«I 
																redattori 
																vogliono 
																ribadire la loro 
																completa 
																disponibilità di 
																fronte a coloro 
																che operano 
																creativamente, 
																seguendo in ciò 
																lo spirito di 
																una rivista 
																fondata nel 1966 
																da un gruppo di 
																pittori e 
																scultori»[1]. 
																Con questa 
																dichiarazione si 
																apre l’inchiesta 
																lanciata da “Qui 
																arte 
																contemporanea”, 
																in quello che 
																sarà l’ultimo 
																numero di uno 
																dei periodici 
																più longevi, tra 
																quelli promossi 
																dalle gallerie 
																private romane. 
																Pur con 
																inevitabili 
																distinguo, 
																infatti, le 
																altre iniziative 
																capitoline si 
																collocano sotto 
																il segno del 
																transitorio[2]: 
																da “Appia 
																antica”, animata 
																da Emilio Villa, 
																a 
																“Senzamargine”, 
																dai bollettini 
																della Salita o 
																della Tartaruga, 
																al “Notiziario 
																della Medusa” a 
																“Rondanini”[3]. 
																L’informazione è 
																il naturale polo 
																di attrazione di 
																questa 
																costellazione 
																editoriale, non 
																solo per dare 
																visibilità alle 
																mostre e agli 
																artisti, 
																sostituendosi 
																perfino al 
																catalogo, 
																talvolta; ma 
																anche perché, 
																proprio tra gli 
																anni Sessanta e 
																Settanta, la 
																critica d’arte 
																pare 
																indietreggiare, 
																sotto il peso 
																dell’inadeguatezza 
																dei propri 
																strumenti 
																ermeneutici, 
																preferendo 
																lasciare parlare 
																i protagonisti, 
																attestandosi non 
																di rado sulla 
																cronaca, 
																piuttosto che 
																interpretare[4].
Nata 
																come costola 
																dell’attività 
																editoriale 
																specializzata di 
																Editalia, “Qui 
																arte 
																contemporanea” 
																precede di pochi 
																mesi 
																l’inaugurazione 
																ufficiale dello 
																spazio 
																espositivo. La 
																rivista, diretta 
																da Lidio Bozzini 
																(condirettore 
																responsabile 
																Mario Guidotti), 
																esce da luglio 
																1966 a giugno 
																1977, con una 
																media di due 
																numeri l’anno, 
																per un totale di 
																diciassette 
																fascicoli. In 
																redazione si 
																alternano 
																artisti e 
																critici: 
																originariamente 
																il comitato 
																redazionale era 
																formato da 
																Giuseppe 
																Capogrossi, 
																Ettore Colla, 
																Lucio Fontana, 
																Leoncillo 
																Leonardi, 
																Seymour Lipton, 
																Victor Pasmore e 
																Piero Sadun, 
																affiancati da 
																Giovanni 
																Carandente e 
																Marisa Volpi, 
																fra tutti la più 
																impegnata 
																nell’attività 
																dell’omonima 
																galleria. 
																Accanto a questi 
																ultimi, negli 
																anni, si 
																avvicendano i 
																critici Alberto 
																Boatto, Aldo 
																D’Angelo, 
																Lorenza Trucchi 
																e Mario Verdone. 
																Le autorevoli 
																firme che la 
																animano, 
																tuttavia, 
																scelgono altre 
																sedi per i 
																contributi 
																teorici che 
																alimentano il 
																dibattito 
																critico 
																nazionale di 
																quegli anni, che 
																fa da sfondo 
																alle vicende qui 
																tratteggiate. Le 
																presenti note, 
																infatti, gettano 
																uno sguardo di 
																insieme sul 
																periodico, del 
																quale 
																sorprendono le 
																scelte a favore 
																di artisti e di 
																correnti molto 
																sperimentali, 
																più che le 
																singole 
																posizioni 
																critiche, spesso 
																implicite, 
																appunto, nel 
																dare conto di 
																determinate aree 
																espressive 
																piuttosto che di 
																altre. Sotto 
																questo riguardo, 
																soprattutto tra 
																il 1969 e il 
																1972, la rivista 
																si interessa 
																alle pratiche 
																performative e 
																alle ricerche di 
																area poverista, 
																in seguito 
																estranee 
																all’attività 
																della galleria.
Oltre 
																la longevità, 
																altra 
																caratteristica 
																di “Qui arte 
																contemporanea” è 
																l’equilibrio fra 
																documentazione 
																del presente e 
																interesse per 
																l’arte 
																dell’Ottocento e 
																delle 
																avanguardie: 
																opzione da 
																ricondurre, in 
																sintesi, al 
																debito 
																dichiarato nei 
																confronti de La 
																tradizione del 
																nuovo, il testo 
																miliare di 
																Harold Rosenberg[5], 
																in cui si 
																riconosce che la 
																ricerca della 
																novità è parte 
																integrante della 
																cultura, da 
																Charles 
																Baudelaire in 
																poi, sostenendo 
																pertanto una 
																sostanziale 
																sinonimia fra 
																moderno e nuovo.
D’altro 
																canto, la 
																convivenza fra 
																taglio 
																storiografico e 
																militanza – è 
																stato scritto – 
																è anche il 
																tratto 
																peculiare, di un 
																drappello di 
																critici vicini, 
																in misura 
																variabile, 
																all’insegnamento 
																di Giulio Carlo 
																Argan e, quindi, 
																a questa altezza 
																cronologica, di 
																area romana[6]. 
In tal 
																senso, se nel 
																primo numero di 
																“Qui arte 
																contemporanea” 
																si ospita un 
																ampio saggio su 
																Umberto 
																Boccioni, nel 
																cinquantenario 
																della morte[7], 
																in seguito ci si 
																occuperà della 
																metafisica, del 
																surrealismo e 
																così via. Mentre 
																di pari passo, 
																l’omonima 
																galleria propone 
																la mostra 
																documentaria 
																Dada, 
																cinquant’anni 
																dopo (ottobre 
																1966) e la 
																monografica su 
																Dottori (marzo 
																1970); più oltre 
																Maestri 
																surrealisti 
																(dicembre 1973) 
																e il focus su 
																Melotti 
																(febbraio 1976). 
																Un impegno che, 
																negli anni 
																Ottanta, 
																prosegue con le 
																mostre sul 
																Futurismo.
																All’idea del 
																reportage si 
																ispirano – oltre 
																all’iniziale 
																rubrica 
																Pallacordasette, 
																dedicata al 
																dialogo con i 
																lettori – sia la 
																sezione sul 
																mercato 
																dell’arte, ora 
																più articolato e 
																dinamico che in 
																passato, in cui 
																Claudio Bruni 
																registra 
																l’andamento 
																delle aste, per 
																autori viventi e 
																non[8]; 
																sia la rubrica 
																Quincontri, con 
																rapide sintesi 
																delle attività 
																promosse da 
																Editalia spesso 
																accompagnate da 
																fotografie a 
																metà strada tra 
																ufficialità e 
																mondanità. Nel 
																primo numero, in 
																attesa delle 
																sollecitazioni 
																dei lettori, si 
																propone 
																un’ideale tavola 
																rotonda fra 
																addetti ai 
																lavori, su temi 
																di attualità: 
																Lorenza Trucchi 
																e Plinio De 
																Martiis 
																riflettono, da 
																diverse 
																prospettive, 
																sulle 
																trasformazioni 
																presenti e 
																futuribili del 
																collezionismo di 
																arte 
																contemporanea; 
																mentre Franco 
																Russoli prova a 
																tratteggiare le 
																peculiarità del 
																museo d’arte 
																contemporanea, 
																un apparente 
																ossimoro[9]. 
Il 
																secondo numero è 
																sostanzialmente 
																consacrato alla 
																Biennale di 
																Venezia, alla 
																quale non 
																vengono lesinate 
																le critiche 
																tanto di Cesare 
																Vivaldi quanto 
																di Nello 
																Ponente, mentre 
																più sfumate sono 
																le reazioni ai 
																padiglioni 
																nazionali. Le 
																restanti 
																recensioni delle 
																mostre sono 
																raccolte nella 
																rubrica Opere 
																viste, che a 
																lungo 
																sottolineerà 
																l’approccio 
																diretto – 
																giornalistico, 
																ancora una volta 
																– dell’autore, 
																non di rado un 
																corrispondente 
																fisso, da Londra 
																o da New York.
																L’editoriale del 
																terzo numero, 
																del marzo 1967, 
																precisa i 
																confini della 
																tradizione del 
																nuovo, che da 
																Baudelaire a 
																Édouard Manet 
																arriva, nel caso 
																italiano, 
																attraverso il 
																futurismo e la 
																metafisica, al 
																Gruppo Origine, 
																cui Maurizio 
																Calvesi dà ampio 
																spazio. Gli 
																accenti polemici 
																riguardano 
																soprattutto i 
																tentativi 
																francesi di 
																monopolizzare le 
																avanguardie 
																storiche, sotto 
																l’egida 
																omnicomprensiva 
																di Scuola di 
																Parigi, 
																all’interno 
																della quale, 
																però, si 
																stemperano le 
																differenze fra 
																maestri ed 
																epigoni. Da 
																segnalare, in 
																questo 
																fascicolo, il 
																testo di K. L. 
																McShine su 
																Joseph Cornell, 
																autore in 
																posizione 
																storicamente 
																intermedia fra 
																la prima ondata 
																di emigrazione 
																europea negli 
																USA e la nuova 
																generazione di 
																artisti 
																americani.
Dal 
																numero 
																successivo, del 
																1967, la rivista 
																si anima 
																parecchio, 
																complice 
																l’effervescenza 
																dell’atmosfera 
																artistica, con 
																le nuove 
																ricerche di area 
																minimal, la 
																crescita 
																dell’happening e 
																della 
																performance. Si 
																colgono, 
																infatti, le 
																diverse 
																sfaccettature 
																delle indagini 
																sullo spazio, 
																condotte sia in 
																Italia sia 
																all’estero: 
																Marisa Volpi – 
																che in galleria 
																cura proprio una 
																mostra sulla 
																Terza dimensione 
																con opere di 
																Jannis 
																Kounellis, Livi, 
																Sergio Lombardo, 
																Carlo 
																Lorenzetti, Pino 
																Pascali e 
																Giuseppe Uncini 
																– dà conto della 
																rassegna Primary 
																Structures 
																(Jewish Museum) 
																in cui gli 
																artisti 
																statunitensi, 
																più degli 
																europei, 
																sembrano 
																impegnati a 
																“sbarrare la 
																strada a 
																qualsiasi 
																interpretazione”[10]. 
																I riferimenti di 
																questi giovani 
																sono diversi: da 
																Mies van der 
																Rohe, a 
																Buckminster 
																Fuller, fino a 
																Tony Smith i cui 
																lavori esigono 
																una pluralità di 
																punti di 
																osservazione, 
																sottolineando la 
																continuità fra 
																lo spazio 
																dell’opera e 
																quello dello 
																spettatore. Nel 
																medesimo numero, 
																anche Claudio 
																Cintoli si 
																appassiona ai 
																lavori di Smith, 
																simili a 
																cristalli – 
																scrive – 
																scheggiati 
																secondo la 
																composizione 
																molecolare. 
																D’altronde, 
																basta sfogliare 
																la rubrica Opere 
																viste per 
																ritrovare la 
																sorprendente 
																fioritura 
																italiana di 
																ricerche visuali 
																e ambientali: 
																dalle mostre Il 
																tempo 
																dell’immagine 
																(Bologna), Lo 
																spazio 
																dell’immagine 
																(Foligno), Nuove 
																tecniche di 
																immagine (San 
																Marino), Impatto 
																percettivo 
																(Amalfi), al 
																convegno della 
																critica dedicato 
																allo Spazio 
																nelle arti 
																visive[11].
Il 
																fluire degli 
																eventi
Dopo la 
																battuta 
																d’arresto del 
																1968 – dovuta 
																non solo alla 
																contestazione, 
																che ha travolto 
																la Biennale di 
																Venezia e la 
																Triennale di 
																Milano, ma anche 
																ai lutti – “Qui 
																arte 
																contemporanea” 
																riprende le 
																pubblicazioni 
																nel marzo 
																seguente: a 
																Carandente, 
																Sadun e Volpi 
																nella redazione 
																si affianca 
																Lorenza Trucchi. 
																Il rinnovamento 
																interno porta a 
																pubblicare il 
																nutrito elenco 
																dei 
																collaboratori 
																vecchi e nuovi, 
																fra cui spicca 
																la giovane 
																generazione sia 
																di critici, che 
																in breve tempo 
																distingueranno 
																le proprie 
																strade, sia di 
																artisti[12]. 
																Sviluppando 
																alcune scelte 
																dell’ultimo 
																numero del 1967, 
																adesso il 
																periodico si 
																sbilancia verso 
																le ricerche più 
																innovative, 
																tanto che il 
																quadriennio 
																1969-1972 
																corrisponde alla 
																fase di maggiore 
																vivacità. Così, 
																ad esempio, nel 
																primo numero del 
																‘69, tra i 
																ricordi dei 
																maestri 
																scomparsi, 
																Marisa Volpi 
																sollecita tre 
																coetanei di Pino 
																Pascali a 
																rendergli 
																omaggio: Claudio 
																Cintoli opta per 
																la forma 
																epistolare; 
																Jannis Kounellis 
																elenca le 
																passioni 
																dell’ami-co; ed 
																Eliseo Mattiacci 
																tesse l’elogio 
																dell’estro 
																inventivo. Ne 
																viene fuori il 
																ritratto 
																sfaccettato 
																della meteora 
																Pascali: 
																l’azione che 
																arriva a 
																sostituirsi 
																all’oggetto; la 
																fascinazione per 
																la nuova arte 
																americana; la 
																manualità e il 
																feeling con i 
																materiali 
																primari.
																L’interesse per 
																nuove forme di 
																agire artistico, 
																spesso 
																svincolato dalla 
																concretezza 
																dell’oggetto – 
																seguite 
																all’epoca solo 
																da rare e 
																coraggiose 
																gallerie 
																d’avanguardia 
																fra cui non è 
																possibile 
																annoverare 
																Editalia – è 
																testimoniato 
																dalla cronaca 
																dell’happening 
																di Eliseo 
																Mattiacci, Il 
																tempo del vento, 
																in occasione di 
																Lavori in corso 
																al Circo 
																Massimo. A sua 
																volta, Cintoli 
																ne dà notizia 
																con un testo 
																quasi 
																performativo, 
																costituito 
																dall’elenco 
																delle azioni da 
																compiere o da 
																evitare, per 
																assistere 
																all’evento[13]. 
È da 
																ricondurre 
																all’incontro fra 
																arti visive e 
																teatro anche 
																l’intervento del 
																regista de I 
																testimoni, 
																andato in scena 
																al Teatro 
																Gobetti di 
																Torino nel 
																novembre 1968. 
																Proprio in 
																questo caso il 
																numero sembra 
																accogliere, 
																senza filtri, il 
																fluire degli 
																eventi dato che 
																pubblica due 
																pagine 
																manoscritte di 
																Carlo Quartucci 
																in cui parole e 
																disegni, appunti 
																e schizzi, sono 
																un disordinato 
																diario delle 
																contaminazioni e 
																dei prestiti 
																letterari e 
																visivi confluiti 
																in uno 
																spettacolo 
																dirompente e 
																nichilista. La 
																scena era 
																dominata dai 
																carrelli di 
																Kounellis, mossi 
																dagli attori con 
																ampio margine di 
																libertà, 
																metafora 
																dell’instabilità 
																dell’insieme, in 
																cui nessuno 
																sembra trovare 
																il proprio 
																posto. 
L’idea 
																dello spettacolo 
																come collage o 
																assemblage 
																visivo, ancora 
																valida per 
																Cartoteca, è 
																teatralmente 
																superata, scrive 
																Quartucci, 
																poiché adesso 
																«lo spettacolo 
																andava visto da 
																dentro: era un 
																accadimento, non 
																una 
																rappresentazione 
																[…]. C’era un 
																tempo teatrale 
																quello sui 
																carrelli, e un 
																tempo reale 
																quello degli 
																attori che si 
																muovevano fuori 
																dei carrelli, 
																che è appunto lo 
																stesso tempo di 
																chi guarda…»[14]. 
La 
																contiguità fra 
																pratiche 
																artistiche e 
																teatrali è 
																ribadita dalla 
																recensione di 
																Giulio Paolini a 
																Happening di 
																Michael Kirby, 
																appena tradotto 
																in italiano. Si 
																tratta della 
																prima delle tre 
																collaborazioni a 
																“Qui arte 
																contemporanea” 
																da parte 
																dell’artista 
																torinese che, 
																nell’aprile 
																1968, aveva 
																partecipato alla 
																collettiva Fabro 
																Kounellis 
																Paolini e del 
																quale, 
																all’inizio del 
																1970, Marisa 
																Volpi cura la 
																personale in 
																galleria. La 
																seconda 
																collaborazione – 
																nel numero 
																successivo – è 
																una rapida 
																descrizione 
																delle scene e 
																dei costumi per 
																il Bruto secondo[15], 
																dominate dal 
																bianco inteso 
																come non colore, 
																in riferimento 
																alla natura 
																astratta del 
																dramma 
																alfieriano. 
																Dell’ultima 
																collaborazione a 
																“Qui arte 
																contemporanea” 
																si parlerà più 
																oltre. Gli 
																sconfinamenti 
																fra teatro e 
																arti visive 
																sono, oramai, 
																all’ordine del 
																giorno: per 
																esempio, alla 
																Galleria 
																Nazionale d’Arte 
																Moderna di Roma, 
																è inscenato 
																dalla compagnia 
																Cricot 2, Poule 
																d’eau, 
																specializzata 
																nella pantomima 
																e 
																nell’improvvisazione, 
																pratiche 
																limitrofe e 
																perfino 
																coincidenti con 
																l’happening[16]. 
																D’altronde, nel 
																maggio 1968 a 
																Roma, la 
																galleria La 
																Tartaruga aveva 
																dato vita a un 
																“festival di 
																spettacoli senza 
																replica”, come 
																potrebbe essere 
																definito il 
																Teatro delle 
																mostre; mentre 
																in ottobre, Arte 
																povera + Azioni 
																povere (Amalfi, 
																Arsenale 
																vecchio) 
																suggerisce, 
																quasi 
																didascalicamente, 
																la coesistenza 
																alla pari di 
																oggetti e di 
																comportamenti 
																nella poetica 
																poverista, 
																appena delineata 
																da Germano 
																Celant. 
Tale 
																chiave 
																interpretativa 
																si proietta 
																perfino nella 
																rilettura di 
																Piero Manzoni, 
																proposta da 
																Tommaso Trini 
																che, pur in 
																assenza di 
																inquadramento 
																storico e di 
																disamina 
																critica, 
																sottolinea la 
																centralità 
																dell’operazione 
																Divorare l’arte, 
																intesa come 
																collaborazione 
																fra artista e 
																pubblico, più 
																che come gesto 
																neo-dada[17].
Parole 
																d’artista
La 
																rinuncia, da 
																parte degli 
																artisti, alle 
																forme 
																tradizionali 
																della mediazione 
																critica si fa 
																sentire anche 
																sulla carta 
																stampata. Nel 
																secondo numero 
																del 1969, ad 
																esempio, si 
																pubblica il 
																testo 
																manoscritto con 
																cui Cintoli 
																accompagna 
																Cucchiai del 
																firmamento 
																(1967-69). 
																Accanto alle 
																cronache d’arte, 
																quindi, il 
																marchigiano 
																firma il 
																racconto in cui 
																un “Edmondo 
																qualunque” 
																scopre che il 
																proprio 
																ombelico, 
																abbandonato il 
																corpo, è finito 
																in un cucchiaio 
																da pasto. Il 
																testo è 
																intessuto di 
																giochi di 
																parole, 
																anagrammi, 
																nonsense, rime e 
																ritornelli[18], 
																degno 
																accompagnamento 
																a I cucchiai del 
																firmamento che, 
																straniati e 
																obliterati 
																rispetto alla 
																funzione d’uso, 
																sono 
																strettamente 
																imparentati con 
																gli oggetti 
																surrealisti. 
																Riproduzione 
																dell’opera e 
																testo, su due 
																pagine 
																affrontate, si 
																completano, 
																prive di alcun 
																commento o 
																introduzione, 
																sono 
																autosufficienti. 
Laura 
																Grisi, in 
																occasione della 
																personale alla 
																Marlborough 
																Gallery di Roma, 
																ad esempio, 
																interviene per 
																chiarire che gli 
																oggetti presenti 
																negli ambienti 
																«sono i mezzi 
																con cui metto in 
																luce degli spazi 
																diversi, 
																“diversi” anche 
																se generati da 
																fenomeni 
																piuttosto 
																consueti»[19]. 
Il 
																riferimento è 
																agli ambienti 
																dedicati agli 
																elementi 
																naturali come la 
																nebbia, il 
																vento, la 
																pioggia, a cui 
																l’artista lavora 
																già da qualche 
																anno, e nei 
																quali l’opera è 
																rappresentata 
																proprio dai 
																fenomeni 
																atmosferici, 
																provocati e 
																regolati nel 
																tempo. 
																Controllati come 
																esperimenti di 
																laboratorio, 
																ognuno di questi 
																fattori genera 
																spazio grazie 
																alla dialettica 
																con gli oggetti. 
																È una ricerca 
																particolarmente 
																in sintonia con 
																il clima 
																internazionale, 
																basti ricordare, 
																durante il 1969, 
																le operazioni di 
																Robert Barry – 
																sostenute da 
																Seth Siegelaub – 
																con i gas inerti 
																dispersi 
																nell’aria.
Il 
																fascicolo ospita 
																anche un ampio 
																contributo di 
																Germano Celant 
																che, prendendo 
																spunto da due 
																importanti 
																rassegne appena 
																concluse, Op 
																Losse Schroeven 
																(Amsterdam) e 
																When attitudes 
																become form 
																(Berna), mette a 
																fuoco alcune 
																contraddizioni 
																della critica, 
																sempre più 
																inadeguata a 
																rendere conto di 
																un’arte basata 
																sull’esperienza 
																diretta 
																dell’opera, 
																spesso 
																sinestetica ed 
																effimera, 
																rispetto alla 
																quale 
																descrizione e 
																documentazione, 
																per quanto 
																estese, non 
																potranno mai 
																«ricostruire le 
																condizioni 
																psicofisiche, 
																atte a ricreare 
																l’apprensione 
																diretta del 
																lavoro»[20]. 
																È evidente, 
																infatti, che 
																fotografia e 
																testo sono poca 
																cosa per rendere 
																l’esperienza 
																magmatica e 
																frammentaria 
																della visita a 
																esposizioni di 
																questo tipo. 
																D’altronde gli 
																strumenti 
																tradizionali 
																della critica 
																d’arte si 
																trovano a mal 
																partito già di 
																fronte a singole 
																opere, come 
																Splash Piece di 
																Richard Serra 
																(1968) o 
																Scrittura 
																simpatica (1968) 
																di Gilberto 
																Zorio: il resto 
																di un’azione, la 
																prima, opera in 
																azione la 
																seconda. 
																Tuttavia una 
																chiave 
																ermeneutica 
																emerge anche di 
																fronte a tali 
																proposte 
																dirompenti: esse 
																promanano 
																dall’“artista-alchimista” 
																nel cui lavoro 
																corpo umano, 
																animali, piante 
																e minerali 
																convivono pur 
																con inevitabili 
																disomogeneità 
																morfologiche, 
																perché «tutti 
																questi sistemi 
																vitali 
																funzionano in 
																modo simile, 
																legati – come 
																sono – a 
																processi comuni 
																di metabolismo. 
																Per questo 
																l’artista, 
																insieme 
																all’ecologo e al 
																biologo, ha 
																iniziato a 
																portare 
																l’interesse al 
																funzionamento 
																vitale, ha 
																rinunciato alla 
																descrizione e 
																alla 
																rappresentazione 
																dell’aspetto 
																esteriore della 
																natura»[21].
Dopo un 
																ulteriore anno 
																di silenzio, la 
																rivista riprende 
																le pubblicazioni 
																nel 1971, con 
																l’entrata in 
																redazione di 
																Mario Verdone, 
																che assicura gli 
																approfondimenti 
																sul cinema delle 
																avanguardie 
																storiche e degli 
																anni Sessanta. 
																Si inizia con 
																Heartfield e 
																Dada, affiancati 
																dai saggi di 
																Paolo Fossati su 
																Max Ernst e di 
																Marisa Volpi sul 
																Blaue Reiter (al 
																quale aveva 
																appena dedicato 
																una monografia). 
																Il fascicolo si 
																segnala per il 
																lungo intervento 
																in cui Celant 
																ripercorre quasi 
																ad annum la 
																carriera di 
																Robert Morris, 
																mettendo in 
																evidenza la 
																centralità della 
																danza, e quindi 
																del corpo, nel 
																rapporto con gli 
																oggetti e con 
																gli ambienti, e 
																sottolineando il 
																parallelo 
																impegno teorico 
																nella 
																formulazione 
																dell’Antiform[22]. 
																Altra esponente 
																di spicco di una 
																nuova 
																generazione di 
																critici vicini 
																alle tendenze 
																più innovative è 
																Lea Vergine, che 
																si occupa di 
																arte 
																programmata. Due 
																intellettuali 
																militanti, la 
																cui 
																collaborazione a 
																“Qui arte 
																contemporanea” 
																si concentra nel 
																biennio 1969-70, 
																momento 
																difficile per 
																“Marcatré”, 
																rivista teorica 
																alla quale 
																collaborano con 
																maggiore 
																continuità[23].
Oltre 
																la cronaca
Nel 
																1972, “Qui arte 
																contemporanea” 
																inaugura un 
																taglio 
																monografico, 
																dedicato ad 
																argomenti di 
																volta in volta 
																diversi. Si 
																inizia con un 
																tema di estrema 
																attualità, come 
																i rapporti fra 
																Arti figurative, 
																fotografia e 
																cinema, nel 
																quale 
																confluiscono, 
																ancora una 
																volta, saggi di 
																taglio storico 
																(Marina Miraglia 
																su Francesco 
																Paolo Michetti 
																fotografo, Dora 
																Vallier sugli 
																impressionisti e 
																Enrico Crispolti 
																sul futurismo) e 
																interventi 
																legati 
																all’attualità 
																come quello di 
																Lorenza Trucchi 
																sul fotografico 
																nella pittura di 
																Francis Bacon e 
																di Daniela 
																Palazzoli che – 
																alla prima 
																collaborazione 
																con il periodico 
																di Editalia – 
																mette pittura e 
																fotografia in 
																alternativa, 
																secondo la 
																filosofia 
																dell’imminente 
																rassegna 
																Combattimento 
																per un’immagine. 
																Frank Popper si 
																occupa del 
																movimento 
																nell’arte, tema 
																a cui ha 
																dedicato un 
																libro di ampia 
																storicizzazione, 
																appena tradotto 
																in italiano; 
																Mario Verdone si 
																focalizza sul 
																cinema astratto 
																di Viking 
																Eggeling e 
																Alberto Boatto 
																si concentra su 
																Luca Patella, 
																inventivo 
																sperimentatore 
																di mezzi 
																fotografici e 
																cinematografici, 
																ibridati con 
																l’intervento 
																diretto 
																dell’autore. 
																Infine, di 
																Annette 
																Michelson si 
																traduce il 
																saggio su 
																Michael Snow, 
																apparso l’anno 
																prima su 
																“Artforum”[24]. 
																È fondamentale 
																sottolineare che 
																l’attenzione è 
																rivolta agli 
																scambi fra la 
																pittura e i 
																nuovi media, 
																rintracciando 
																gli antecedenti 
																ottocenteschi 
																dell’introiezione 
																dello sguardo e 
																del prodotto 
																fotografici, e 
																valorizzando 
																pratiche 
																artistiche 
																attuali ma 
																liminari.
In 
																sintonia con i 
																rapporti fra 
																pittura e 
																immagine 
																mediatica, 
																Paolini conclude 
																la 
																collaborazione 
																con il periodico 
																romano con Una 
																nuova 
																confutazione del 
																tempo: il testo 
																– costituito da 
																citazioni da 
																Jorge Luis 
																Borges e da 
																Chaung Tzu, 
																sulla natura 
																ambigua della 
																temporalità, fra 
																soggettività e 
																oggettività – 
																accompagna le 
																riproduzioni di 
																Giovane che 
																guarda Lorenzo 
																Lotto (1967) e 
																di L’invenzione 
																di Ingres 
																(1968). Nelle 
																note 
																introduttive, 
																Marisa Volpi 
																sottolinea che 
																in Paolini la 
																fotografia è 
																strumento per 
																dialogare con il 
																passato (e con i 
																maestri antichi, 
																quindi), e 
																oggettivare il 
																tempo. Nel 
																frattempo, 
																l’artista ave-va 
																partecipato in 
																galleria a 
																Understatement 
																(Luciano Fabro, 
																Maurizio 
																Mochetti, Samuel 
																Montealegre, 
																Hidetoshi 
																Nagasawa, Giulio 
																Paolini, Antonio 
																Trotta, gennaio 
																1971), curata 
																dalla medesima 
																Volpi, alla 
																quale si devono 
																buona parte 
																degli interventi 
																diretti degli 
																artisti sul-le 
																pagine della 
																rivista.
Seconda 
																novità 
																introdotta da 
																questo numero, 
																oltre alla parte 
																monografica, è 
																la sezione 
																Profilo, una 
																sorta di inserto 
																in 
																quadricro-mia, 
																dedicato ogni 
																volta a un 
																artista diverso: 
																si inizia 
																ovviamente con 
																Sadun, e si 
																prosegue con 
																artisti già 
																affermati, come 
																Carla Accardi, 
																Afro, Pietro 
																Consagra, 
																Umberto 
																Mastroianni, 
																Giulio Turcato, 
																Emilio 
																Scanavino.
La 
																scelta di 
																concentrare 
																buona parte 
																della rivista 
																attorno a un 
																tema, sembra 
																rispondere 
																all’esigenza di 
																arginare 
																l’eterogeneità 
																della cronaca. 
																Il dissidio è 
																solo 
																apparentemente 
																risolto nel 
																secondo numero 
																del 1972, 
																dedicato alle 
																due rassegne 
																internazionali: 
																la XXXVI 
																Biennale 
																Internazionale 
																d’Arte di 
																Venezia e la 
																quinta edizione 
																di Documenta, a 
																Kassel. È 
																interessante 
																notare come i 
																giudizi critici 
																raccolti siano 
																divergenti: 
																della rassegna 
																veneziana, 
																Pierre Restany 
																censura alcuni 
																eccessi 
																dell’arte di 
																comportamento, 
																che hanno 
																ridotto l’azione 
																a puro 
																volontarismo (è 
																il caso di Gino 
																De Dominicis, ad 
																esempio), mentre 
																approva le 
																proposte di 
																Mario Merz, 
																Germano Olivotto 
																e Franco 
																Vaccari, per i 
																quali l’azione 
																verifica un 
																sistema di 
																intervento 
																precostituito[25]. 
																Al contrario, di 
																Documenta 5 
																Germano Celant 
																apprezza proprio 
																le pratiche più 
																ibride. Nella 
																recensione, 
																programmaticamente 
																intitolata 
																Iperrealismo 
																come 
																imperialismo, la 
																referenzialità è 
																equiparata al 
																“ritorno 
																all’ordine”. Con 
																il sostegno di 
																gallerie e 
																istituzioni 
																statunitensi, si 
																fa largo un’arte 
																rassicurante 
																tanto 
																economicamente 
																quanto 
																ideologicamente, 
																latrice di 
																un’esperienza 
																estetica 
																immediata e un 
																po’ facile. Più 
																interessante il 
																clima che si 
																respira nella 
																seconda sezione, 
																ordinata nel 
																Museum 
																Federicianum – 
																continua Celant 
																– con arte 
																concettuale e 
																minimal, 
																performance e 
																video, danza e 
																musica, 
																penalizzate, 
																tuttavia, 
																dall’allestimento 
																caotico e 
																affollato[26]. 
Più 
																sfumato, ma 
																sostanzialmente 
																in linea con 
																quest’ultimo, il 
																giudizio di 
																Marisa Volpi, 
																che recensisce 
																la medesima 
																rassegna 
																tedesca: il 
																naturalismo di 
																Edward 
																Kienholtz, ad 
																esempio, è 
																interpretato 
																come denuncia; 
																l’indulgenza 
																autobiografica e 
																la messa in 
																scena delle 
																pulsioni più 
																sopite – 
																evidenti in 
																Christian 
																Boltanski, 
																Marcel 
																Broodthaers, Ben 
																Vautier e Luca 
																Sarmas – sono 
																ricondotte alle 
																avanguardie 
																storiche che, 
																per prime, hanno 
																equiparato arte 
																e vita. 
Nel 
																dare conto 
																dell’ampia 
																presenza di 
																videotape e film 
																d’artista, di 
																cui il 1972 
																decreta l’ascesa 
																anche in Italia, 
																la storica 
																dell’arte 
																rimarca la 
																somiglianza 
																delle selezioni 
																proposte a 
																Kassel e a 
																Venezia: fra 
																tutti spiccano 
																Eurasienstab di 
																Joseph Beuys e 
																Nature of our 
																looking di 
																Gilbert & George[27]. 
Chiude 
																il fascicolo la 
																raffinata 
																riflessione di 
																Filiberto Menna 
																che, a proposito 
																del Padiglione 
																olandese alla 
																Biennale di 
																Venezia, 
																rintraccia 
																nell’attitudine 
																analitica di 
																Piet Mondrian le 
																premesse del 
																lavoro 
																fotografico di 
																Jan Dibbets[28].
1973: 
																un anno di 
																transizione
Perfino 
																la copertina, 
																fin qui 
																essenziale e 
																sobria, 
																sovrastata dalla 
																storica testata 
																disegnata da 
																Ettore Colla, su 
																un fondo di 
																colore 
																differente a 
																ogni numero, 
																opta adesso per 
																la riproduzione 
																a colori di 
																un’opera 
																dell’artista a 
																cui si dedica il 
																Profilo. Ad 
																inaugurare la 
																nuova veste 
																grafica – 
																funzionale al 
																periodico di una 
																galleria 
																privata, per 
																vocazione 
																sostenuta dal 
																collezionismo[29] 
																– pertanto, è 
																Afro. Mentre a 
																Giulio Carlo 
																Argan è affidato 
																il compito di 
																ricordare 
																Giuseppe 
																Capogrossi, 
																scomparso 
																nell’ottobre 
																1972, fondatore 
																della rivista e 
																del quale lo 
																storico 
																dell’arte 
																torinese aveva 
																curato, nel 
																1967, il 
																catalogo 
																ragionato, 
																proprio per 
																Editalia. Anche 
																nei contenuti si 
																intravedono i 
																segni del  
																lento virare 
																degli interessi 
																di “Qui arte 
																contemporanea”, 
																dato che il 
																numero è 
																incentrato sulle 
																varianti del 
																realismo, dal 
																Settecento al 
																presente, con un 
																meditato saggio 
																di Udo 
																Kultermann – di 
																cui era appena 
																uscito New 
																Realism – che 
																rivaluta proprio 
																le proposte 
																dell’iperrealismo 
																e del 
																naturalismo 
																con-temporanei, 
																in evidente 
																discontinuità 
																con la linea 
																precedentemente 
																proposta da 
																Celant, che per 
																altro non 
																prosegue oltre 
																la 
																collaborazione 
																con il periodico 
																romano.
Il 
																secondo numero 
																del 1973 è più 
																vario: nel dare 
																conto della 
																mostra 
																Philadelphia in 
																New York, Marisa 
																Volpi[30] 
																opta per uno 
																sguardo 
																storicizzante 
																che ribadisce la 
																fecondazione 
																europea 
																dell’arte 
																americana 
																contemporanea, 
																enucleando le 
																opere più 
																significative di 
																due importanti 
																collezioni 
																private – 
																Arensberg e 
																Gallatin – 
																donate al Museo 
																di Philadelphia 
																e spina dorsale 
																della rassegna. 
																Sono invece 
																virati verso 
																l’attualità, le 
																analisi di 
																Filiberto Menna 
																delle 
																Investigazioni 
																linguistiche di 
																Kosuth, e quelle 
																di Gillo Dorfles 
																sulla dimensione 
																temporale 
																condivisa 
																dell’arte 
																ambientale tanto 
																quanto dal 
																comportamento, 
																negli USA, con 
																particolare 
																attenzione a Dan 
																Graham. Per 
																certi versi 
																confluente è 
																l’intervento di 
																Lea Vergine, che 
																sintetizza gli 
																ultimi tre anni 
																di attività di 
																Gilbert & 
																George, preludio 
																al volume sulla 
																Body Art[31].
Difatti 
																la studiosa 
																napoletana, nel 
																numero 
																successivo, si 
																occupa del 
																piacere 
																regressivo, 
																all’interno di 
																un fascicolo 
																consacrato alle 
																categorie 
																psicanalitiche 
																applicate 
																all’arte, con 
																interventi che 
																vanno dalle arti 
																primitive a 
																Pascali e 
																Kounellis, sui 
																quali fa il 
																punto il lungo 
																intervento di 
																Alberto Boatto[32]. 
																In tale cornice 
																teorica, 
																Vergine, più che 
																di sublimazione, 
																preferisce 
																parlare di 
																regressione, 
																visto 
																l’incremento di 
																testimonianze 
																biografiche che 
																rifluiscono 
																nelle opere, con 
																punte di 
																esibizionismo, 
																spesso a sfondo 
																sessuale, come è 
																noto. Un’arte 
																per la quale 
																diventano 
																adeguati 
																sostantivi come 
																autismo, 
																narcisismo, 
																«compiacimento 
																sadico, non solo 
																verso se stessi, 
																ma nei riguardi 
																dello 
																spettatore»[33]. 
																Modalità a cui 
																si uniforma 
																anche la 
																rivista, 
																sembrerebbe, 
																visto il ricco 
																apparato 
																illustrativo.
Fuori 
																dalla mischia: 
																1974-1977
Dal 
																1974, tuttavia, 
																il rapporto 
																proficuo con le 
																neoavanguardie 
																sembra 
																interrompersi, 
																il comitato 
																redazionale 
																concentra le 
																proprie 
																attenzioni 
																sull’arte 
																dell’Ottocento e 
																del primo 
																Novecento. 
																D’altronde, 
																anche l’attività 
																editoriale ed 
																espositiva di 
																Editalia si 
																sposta 
																progressivamente 
																su terreni più 
																sicuri come la 
																grafica 
																d’autore, 
																l’informale e le 
																ricerche 
																gestaltiche, 
																allontanandosi 
																da quella prima 
																linea di 
																sperimentazioni 
																artistiche che 
																finora aveva 
																affiancato le 
																mostre più 
																tradizionali.
																Simbolicamente 
																il divorzio 
																dall’arte nuova, 
																o moderna nei 
																termini di 
																Rosenberg – 
																sotto i cui 
																auspici la 
																rivista aveva 
																mosso i primi 
																passi – è 
																sancito dalla 
																presa di 
																distanza di 
																Volpi da 
																Contemporanea, 
																di cui apprezza 
																soprattutto le 
																sezioni dedicate 
																alla danza e al 
																teatro[34]. 
																La rassegna 
																promossa dagli 
																Incontri 
																Internazionali 
																d’Arte è certo 
																una novità nel 
																panorama 
																culturale 
																italiano per 
																contenuti e 
																forme, e il 
																dibattito 
																critico è molto 
																acceso anche tra 
																gli addetti ai 
																lavori[35]. 
																La studiosa, 
																tuttavia, pur 
																non condividendo 
																l’imponente 
																“impacchettamento” 
																di Porta 
																Pinciana da 
																parte di 
																Christo, 
																condanna gli 
																atti vandalici 
																di cui l’opera 
																era stata 
																vittima. 
A 
																conferma 
																dell’impegno 
																culturale dei 
																redattori, 
																nell’ultimo 
																numero del 1974 
																aveva trovato 
																posto l’ampio 
																saggio in cui 
																Enrico Crispolti 
																contestualizza 
																l’operato 
																dell’artista 
																bulgaro, in 
																dialettica con 
																lo spazio urbano[36]. 
Dal 
																punto di vista 
																della struttura 
																del periodico, è 
																da segnalare la 
																rubrica 
																Emeroteca, in 
																cui Giovanna 
																Dalla Chiesa 
																analizza alcune 
																riviste delle 
																avanguardie 
																storiche, 
																partendo da 
																quelle 
																surrealiste. 
																Poiché non è un 
																caso isolato in 
																quegli anni[37], 
																è probabile che 
																la crescente 
																consapevolezza 
																del ruolo 
																culturale svolto 
																dalla stampa 
																periodica spinga 
																a cercare radici 
																e antenati 
																illustri. 
Anche 
																se nel 1975 “Qui 
																arte 
																contemporanea” 
																perde Pietro 
																Sadun, l’anno si 
																apre con lo 
																speciale 
																dedicato a Dopo 
																il ’68 che 
																raccoglie 
																interventi di 
																Pierre Restany, 
																Renato Barilli, 
																Maurizio Fagiolo 
																dell’Arco, 
																Abraham A. Moles 
																e Verdone. 
Se 
																Barilli 
																sottolinea 
																l’emergere 
																dell’estetico, 
																come categoria 
																più ampia e 
																indistinta, 
																rispetto 
																all’artistico; 
																Verdone propone 
																un lungo 
																excursus che dal 
																cinema 
																underground 
																approda alla 
																videoarte, con 
																un taglio 
																interpretativo 
																in seguito 
																prevalente negli 
																studi italiani 
																sul video 
																d’artista[38].
																L’ultimo numero, 
																che porta la 
																data del giugno 
																1977, sembra 
																quasi preludere 
																a una nuova 
																fase, per altro 
																non 
																concretizzata. 
Due gli 
																elementi 
																caratterizzanti: 
																il testo di 
																Simona Weller 
																sulle donne 
																nell’arte e le 
																numerose 
																interviste agli 
																artisti. 
La 
																parte 
																monografica del 
																fascicolo, 
																infatti, è 
																dedicata a 
																Bilanci e 
																programmi: la 
																parola agli 
																artisti. Come 
																ricordato in 
																esordio, 
																nell’intento di 
																rilanciare 
																l’osmosi fra 
																arte e critica, 
																si interpellano 
																una quindicina 
																di artisti – fra 
																cui Carla 
																Accardi, Nicola 
																Carrino, Pietro 
																Consagra, Piero 
																Dorazio, Umberto 
																Mastroianni, 
																Fausto Melotti, 
																Giulio Paolini, 
																Giuseppe 
																Santomaso, 
																Giulio Turcato, 
																Giuseppe Uncini, 
																Claudio Verna – 
																sul proprio 
																lavoro e sulle 
																trasformazioni 
																delle pratiche 
																artistiche. 
Paolini 
																è l’unico 
																rappresentante 
																delle ultime 
																tendenze, che, 
																infatti, 
																rivendica la 
																natura non 
																comunicativa 
																della propria 
																ricerca e il 
																rifiuto a 
																confrontarsi con 
																la realtà 
																extrartistica, 
																coerentemente 
																con la natura 
																autoreferenziale 
																che la critica 
																gli ha 
																attribuito in 
																seguito. 
Sebbene 
																solo due, è 
																importante che 
																fra gli 
																intervistati 
																compaiano delle 
																donne: la 
																scultrice 
																americana 
																Beverly Pepper e 
																la pittrice 
																Accardi, loquace 
																la prima, tanto 
																quanto la 
																seconda è 
																elusiva. 
Carla 
																Accardi, 
																all’epoca 
																impegnata nel 
																movimento 
																femminista, nel 
																1971 aveva 
																esposto da 
																Editalia Le tre 
																tende, in cui le 
																trasparenze del 
																sicofoil 
																assumono 
																dimensione 
																ambientale. 
																L’attualità del 
																femminismo, di 
																cui si fa 
																interprete 
																Marisa Volpi, 
																introduce nel 
																“bilancio del 
																decennio” il 
																tema della donna 
																nell’arte, in un 
																clima culturale 
																in cui il 
																femminismo ha un 
																certo peso. 
																Piuttosto che 
																farlo in prima 
																persona, 
																tuttavia, la 
																storica 
																dell’arte 
																preferisce 
																affidare questo 
																compito a Simona 
																Weller, di cui 
																era appena 
																uscito Il 
																complesso di 
																Michelangelo. 
																Negli ultimi 
																anni anche le 
																artiste italiane 
																hanno sviluppato 
																coscienza 
																critica e si 
																sono avviate 
																sulla strada 
																dell’autorganizzazione, 
																grazie 
																all’impegno di 
																Nanda Vigo, di 
																Romana Loda e di 
																Lea Vergine, 
																confortate da 
																analoghi 
																movimenti 
																all’estero. 
																Mentre, di pari 
																passo, si sono 
																rivalutate 
																figure storiche 
																come Artemisia 
																Gentileschi o 
																Lavinia Fontana[39]. 
* Il presente studio si colloca nell’ambito dell’attività dell’Unità di ricerca della Seconda Università di Napoli, aderente al Progetto di Ricerca di Interesse Nazionale (PRIN) sull’Analisi critica delle riviste sulle arti nell’Ottocento e nel Novecento (coordinatore nazionale Rosanna Cioffi), al quale si devono due importanti convegni: Riviste d’arte fra Ottocento ed Età contemporanea. Forme, modelli, funzioni, atti del convegno (Torino, 3-5 ottobre 2002), a cura di G.C. Sciolla, Skira, Milano 2003; Percorsi di critica. Un archivio per le riviste d’arte in Italia dell’Ottocento e del Novecento, atti del convegno (30 novembre-1 dicembre 2006), a cura di R. Cioffi, A. Rovetta, Vita e Pensiero, Milano 2007. Desidero ringraziare Silvia Bordini, Gaia Salvatori e Nadia Barrella, per gli scambi di opinioni e i generosi suggerimenti su questo campo di studi.
[1] “Qui arte contemporanea”, 1976, n. 17, giugno 1977, p. 13.
[2] Su tale aspetto del sistema dell’arte cfr. E. Di Raddo, Arte “privata”: l’attività delle gallerie private all’inizio degli anni Settanta, in L. Caramel (a cura di), Arte in Italia negli anni Settanta. Opera e comportamento, Edizioni Kappa, Roma 1999, pp. 173-198; G. Bianchi et al., Gallerie, mercato, collezionismo, in La pittura nel Veneto. Il Novecento, Electa, Milano 2008, t. II, pp. 537-626. In generale, sui periodici di questa stagione cfr. anche D. De Dominicis, M. De Luca, Le riviste d’arte, “La Tartaruga. Quaderni d’arte e letteratura”, n. 5-6, marzo 1989, pp. 160-169; In/forma di rivista, catalogo della mostra (Roma, 1991), Roma 1991; G. Maffei, P. Peterlini, Riviste d’arte d’avanguardia. Gli anni Sessanta/Settanta in Italia, Bonnard, Milano 2005.
[3] Cfr. F. Gualdoni, Arte a Roma 1945-1980, Politi, Milano 1988; Roma anni ’60 al di là della pittura, catalogo della mostra (Roma, 20 dicembre 1990 – 15 febbraio 1991), Roma 1990; Roma 1950-1959, catalogo della mostra (Ferrara, 12 novembre 1995 – 18 febbraio 1996) a cura di F. D’Amico, Ferrara 1995; Roma in mostra 1970 1979. Materiali per la documentazione di mostre azioni performance dibattiti, a cura di D. Lancioni, Joyce & co., Roma 1995.
[4] Cfr. A. Vettese, La critica d’arte. I luoghi di un’autoriflessione, in Arte in Italia 1960-1985, a cura di F. Alfano Miglietti, Politi, Milano 1988, pp. 23-39; M.T. Roberto, “Bit”, “Flash Art”, “Data” e la situazione artistica in Italia tra anni Sessanta e Settanta, in Riviste d’arte…, 2003, pp. 299-305; G. Contessi, “NAC” un caso italiano, in Riviste d’arte…, 2003, pp. 307-310; S. Bordini, Artisti e critici: note sul dibattito tra gli anni Cinquanta e Sessanta, in Arte del XX secolo. 1946-1968. La nascita dell’arte contemporanea, Skira, Milano 2007, pp. 222-233. Per certi versi in controtendenza, invece, è “Op. cit.”: cfr. G. Salvatori, Il progetto culturale di “Op. cit. Selezione della critica d’arte contemporanea” a Napoli 1960-1980, in Riviste d’arte…., 2003, pp. 283-298.
[5] H. Rosenberg, Tradition of the New, Grove Press, New York, 1961 (trad. it. Feltrinelli 1964); l’autore parteciperà al dibattito Critica e libertà, nel gennaio 1970, nella sede della galleria romana.
[6] Cfr. R. Barilli, L’estate delle mostre, “Quindici”, n. 4, settembre-ottobre 1967 (ora in Id., Informale Oggetto Comportamento, Feltrinelli, Milano 1979, Vol. II, pp. 22-30), cit. in A. Trimarco, Filiberto Menna. Arte e critica d’arte in Italia 1960-1980, La città del sole, Napoli 2008.
[7] Tema ricorrente nella stampa dell’epoca: cfr. V. Rubiu, Boccioni e la critica italiana, “Marcatré”, 1966, n. 26/27/28/29, pp. 140-142, in cui si ricordano Argan e Calvesi che, negli anni Cinquanta, fanno da apripista e la successiva monografia di Guido Ballo.
[8] Cfr. C. Bruni, Le aste in Italia, tutto da rifare, “Marcatré”, n. 11-12-13, 1965, pp. 330-331.
[9] Cfr. Tavola rotonda, “Qui arte contemporanea”, n. 1, luglio 1966, pp. 5-8. 
[10] M. Volpi, Strutture primarie e minimal art, n. 4, novembre 1967, p. 30.
[11] L.M., L’estate calda dell’immagine, “Qui arte contemporanea”, n. 4, novembre 1967, pp. 40-41; la concentrazione delle manifestazioni attira l’attenzione dei critici più vigili, tra cui R. Barilli, L’estate delle mostre, cit.; e G. Veronesi, Su qualche mostra dell’estate italiana, “Op. cit.”, n. 10, 1967, pp. 53-59, cit. in G. Salvatori, “Op. Cit.”…
[12] Tra i quali, oltre ai nomi citati nel testo, G. De Marchiis, P. Portoghesi, S. Scarpitta, Ch. S. Spencer; a cui, negli anni, si aggiungeranno M. Bentivoglio, C. Brandi, G. Contessi, P. Descargues, M. Fagiolo dell’Arco, P. Fossati, M.L. Frongia, U. Kultermann, G. Lista, C. Maltese, G. Markopoulos, S. Pinto, V. Rubiu, C. Spadoni, E. Schloss, C. Strinati, A. Trimarco, E. Villa, e molti altri.
[13] C. Cintoli, Per una mostra di Eliseo Mattiacci al Circo Massimo, “Qui arte contemporanea”, n. 5, marzo 1969, p. 43, poi in “Cartabianca”, maggio 1969, pp. 30-40.
[14] Carlo Quartucci parla della regia de “I testimoni” di Rozewicz al Teatro stabile di Torino, “Qui arte contemporanea”, n. 5, marzo 1969, p. 27; Marisa Volpi, d’altronde, aveva già segnalato la radicalità dell’operazione su “Cartabianca”, 15 gennaio 1969, pp. 14-19.
[15] Cfr. G. Paolini, Note per le scene e i costumi, “Qui arte contemporanea”, n. 6, settembre 1969, p. 38.
[16] Cfr. “Qui arte contemporanea”, n. 6, settembre 1969, pp. 64-65: sebbene il testo non sia firmato, come la maggior parte delle segnalazioni della rubrica Cronaca, può essere verosimilmente attribuito alla curatrice, Simonetta Lux.
[17] Cfr. T. Trini, “La linea Manzoni”, “Qui arte contemporanea”, n. 5, marzo 1969, pp. 30-33.
[18] C. Cintoli, C’è chi…, “Qui arte contemporanea”, n. 6, settembre 1969, p. 40.
[19]         L. Grisi, L’aria e la certezza visiva di uno spazio, “Qui arte contemporanea”, n. 6, settembre 1969, p. 70.
[20]         G. Celant, L’adottarci del nostro territorio, “Qui arte contemporanea”, n. 6, settembre 1969, p. 21.
[21]         Ibidem, p. 19.
[22]         Cfr. G. Celant, Robert Morris, “Qui arte contemporanea”, n. 7, dicembre 1971, pp. 36-43: una delle prime volte in cui si fa riferimento a Information Documentation Archives, l’archivio fondato a Genova.
[23]         Celant e Vergine sono redattori di “Marcatré”, periodico a cui chi scrive sta dedicando uno studio specifico. Merita comunque di essere segnalata la presenza delle medesime firme – in questi anni – sulla maggior parte dei periodici di settore: un dato strutturale, probabilmente, che poco garantisce il pluralismo.
[24]         Cfr. “Qui arte contemporanea”, n. 8, giugno 1972, p. 42.
[25]         P. Restany, Venezia 1972 o i limiti del comportamento, “Qui arte contemporanea”, n. 9, ottobre 1972, pp. 11-12.
[26]         G. Celant, Iperrealismo come imperialismo, “Qui arte contemporanea”, n. 9, ottobre 1972, pp. 44-49.
[27]         M. Volpi, Autobiografismo, trompe l’oeil, concettualismo e violenza, “Qui arte contemporanea”, n. 9, ottobre 1972, pp. 50-57.
[28]         F. Menna, Dibbets: una rotazione di 360 gradi, “Qui arte contemporanea”, n. 9, ottobre 1972, pp. 16-20.
[29]         Sotto tale riguardo è da segnalare l’attenzione alla riproduzione fotografica, sempre ricca e di qualità, di cui fin dall’inizio si menzionano gli autori, con una sensibilità ancora rara all’epoca.
[30]         Quell’anno la studiosa presenta in galleria prima Glossario (Aricò, Battaglia, Cotani, Griffa, Morales, Verna, Bell, Hafif, Marden, Ryman, Zakanych) e poi Maestri surrealisti.
[31]         L. Vergine, Il «caso» Gilbert e George, “Qui arte contemporanea”, n. 11, giungo 1973, pp. 41-44.
[32]         Cfr. A. Boatto, L’immaginario in Pascali e Kounellis, “Qui arte contemporanea”, n. 12, novembre 1973, pp. 47-54; il critico è in procinto di curare Ghenos Eros Thanatos, alla galleria De Foscherari di Bologna.
[33]         L. Vergine, La difesa della perdita, o del “piacere regressivo”, “Qui arte contemporanea”, n. 12, novembre 1973, p. 57.
[34]         M. Volpi, Fine dell’avanguardia, “Qui arte contemporanea”, n. 15, settembre 1975, p. 41.
[35]         Cfr. A Roma, la nostra era avanguardia, catalogo della mostra (Roma, 23 gennaio – 5 aprile 2010) a cura di L.M. Barbero e F. Pola, Mondadori Electa, Milano 2010.
[36]         E. Crispolti, Appunti su Christo, “Qui arte contemporanea”, n. 13, maggio 1974, pp. 41-45. 
[37]         Se ne erano avuti i primi sentori su “Marcatré”, già dal 1965, con alcune selezioni curate da D. Palazzoli, seguite, dal 1966, dall’istituzione di una specifica rubrica.
[38]         Cfr. M. Verdone, Dal cinema underground alla video-art, “Qui arte contemporanea”, n. 15, settembre 1975, pp. 21-28. 
[39]         S. Weller, M. Volpi, Lettera aperta: le donne nell’arte, “Qui arte contemporanea”, n. 17, giugno 1977, pp. 50-56; tema d’attualità già comparso su “Data”: cfr. S. Bordini, La rivista come spazio espositivo: artisti e critici in “Data”, in Percorsi di critica…, 2007, pp. 501-508.

