiana,
catalogo della
mostra (Lugano
12 marzo-15
maggio 2011),
Electa, Milano
2010.
[21]
G. Guercio,
L’opera d’arte e
il divenire
generico del
creativo. Cinque
momenti
“italiani”?, in
Il confine
evanescente.
Arte italiana
1960-2010,
Electa, Milano
2010, p. 348.
[22]
M. Farano, M.C.
Mundici, M.T.
Roberto,
Michelangelo
Pistoletto. Il
varco dello
specchio. Azioni
e collaborazioni
1967-2004,
Edizioni
Fondazione
Torino Musei,
Torino 2005.
[23]
Questa mostra,
la prima e forse
la più riuscita
nel ripensare a
partire dalle
opere d’arte gli
ultimi quaranta
anni di storia
italiana, fu
capace di
attirarsi
critiche ancora
prima
dell’inaugurazione,
probabilmente
poiché proponeva
un vero
rimescolamento
secondo una
logica tematica
e non più
sottomettendosi
alla logica del
movimento F.
Bonami, Italics:
Arte italiana
fra tradizione e
innovazione
1968-2008,
catalogo della
mostra (Venezia,
27 settembre
2008-22 marzo
2009), Electa,
Milano 2008.
Jannis Kounellis
ritirò una sua
opera dalla
mostra
(Scarpette
d’oro, 1971).
Come dichiarava
Bonami in un
articolo «Tutta
questa
confusione
dimostra una
cosa: c’è una
lobby di potere
che mette
l’energia solo
per bloccare.
[...] se non
appartieni alla
“Famiglia” di
Bonito Oliva o
di Celant, non
puoi e non devi
fare niente». In
G. Colin, Bonami:
«Meglio io di
certi artisti».
Il curatore di
Italics: se non
stai con Bonito
Oliva o Celant
hai chiuso, in
“Corriere della
Sera”, 19
settembre 2008,
p. 54.
[24]
In Michelangelo
Pistoletto.
Azioni
materiali,
catalogo della
mostra
(Innsbruck, 11
agosto – 10
ottobre 1999),
König, Colonia
1999, p. 66.
[25]
R. Lumley, Arte
Povera a Torino…,
p. 22.