«I
redattori
vogliono
ribadire la loro
completa
disponibilità di
fronte a coloro
che operano
creativamente,
seguendo in ciò
lo spirito di
una rivista
fondata nel 1966
da un gruppo di
pittori e
scultori»[1].
Con questa
dichiarazione si
apre l’inchiesta
lanciata da “Qui
arte
contemporanea”,
in quello che
sarà l’ultimo
numero di uno
dei periodici
più longevi, tra
quelli promossi
dalle gallerie
private romane.
Pur con
inevitabili
distinguo,
infatti, le
altre iniziative
capitoline si
collocano sotto
il segno del
transitorio[2]:
da “Appia
antica”, animata
da Emilio Villa,
a
“Senzamargine”,
dai bollettini
della Salita o
della Tartaruga,
al “Notiziario
della Medusa” a
“Rondanini”[3].
L’informazione è
il naturale polo
di attrazione di
questa
costellazione
editoriale, non
solo per dare
visibilità alle
mostre e agli
artisti,
sostituendosi
perfino al
catalogo,
talvolta; ma
anche perché,
proprio tra gli
anni Sessanta e
Settanta, la
critica d’arte
pare
indietreggiare,
sotto il peso
dell’inadeguatezza
dei propri
strumenti
ermeneutici,
preferendo
lasciare parlare
i protagonisti,
attestandosi non
di rado sulla
cronaca,
piuttosto che
interpretare[4].
Nata
come costola
dell’attività
editoriale
specializzata di
Editalia, “Qui
arte
contemporanea”
precede di pochi
mesi
l’inaugurazione
ufficiale dello
spazio
espositivo. La
rivista, diretta
da Lidio Bozzini
(condirettore
responsabile
Mario Guidotti),
esce da luglio
1966 a giugno
1977, con una
media di due
numeri l’anno,
per un totale di
diciassette
fascicoli. In
redazione si
alternano
artisti e
critici:
originariamente
il comitato
redazionale era
formato da
Giuseppe
Capogrossi,
Ettore Colla,
Lucio Fontana,
Leoncillo
Leonardi,
Seymour Lipton,
Victor Pasmore e
Piero Sadun,
affiancati da
Giovanni
Carandente e
Marisa Volpi,
fra tutti la più
impegnata
nell’attività
dell’omonima
galleria.
Accanto a questi
ultimi, negli
anni, si
avvicendano i
critici Alberto
Boatto, Aldo
D’Angelo,
Lorenza Trucchi
e Mario Verdone.
Le autorevoli
firme che la
animano,
tuttavia,
scelgono altre
sedi per i
contributi
teorici che
alimentano il
dibattito
critico
nazionale di
quegli anni, che
fa da sfondo
alle vicende qui
tratteggiate. Le
presenti note,
infatti, gettano
uno sguardo di
insieme sul
periodico, del
quale
sorprendono le
scelte a favore
di artisti e di
correnti molto
sperimentali,
più che le
singole
posizioni
critiche, spesso
implicite,
appunto, nel
dare conto di
determinate aree
espressive
piuttosto che di
altre. Sotto
questo riguardo,
soprattutto tra
il 1969 e il
1972, la rivista
si interessa
alle pratiche
performative e
alle ricerche di
area poverista,
in seguito
estranee
all’attività
della galleria.
Oltre
la longevità,
altra
caratteristica
di “Qui arte
contemporanea” è
l’equilibrio fra
documentazione
del presente e
interesse per
l’arte
dell’Ottocento e
delle
avanguardie:
opzione da
ricondurre, in
sintesi, al
debito
dichiarato nei
confronti de La
tradizione del
nuovo, il testo
miliare di
Harold Rosenberg[5],
in cui si
riconosce che la
ricerca della
novità è parte
integrante della
cultura, da
Charles
Baudelaire in
poi, sostenendo
pertanto una
sostanziale
sinonimia fra
moderno e nuovo.
D’altro
canto, la
convivenza fra
taglio
storiografico e
militanza – è
stato scritto –
è anche il
tratto
peculiare, di un
drappello di
critici vicini,
in misura
variabile,
all’insegnamento
di Giulio Carlo
Argan e, quindi,
a questa altezza
cronologica, di
area romana[6].
In tal
senso, se nel
primo numero di
“Qui arte
contemporanea”
si ospita un
ampio saggio su
Umberto
Boccioni, nel
cinquantenario
della morte[7],
in seguito ci si
occuperà della
metafisica, del
surrealismo e
così via. Mentre
di pari passo,
l’omonima
galleria propone
la mostra
documentaria
Dada,
cinquant’anni
dopo (ottobre
1966) e la
monografica su
Dottori (marzo
1970); più oltre
Maestri
surrealisti
(dicembre 1973)
e il focus su
Melotti
(febbraio 1976).
Un impegno che,
negli anni
Ottanta,
prosegue con le
mostre sul
Futurismo.
All’idea del
reportage si
ispirano – oltre
all’iniziale
rubrica
Pallacordasette,
dedicata al
dialogo con i
lettori – sia la
sezione sul
mercato
dell’arte, ora
più articolato e
dinamico che in
passato, in cui
Claudio Bruni
registra
l’andamento
delle aste, per
autori viventi e
non[8];
sia la rubrica
Quincontri, con
rapide sintesi
delle attività
promosse da
Editalia spesso
accompagnate da
fotografie a
metà strada tra
ufficialità e
mondanità. Nel
primo numero, in
attesa delle
sollecitazioni
dei lettori, si
propone
un’ideale tavola
rotonda fra
addetti ai
lavori, su temi
di attualità:
Lorenza Trucchi
e Plinio De
Martiis
riflettono, da
diverse
prospettive,
sulle
trasformazioni
presenti e
futuribili del
collezionismo di
arte
contemporanea;
mentre Franco
Russoli prova a
tratteggiare le
peculiarità del
museo d’arte
contemporanea,
un apparente
ossimoro[9].
Il
secondo numero è
sostanzialmente
consacrato alla
Biennale di
Venezia, alla
quale non
vengono lesinate
le critiche
tanto di Cesare
Vivaldi quanto
di Nello
Ponente, mentre
più sfumate sono
le reazioni ai
padiglioni
nazionali. Le
restanti
recensioni delle
mostre sono
raccolte nella
rubrica Opere
viste, che a
lungo
sottolineerà
l’approccio
diretto –
giornalistico,
ancora una volta
– dell’autore,
non di rado un
corrispondente
fisso, da Londra
o da New York.
L’editoriale del
terzo numero,
del marzo 1967,
precisa i
confini della
tradizione del
nuovo, che da
Baudelaire a
Édouard Manet
arriva, nel caso
italiano,
attraverso il
futurismo e la
metafisica, al
Gruppo Origine,
cui Maurizio
Calvesi dà ampio
spazio. Gli
accenti polemici
riguardano
soprattutto i
tentativi
francesi di
monopolizzare le
avanguardie
storiche, sotto
l’egida
omnicomprensiva
di Scuola di
Parigi,
all’interno
della quale,
però, si
stemperano le
differenze fra
maestri ed
epigoni. Da
segnalare, in
questo
fascicolo, il
testo di K. L.
McShine su
Joseph Cornell,
autore in
posizione
storicamente
intermedia fra
la prima ondata
di emigrazione
europea negli
USA e la nuova
generazione di
artisti
americani.
Dal
numero
successivo, del
1967, la rivista
si anima
parecchio,
complice
l’effervescenza
dell’atmosfera
artistica, con
le nuove
ricerche di area
minimal, la
crescita
dell’happening e
della
performance. Si
colgono,
infatti, le
diverse
sfaccettature
delle indagini
sullo spazio,
condotte sia in
Italia sia
all’estero:
Marisa Volpi –
che in galleria
cura proprio una
mostra sulla
Terza dimensione
con opere di
Jannis
Kounellis, Livi,
Sergio Lombardo,
Carlo
Lorenzetti, Pino
Pascali e
Giuseppe Uncini
– dà conto della
rassegna Primary
Structures
(Jewish Museum)
in cui gli
artisti
statunitensi,
più degli
europei,
sembrano
impegnati a
“sbarrare la
strada a
qualsiasi
interpretazione”[10].
I riferimenti di
questi giovani
sono diversi: da
Mies van der
Rohe, a
Buckminster
Fuller, fino a
Tony Smith i cui
lavori esigono
una pluralità di
punti di
osservazione,
sottolineando la
continuità fra
lo spazio
dell’opera e
quello dello
spettatore. Nel
medesimo numero,
anche Claudio
Cintoli si
appassiona ai
lavori di Smith,
simili a
cristalli –
scrive –
scheggiati
secondo la
composizione
molecolare.
D’altronde,
basta sfogliare
la rubrica Opere
viste per
ritrovare la
sorprendente
fioritura
italiana di
ricerche visuali
e ambientali:
dalle mostre Il
tempo
dell’immagine
(Bologna), Lo
spazio
dell’immagine
(Foligno), Nuove
tecniche di
immagine (San
Marino), Impatto
percettivo
(Amalfi), al
convegno della
critica dedicato
allo Spazio
nelle arti
visive[11].
Il
fluire degli
eventi
Dopo la
battuta
d’arresto del
1968 – dovuta
non solo alla
contestazione,
che ha travolto
la Biennale di
Venezia e la
Triennale di
Milano, ma anche
ai lutti – “Qui
arte
contemporanea”
riprende le
pubblicazioni
nel marzo
seguente: a
Carandente,
Sadun e Volpi
nella redazione
si affianca
Lorenza Trucchi.
Il rinnovamento
interno porta a
pubblicare il
nutrito elenco
dei
collaboratori
vecchi e nuovi,
fra cui spicca
la giovane
generazione sia
di critici, che
in breve tempo
distingueranno
le proprie
strade, sia di
artisti[12].
Sviluppando
alcune scelte
dell’ultimo
numero del 1967,
adesso il
periodico si
sbilancia verso
le ricerche più
innovative,
tanto che il
quadriennio
1969-1972
corrisponde alla
fase di maggiore
vivacità. Così,
ad esempio, nel
primo numero del
‘69, tra i
ricordi dei
maestri
scomparsi,
Marisa Volpi
sollecita tre
coetanei di Pino
Pascali a
rendergli
omaggio: Claudio
Cintoli opta per
la forma
epistolare;
Jannis Kounellis
elenca le
passioni
dell’ami-co; ed
Eliseo Mattiacci
tesse l’elogio
dell’estro
inventivo. Ne
viene fuori il
ritratto
sfaccettato
della meteora
Pascali:
l’azione che
arriva a
sostituirsi
all’oggetto; la
fascinazione per
la nuova arte
americana; la
manualità e il
feeling con i
materiali
primari.
L’interesse per
nuove forme di
agire artistico,
spesso
svincolato dalla
concretezza
dell’oggetto –
seguite
all’epoca solo
da rare e
coraggiose
gallerie
d’avanguardia
fra cui non è
possibile
annoverare
Editalia – è
testimoniato
dalla cronaca
dell’happening
di Eliseo
Mattiacci, Il
tempo del vento,
in occasione di
Lavori in corso
al Circo
Massimo. A sua
volta, Cintoli
ne dà notizia
con un testo
quasi
performativo,
costituito
dall’elenco
delle azioni da
compiere o da
evitare, per
assistere
all’evento[13].
È da
ricondurre
all’incontro fra
arti visive e
teatro anche
l’intervento del
regista de I
testimoni,
andato in scena
al Teatro
Gobetti di
Torino nel
novembre 1968.
Proprio in
questo caso il
numero sembra
accogliere,
senza filtri, il
fluire degli
eventi dato che
pubblica due
pagine
manoscritte di
Carlo Quartucci
in cui parole e
disegni, appunti
e schizzi, sono
un disordinato
diario delle
contaminazioni e
dei prestiti
letterari e
visivi confluiti
in uno
spettacolo
dirompente e
nichilista. La
scena era
dominata dai
carrelli di
Kounellis, mossi
dagli attori con
ampio margine di
libertà,
metafora
dell’instabilità
dell’insieme, in
cui nessuno
sembra trovare
il proprio
posto.
L’idea
dello spettacolo
come collage o
assemblage
visivo, ancora
valida per
Cartoteca, è
teatralmente
superata, scrive
Quartucci,
poiché adesso
«lo spettacolo
andava visto da
dentro: era un
accadimento, non
una
rappresentazione
[…]. C’era un
tempo teatrale
quello sui
carrelli, e un
tempo reale
quello degli
attori che si
muovevano fuori
dei carrelli,
che è appunto lo
stesso tempo di
chi guarda…»[14].
La
contiguità fra
pratiche
artistiche e
teatrali è
ribadita dalla
recensione di
Giulio Paolini a
Happening di
Michael Kirby,
appena tradotto
in italiano. Si
tratta della
prima delle tre
collaborazioni a
“Qui arte
contemporanea”
da parte
dell’artista
torinese che,
nell’aprile
1968, aveva
partecipato alla
collettiva Fabro
Kounellis
Paolini e del
quale,
all’inizio del
1970, Marisa
Volpi cura la
personale in
galleria. La
seconda
collaborazione –
nel numero
successivo – è
una rapida
descrizione
delle scene e
dei costumi per
il Bruto secondo[15],
dominate dal
bianco inteso
come non colore,
in riferimento
alla natura
astratta del
dramma
alfieriano.
Dell’ultima
collaborazione a
“Qui arte
contemporanea”
si parlerà più
oltre. Gli
sconfinamenti
fra teatro e
arti visive
sono, oramai,
all’ordine del
giorno: per
esempio, alla
Galleria
Nazionale d’Arte
Moderna di Roma,
è inscenato
dalla compagnia
Cricot 2, Poule
d’eau,
specializzata
nella pantomima
e
nell’improvvisazione,
pratiche
limitrofe e
perfino
coincidenti con
l’happening[16].
D’altronde, nel
maggio 1968 a
Roma, la
galleria La
Tartaruga aveva
dato vita a un
“festival di
spettacoli senza
replica”, come
potrebbe essere
definito il
Teatro delle
mostre; mentre
in ottobre, Arte
povera + Azioni
povere (Amalfi,
Arsenale
vecchio)
suggerisce,
quasi
didascalicamente,
la coesistenza
alla pari di
oggetti e di
comportamenti
nella poetica
poverista,
appena delineata
da Germano
Celant.
Tale
chiave
interpretativa
si proietta
perfino nella
rilettura di
Piero Manzoni,
proposta da
Tommaso Trini
che, pur in
assenza di
inquadramento
storico e di
disamina
critica,
sottolinea la
centralità
dell’operazione
Divorare l’arte,
intesa come
collaborazione
fra artista e
pubblico, più
che come gesto
neo-dada[17].
Parole
d’artista
La
rinuncia, da
parte degli
artisti, alle
forme
tradizionali
della mediazione
critica si fa
sentire anche
sulla carta
stampata. Nel
secondo numero
del 1969, ad
esempio, si
pubblica il
testo
manoscritto con
cui Cintoli
accompagna
Cucchiai del
firmamento
(1967-69).
Accanto alle
cronache d’arte,
quindi, il
marchigiano
firma il
racconto in cui
un “Edmondo
qualunque”
scopre che il
proprio
ombelico,
abbandonato il
corpo, è finito
in un cucchiaio
da pasto. Il
testo è
intessuto di
giochi di
parole,
anagrammi,
nonsense, rime e
ritornelli[18],
degno
accompagnamento
a I cucchiai del
firmamento che,
straniati e
obliterati
rispetto alla
funzione d’uso,
sono
strettamente
imparentati con
gli oggetti
surrealisti.
Riproduzione
dell’opera e
testo, su due
pagine
affrontate, si
completano,
prive di alcun
commento o
introduzione,
sono
autosufficienti.
Laura
Grisi, in
occasione della
personale alla
Marlborough
Gallery di Roma,
ad esempio,
interviene per
chiarire che gli
oggetti presenti
negli ambienti
«sono i mezzi
con cui metto in
luce degli spazi
diversi,
“diversi” anche
se generati da
fenomeni
piuttosto
consueti»[19].
Il
riferimento è
agli ambienti
dedicati agli
elementi
naturali come la
nebbia, il
vento, la
pioggia, a cui
l’artista lavora
già da qualche
anno, e nei
quali l’opera è
rappresentata
proprio dai
fenomeni
atmosferici,
provocati e
regolati nel
tempo.
Controllati come
esperimenti di
laboratorio,
ognuno di questi
fattori genera
spazio grazie
alla dialettica
con gli oggetti.
È una ricerca
particolarmente
in sintonia con
il clima
internazionale,
basti ricordare,
durante il 1969,
le operazioni di
Robert Barry –
sostenute da
Seth Siegelaub –
con i gas inerti
dispersi
nell’aria.
Il
fascicolo ospita
anche un ampio
contributo di
Germano Celant
che, prendendo
spunto da due
importanti
rassegne appena
concluse, Op
Losse Schroeven
(Amsterdam) e
When attitudes
become form
(Berna), mette a
fuoco alcune
contraddizioni
della critica,
sempre più
inadeguata a
rendere conto di
un’arte basata
sull’esperienza
diretta
dell’opera,
spesso
sinestetica ed
effimera,
rispetto alla
quale
descrizione e
documentazione,
per quanto
estese, non
potranno mai
«ricostruire le
condizioni
psicofisiche,
atte a ricreare
l’apprensione
diretta del
lavoro»[20].
È evidente,
infatti, che
fotografia e
testo sono poca
cosa per rendere
l’esperienza
magmatica e
frammentaria
della visita a
esposizioni di
questo tipo.
D’altronde gli
strumenti
tradizionali
della critica
d’arte si
trovano a mal
partito già di
fronte a singole
opere, come
Splash Piece di
Richard Serra
(1968) o
Scrittura
simpatica (1968)
di Gilberto
Zorio: il resto
di un’azione, la
prima, opera in
azione la
seconda.
Tuttavia una
chiave
ermeneutica
emerge anche di
fronte a tali
proposte
dirompenti: esse
promanano
dall’“artista-alchimista”
nel cui lavoro
corpo umano,
animali, piante
e minerali
convivono pur
con inevitabili
disomogeneità
morfologiche,
perché «tutti
questi sistemi
vitali
funzionano in
modo simile,
legati – come
sono – a
processi comuni
di metabolismo.
Per questo
l’artista,
insieme
all’ecologo e al
biologo, ha
iniziato a
portare
l’interesse al
funzionamento
vitale, ha
rinunciato alla
descrizione e
alla
rappresentazione
dell’aspetto
esteriore della
natura»[21].
Dopo un
ulteriore anno
di silenzio, la
rivista riprende
le pubblicazioni
nel 1971, con
l’entrata in
redazione di
Mario Verdone,
che assicura gli
approfondimenti
sul cinema delle
avanguardie
storiche e degli
anni Sessanta.
Si inizia con
Heartfield e
Dada, affiancati
dai saggi di
Paolo Fossati su
Max Ernst e di
Marisa Volpi sul
Blaue Reiter (al
quale aveva
appena dedicato
una monografia).
Il fascicolo si
segnala per il
lungo intervento
in cui Celant
ripercorre quasi
ad annum la
carriera di
Robert Morris,
mettendo in
evidenza la
centralità della
danza, e quindi
del corpo, nel
rapporto con gli
oggetti e con
gli ambienti, e
sottolineando il
parallelo
impegno teorico
nella
formulazione
dell’Antiform[22].
Altra esponente
di spicco di una
nuova
generazione di
critici vicini
alle tendenze
più innovative è
Lea Vergine, che
si occupa di
arte
programmata. Due
intellettuali
militanti, la
cui
collaborazione a
“Qui arte
contemporanea”
si concentra nel
biennio 1969-70,
momento
difficile per
“Marcatré”,
rivista teorica
alla quale
collaborano con
maggiore
continuità[23].
Oltre
la cronaca
Nel
1972, “Qui arte
contemporanea”
inaugura un
taglio
monografico,
dedicato ad
argomenti di
volta in volta
diversi. Si
inizia con un
tema di estrema
attualità, come
i rapporti fra
Arti figurative,
fotografia e
cinema, nel
quale
confluiscono,
ancora una
volta, saggi di
taglio storico
(Marina Miraglia
su Francesco
Paolo Michetti
fotografo, Dora
Vallier sugli
impressionisti e
Enrico Crispolti
sul futurismo) e
interventi
legati
all’attualità
come quello di
Lorenza Trucchi
sul fotografico
nella pittura di
Francis Bacon e
di Daniela
Palazzoli che –
alla prima
collaborazione
con il periodico
di Editalia –
mette pittura e
fotografia in
alternativa,
secondo la
filosofia
dell’imminente
rassegna
Combattimento
per un’immagine.
Frank Popper si
occupa del
movimento
nell’arte, tema
a cui ha
dedicato un
libro di ampia
storicizzazione,
appena tradotto
in italiano;
Mario Verdone si
focalizza sul
cinema astratto
di Viking
Eggeling e
Alberto Boatto
si concentra su
Luca Patella,
inventivo
sperimentatore
di mezzi
fotografici e
cinematografici,
ibridati con
l’intervento
diretto
dell’autore.
Infine, di
Annette
Michelson si
traduce il
saggio su
Michael Snow,
apparso l’anno
prima su
“Artforum”[24].
È fondamentale
sottolineare che
l’attenzione è
rivolta agli
scambi fra la
pittura e i
nuovi media,
rintracciando
gli antecedenti
ottocenteschi
dell’introiezione
dello sguardo e
del prodotto
fotografici, e
valorizzando
pratiche
artistiche
attuali ma
liminari.
In
sintonia con i
rapporti fra
pittura e
immagine
mediatica,
Paolini conclude
la
collaborazione
con il periodico
romano con Una
nuova
confutazione del
tempo: il testo
– costituito da
citazioni da
Jorge Luis
Borges e da
Chaung Tzu,
sulla natura
ambigua della
temporalità, fra
soggettività e
oggettività –
accompagna le
riproduzioni di
Giovane che
guarda Lorenzo
Lotto (1967) e
di L’invenzione
di Ingres
(1968). Nelle
note
introduttive,
Marisa Volpi
sottolinea che
in Paolini la
fotografia è
strumento per
dialogare con il
passato (e con i
maestri antichi,
quindi), e
oggettivare il
tempo. Nel
frattempo,
l’artista ave-va
partecipato in
galleria a
Understatement
(Luciano Fabro,
Maurizio
Mochetti, Samuel
Montealegre,
Hidetoshi
Nagasawa, Giulio
Paolini, Antonio
Trotta, gennaio
1971), curata
dalla medesima
Volpi, alla
quale si devono
buona parte
degli interventi
diretti degli
artisti sul-le
pagine della
rivista.
Seconda
novità
introdotta da
questo numero,
oltre alla parte
monografica, è
la sezione
Profilo, una
sorta di inserto
in
quadricro-mia,
dedicato ogni
volta a un
artista diverso:
si inizia
ovviamente con
Sadun, e si
prosegue con
artisti già
affermati, come
Carla Accardi,
Afro, Pietro
Consagra,
Umberto
Mastroianni,
Giulio Turcato,
Emilio
Scanavino.
La
scelta di
concentrare
buona parte
della rivista
attorno a un
tema, sembra
rispondere
all’esigenza di
arginare
l’eterogeneità
della cronaca.
Il dissidio è
solo
apparentemente
risolto nel
secondo numero
del 1972,
dedicato alle
due rassegne
internazionali:
la XXXVI
Biennale
Internazionale
d’Arte di
Venezia e la
quinta edizione
di Documenta, a
Kassel. È
interessante
notare come i
giudizi critici
raccolti siano
divergenti:
della rassegna
veneziana,
Pierre Restany
censura alcuni
eccessi
dell’arte di
comportamento,
che hanno
ridotto l’azione
a puro
volontarismo (è
il caso di Gino
De Dominicis, ad
esempio), mentre
approva le
proposte di
Mario Merz,
Germano Olivotto
e Franco
Vaccari, per i
quali l’azione
verifica un
sistema di
intervento
precostituito[25].
Al contrario, di
Documenta 5
Germano Celant
apprezza proprio
le pratiche più
ibride. Nella
recensione,
programmaticamente
intitolata
Iperrealismo
come
imperialismo, la
referenzialità è
equiparata al
“ritorno
all’ordine”. Con
il sostegno di
gallerie e
istituzioni
statunitensi, si
fa largo un’arte
rassicurante
tanto
economicamente
quanto
ideologicamente,
latrice di
un’esperienza
estetica
immediata e un
po’ facile. Più
interessante il
clima che si
respira nella
seconda sezione,
ordinata nel
Museum
Federicianum –
continua Celant
– con arte
concettuale e
minimal,
performance e
video, danza e
musica,
penalizzate,
tuttavia,
dall’allestimento
caotico e
affollato[26].
Più
sfumato, ma
sostanzialmente
in linea con
quest’ultimo, il
giudizio di
Marisa Volpi,
che recensisce
la medesima
rassegna
tedesca: il
naturalismo di
Edward
Kienholtz, ad
esempio, è
interpretato
come denuncia;
l’indulgenza
autobiografica e
la messa in
scena delle
pulsioni più
sopite –
evidenti in
Christian
Boltanski,
Marcel
Broodthaers, Ben
Vautier e Luca
Sarmas – sono
ricondotte alle
avanguardie
storiche che,
per prime, hanno
equiparato arte
e vita.
Nel
dare conto
dell’ampia
presenza di
videotape e film
d’artista, di
cui il 1972
decreta l’ascesa
anche in Italia,
la storica
dell’arte
rimarca la
somiglianza
delle selezioni
proposte a
Kassel e a
Venezia: fra
tutti spiccano
Eurasienstab di
Joseph Beuys e
Nature of our
looking di
Gilbert & George[27].
Chiude
il fascicolo la
raffinata
riflessione di
Filiberto Menna
che, a proposito
del Padiglione
olandese alla
Biennale di
Venezia,
rintraccia
nell’attitudine
analitica di
Piet Mondrian le
premesse del
lavoro
fotografico di
Jan Dibbets[28].
1973:
un anno di
transizione
Perfino
la copertina,
fin qui
essenziale e
sobria,
sovrastata dalla
storica testata
disegnata da
Ettore Colla, su
un fondo di
colore
differente a
ogni numero,
opta adesso per
la riproduzione
a colori di
un’opera
dell’artista a
cui si dedica il
Profilo. Ad
inaugurare la
nuova veste
grafica –
funzionale al
periodico di una
galleria
privata, per
vocazione
sostenuta dal
collezionismo[29]
– pertanto, è
Afro. Mentre a
Giulio Carlo
Argan è affidato
il compito di
ricordare
Giuseppe
Capogrossi,
scomparso
nell’ottobre
1972, fondatore
della rivista e
del quale lo
storico
dell’arte
torinese aveva
curato, nel
1967, il
catalogo
ragionato,
proprio per
Editalia. Anche
nei contenuti si
intravedono i
segni del
lento virare
degli interessi
di “Qui arte
contemporanea”,
dato che il
numero è
incentrato sulle
varianti del
realismo, dal
Settecento al
presente, con un
meditato saggio
di Udo
Kultermann – di
cui era appena
uscito New
Realism – che
rivaluta proprio
le proposte
dell’iperrealismo
e del
naturalismo
con-temporanei,
in evidente
discontinuità
con la linea
precedentemente
proposta da
Celant, che per
altro non
prosegue oltre
la
collaborazione
con il periodico
romano.
Il
secondo numero
del 1973 è più
vario: nel dare
conto della
mostra
Philadelphia in
New York, Marisa
Volpi[30]
opta per uno
sguardo
storicizzante
che ribadisce la
fecondazione
europea
dell’arte
americana
contemporanea,
enucleando le
opere più
significative di
due importanti
collezioni
private –
Arensberg e
Gallatin –
donate al Museo
di Philadelphia
e spina dorsale
della rassegna.
Sono invece
virati verso
l’attualità, le
analisi di
Filiberto Menna
delle
Investigazioni
linguistiche di
Kosuth, e quelle
di Gillo Dorfles
sulla dimensione
temporale
condivisa
dell’arte
ambientale tanto
quanto dal
comportamento,
negli USA, con
particolare
attenzione a Dan
Graham. Per
certi versi
confluente è
l’intervento di
Lea Vergine, che
sintetizza gli
ultimi tre anni
di attività di
Gilbert &
George, preludio
al volume sulla
Body Art[31].
Difatti
la studiosa
napoletana, nel
numero
successivo, si
occupa del
piacere
regressivo,
all’interno di
un fascicolo
consacrato alle
categorie
psicanalitiche
applicate
all’arte, con
interventi che
vanno dalle arti
primitive a
Pascali e
Kounellis, sui
quali fa il
punto il lungo
intervento di
Alberto Boatto[32].
In tale cornice
teorica,
Vergine, più che
di sublimazione,
preferisce
parlare di
regressione,
visto
l’incremento di
testimonianze
biografiche che
rifluiscono
nelle opere, con
punte di
esibizionismo,
spesso a sfondo
sessuale, come è
noto. Un’arte
per la quale
diventano
adeguati
sostantivi come
autismo,
narcisismo,
«compiacimento
sadico, non solo
verso se stessi,
ma nei riguardi
dello
spettatore»[33].
Modalità a cui
si uniforma
anche la
rivista,
sembrerebbe,
visto il ricco
apparato
illustrativo.
Fuori
dalla mischia:
1974-1977
Dal
1974, tuttavia,
il rapporto
proficuo con le
neoavanguardie
sembra
interrompersi,
il comitato
redazionale
concentra le
proprie
attenzioni
sull’arte
dell’Ottocento e
del primo
Novecento.
D’altronde,
anche l’attività
editoriale ed
espositiva di
Editalia si
sposta
progressivamente
su terreni più
sicuri come la
grafica
d’autore,
l’informale e le
ricerche
gestaltiche,
allontanandosi
da quella prima
linea di
sperimentazioni
artistiche che
finora aveva
affiancato le
mostre più
tradizionali.
Simbolicamente
il divorzio
dall’arte nuova,
o moderna nei
termini di
Rosenberg –
sotto i cui
auspici la
rivista aveva
mosso i primi
passi – è
sancito dalla
presa di
distanza di
Volpi da
Contemporanea,
di cui apprezza
soprattutto le
sezioni dedicate
alla danza e al
teatro[34].
La rassegna
promossa dagli
Incontri
Internazionali
d’Arte è certo
una novità nel
panorama
culturale
italiano per
contenuti e
forme, e il
dibattito
critico è molto
acceso anche tra
gli addetti ai
lavori[35].
La studiosa,
tuttavia, pur
non condividendo
l’imponente
“impacchettamento”
di Porta
Pinciana da
parte di
Christo,
condanna gli
atti vandalici
di cui l’opera
era stata
vittima.
A
conferma
dell’impegno
culturale dei
redattori,
nell’ultimo
numero del 1974
aveva trovato
posto l’ampio
saggio in cui
Enrico Crispolti
contestualizza
l’operato
dell’artista
bulgaro, in
dialettica con
lo spazio urbano[36].
Dal
punto di vista
della struttura
del periodico, è
da segnalare la
rubrica
Emeroteca, in
cui Giovanna
Dalla Chiesa
analizza alcune
riviste delle
avanguardie
storiche,
partendo da
quelle
surrealiste.
Poiché non è un
caso isolato in
quegli anni[37],
è probabile che
la crescente
consapevolezza
del ruolo
culturale svolto
dalla stampa
periodica spinga
a cercare radici
e antenati
illustri.
Anche
se nel 1975 “Qui
arte
contemporanea”
perde Pietro
Sadun, l’anno si
apre con lo
speciale
dedicato a Dopo
il ’68 che
raccoglie
interventi di
Pierre Restany,
Renato Barilli,
Maurizio Fagiolo
dell’Arco,
Abraham A. Moles
e Verdone.
Se
Barilli
sottolinea
l’emergere
dell’estetico,
come categoria
più ampia e
indistinta,
rispetto
all’artistico;
Verdone propone
un lungo
excursus che dal
cinema
underground
approda alla
videoarte, con
un taglio
interpretativo
in seguito
prevalente negli
studi italiani
sul video
d’artista[38].
L’ultimo numero,
che porta la
data del giugno
1977, sembra
quasi preludere
a una nuova
fase, per altro
non
concretizzata.
Due gli
elementi
caratterizzanti:
il testo di
Simona Weller
sulle donne
nell’arte e le
numerose
interviste agli
artisti.
La
parte
monografica del
fascicolo,
infatti, è
dedicata a
Bilanci e
programmi: la
parola agli
artisti. Come
ricordato in
esordio,
nell’intento di
rilanciare
l’osmosi fra
arte e critica,
si interpellano
una quindicina
di artisti – fra
cui Carla
Accardi, Nicola
Carrino, Pietro
Consagra, Piero
Dorazio, Umberto
Mastroianni,
Fausto Melotti,
Giulio Paolini,
Giuseppe
Santomaso,
Giulio Turcato,
Giuseppe Uncini,
Claudio Verna –
sul proprio
lavoro e sulle
trasformazioni
delle pratiche
artistiche.
Paolini
è l’unico
rappresentante
delle ultime
tendenze, che,
infatti,
rivendica la
natura non
comunicativa
della propria
ricerca e il
rifiuto a
confrontarsi con
la realtà
extrartistica,
coerentemente
con la natura
autoreferenziale
che la critica
gli ha
attribuito in
seguito.
Sebbene
solo due, è
importante che
fra gli
intervistati
compaiano delle
donne: la
scultrice
americana
Beverly Pepper e
la pittrice
Accardi, loquace
la prima, tanto
quanto la
seconda è
elusiva.
Carla
Accardi,
all’epoca
impegnata nel
movimento
femminista, nel
1971 aveva
esposto da
Editalia Le tre
tende, in cui le
trasparenze del
sicofoil
assumono
dimensione
ambientale.
L’attualità del
femminismo, di
cui si fa
interprete
Marisa Volpi,
introduce nel
“bilancio del
decennio” il
tema della donna
nell’arte, in un
clima culturale
in cui il
femminismo ha un
certo peso.
Piuttosto che
farlo in prima
persona,
tuttavia, la
storica
dell’arte
preferisce
affidare questo
compito a Simona
Weller, di cui
era appena
uscito Il
complesso di
Michelangelo.
Negli ultimi
anni anche le
artiste italiane
hanno sviluppato
coscienza
critica e si
sono avviate
sulla strada
dell’autorganizzazione,
grazie
all’impegno di
Nanda Vigo, di
Romana Loda e di
Lea Vergine,
confortate da
analoghi
movimenti
all’estero.
Mentre, di pari
passo, si sono
rivalutate
figure storiche
come Artemisia
Gentileschi o
Lavinia Fontana[39].
* Il presente studio si colloca nell’ambito dell’attività dell’Unità di ricerca della Seconda Università di Napoli, aderente al Progetto di Ricerca di Interesse Nazionale (PRIN) sull’Analisi critica delle riviste sulle arti nell’Ottocento e nel Novecento (coordinatore nazionale Rosanna Cioffi), al quale si devono due importanti convegni: Riviste d’arte fra Ottocento ed Età contemporanea. Forme, modelli, funzioni, atti del convegno (Torino, 3-5 ottobre 2002), a cura di G.C. Sciolla, Skira, Milano 2003; Percorsi di critica. Un archivio per le riviste d’arte in Italia dell’Ottocento e del Novecento, atti del convegno (30 novembre-1 dicembre 2006), a cura di R. Cioffi, A. Rovetta, Vita e Pensiero, Milano 2007. Desidero ringraziare Silvia Bordini, Gaia Salvatori e Nadia Barrella, per gli scambi di opinioni e i generosi suggerimenti su questo campo di studi.
[1] “Qui arte contemporanea”, 1976, n. 17, giugno 1977, p. 13.
[2] Su tale aspetto del sistema dell’arte cfr. E. Di Raddo, Arte “privata”: l’attività delle gallerie private all’inizio degli anni Settanta, in L. Caramel (a cura di), Arte in Italia negli anni Settanta. Opera e comportamento, Edizioni Kappa, Roma 1999, pp. 173-198; G. Bianchi et al., Gallerie, mercato, collezionismo, in La pittura nel Veneto. Il Novecento, Electa, Milano 2008, t. II, pp. 537-626. In generale, sui periodici di questa stagione cfr. anche D. De Dominicis, M. De Luca, Le riviste d’arte, “La Tartaruga. Quaderni d’arte e letteratura”, n. 5-6, marzo 1989, pp. 160-169; In/forma di rivista, catalogo della mostra (Roma, 1991), Roma 1991; G. Maffei, P. Peterlini, Riviste d’arte d’avanguardia. Gli anni Sessanta/Settanta in Italia, Bonnard, Milano 2005.
[3] Cfr. F. Gualdoni, Arte a Roma 1945-1980, Politi, Milano 1988; Roma anni ’60 al di là della pittura, catalogo della mostra (Roma, 20 dicembre 1990 – 15 febbraio 1991), Roma 1990; Roma 1950-1959, catalogo della mostra (Ferrara, 12 novembre 1995 – 18 febbraio 1996) a cura di F. D’Amico, Ferrara 1995; Roma in mostra 1970 1979. Materiali per la documentazione di mostre azioni performance dibattiti, a cura di D. Lancioni, Joyce & co., Roma 1995.
[4] Cfr. A. Vettese, La critica d’arte. I luoghi di un’autoriflessione, in Arte in Italia 1960-1985, a cura di F. Alfano Miglietti, Politi, Milano 1988, pp. 23-39; M.T. Roberto, “Bit”, “Flash Art”, “Data” e la situazione artistica in Italia tra anni Sessanta e Settanta, in Riviste d’arte…, 2003, pp. 299-305; G. Contessi, “NAC” un caso italiano, in Riviste d’arte…, 2003, pp. 307-310; S. Bordini, Artisti e critici: note sul dibattito tra gli anni Cinquanta e Sessanta, in Arte del XX secolo. 1946-1968. La nascita dell’arte contemporanea, Skira, Milano 2007, pp. 222-233. Per certi versi in controtendenza, invece, è “Op. cit.”: cfr. G. Salvatori, Il progetto culturale di “Op. cit. Selezione della critica d’arte contemporanea” a Napoli 1960-1980, in Riviste d’arte…., 2003, pp. 283-298.
[5] H. Rosenberg, Tradition of the New, Grove Press, New York, 1961 (trad. it. Feltrinelli 1964); l’autore parteciperà al dibattito Critica e libertà, nel gennaio 1970, nella sede della galleria romana.
[6] Cfr. R. Barilli, L’estate delle mostre, “Quindici”, n. 4, settembre-ottobre 1967 (ora in Id., Informale Oggetto Comportamento, Feltrinelli, Milano 1979, Vol. II, pp. 22-30), cit. in A. Trimarco, Filiberto Menna. Arte e critica d’arte in Italia 1960-1980, La città del sole, Napoli 2008.
[7] Tema ricorrente nella stampa dell’epoca: cfr. V. Rubiu, Boccioni e la critica italiana, “Marcatré”, 1966, n. 26/27/28/29, pp. 140-142, in cui si ricordano Argan e Calvesi che, negli anni Cinquanta, fanno da apripista e la successiva monografia di Guido Ballo.
[8] Cfr. C. Bruni, Le aste in Italia, tutto da rifare, “Marcatré”, n. 11-12-13, 1965, pp. 330-331.
[9] Cfr. Tavola rotonda, “Qui arte contemporanea”, n. 1, luglio 1966, pp. 5-8.
[10] M. Volpi, Strutture primarie e minimal art, n. 4, novembre 1967, p. 30.
[11] L.M., L’estate calda dell’immagine, “Qui arte contemporanea”, n. 4, novembre 1967, pp. 40-41; la concentrazione delle manifestazioni attira l’attenzione dei critici più vigili, tra cui R. Barilli, L’estate delle mostre, cit.; e G. Veronesi, Su qualche mostra dell’estate italiana, “Op. cit.”, n. 10, 1967, pp. 53-59, cit. in G. Salvatori, “Op. Cit.”…
[12] Tra i quali, oltre ai nomi citati nel testo, G. De Marchiis, P. Portoghesi, S. Scarpitta, Ch. S. Spencer; a cui, negli anni, si aggiungeranno M. Bentivoglio, C. Brandi, G. Contessi, P. Descargues, M. Fagiolo dell’Arco, P. Fossati, M.L. Frongia, U. Kultermann, G. Lista, C. Maltese, G. Markopoulos, S. Pinto, V. Rubiu, C. Spadoni, E. Schloss, C. Strinati, A. Trimarco, E. Villa, e molti altri.
[13] C. Cintoli, Per una mostra di Eliseo Mattiacci al Circo Massimo, “Qui arte contemporanea”, n. 5, marzo 1969, p. 43, poi in “Cartabianca”, maggio 1969, pp. 30-40.
[14] Carlo Quartucci parla della regia de “I testimoni” di Rozewicz al Teatro stabile di Torino, “Qui arte contemporanea”, n. 5, marzo 1969, p. 27; Marisa Volpi, d’altronde, aveva già segnalato la radicalità dell’operazione su “Cartabianca”, 15 gennaio 1969, pp. 14-19.
[15] Cfr. G. Paolini, Note per le scene e i costumi, “Qui arte contemporanea”, n. 6, settembre 1969, p. 38.
[16] Cfr. “Qui arte contemporanea”, n. 6, settembre 1969, pp. 64-65: sebbene il testo non sia firmato, come la maggior parte delle segnalazioni della rubrica Cronaca, può essere verosimilmente attribuito alla curatrice, Simonetta Lux.
[17] Cfr. T. Trini, “La linea Manzoni”, “Qui arte contemporanea”, n. 5, marzo 1969, pp. 30-33.
[18] C. Cintoli, C’è chi…, “Qui arte contemporanea”, n. 6, settembre 1969, p. 40.
[19] L. Grisi, L’aria e la certezza visiva di uno spazio, “Qui arte contemporanea”, n. 6, settembre 1969, p. 70.
[20] G. Celant, L’adottarci del nostro territorio, “Qui arte contemporanea”, n. 6, settembre 1969, p. 21.
[21] Ibidem, p. 19.
[22] Cfr. G. Celant, Robert Morris, “Qui arte contemporanea”, n. 7, dicembre 1971, pp. 36-43: una delle prime volte in cui si fa riferimento a Information Documentation Archives, l’archivio fondato a Genova.
[23] Celant e Vergine sono redattori di “Marcatré”, periodico a cui chi scrive sta dedicando uno studio specifico. Merita comunque di essere segnalata la presenza delle medesime firme – in questi anni – sulla maggior parte dei periodici di settore: un dato strutturale, probabilmente, che poco garantisce il pluralismo.
[24] Cfr. “Qui arte contemporanea”, n. 8, giugno 1972, p. 42.
[25] P. Restany, Venezia 1972 o i limiti del comportamento, “Qui arte contemporanea”, n. 9, ottobre 1972, pp. 11-12.
[26] G. Celant, Iperrealismo come imperialismo, “Qui arte contemporanea”, n. 9, ottobre 1972, pp. 44-49.
[27] M. Volpi, Autobiografismo, trompe l’oeil, concettualismo e violenza, “Qui arte contemporanea”, n. 9, ottobre 1972, pp. 50-57.
[28] F. Menna, Dibbets: una rotazione di 360 gradi, “Qui arte contemporanea”, n. 9, ottobre 1972, pp. 16-20.
[29] Sotto tale riguardo è da segnalare l’attenzione alla riproduzione fotografica, sempre ricca e di qualità, di cui fin dall’inizio si menzionano gli autori, con una sensibilità ancora rara all’epoca.
[30] Quell’anno la studiosa presenta in galleria prima Glossario (Aricò, Battaglia, Cotani, Griffa, Morales, Verna, Bell, Hafif, Marden, Ryman, Zakanych) e poi Maestri surrealisti.
[31] L. Vergine, Il «caso» Gilbert e George, “Qui arte contemporanea”, n. 11, giungo 1973, pp. 41-44.
[32] Cfr. A. Boatto, L’immaginario in Pascali e Kounellis, “Qui arte contemporanea”, n. 12, novembre 1973, pp. 47-54; il critico è in procinto di curare Ghenos Eros Thanatos, alla galleria De Foscherari di Bologna.
[33] L. Vergine, La difesa della perdita, o del “piacere regressivo”, “Qui arte contemporanea”, n. 12, novembre 1973, p. 57.
[34] M. Volpi, Fine dell’avanguardia, “Qui arte contemporanea”, n. 15, settembre 1975, p. 41.
[35] Cfr. A Roma, la nostra era avanguardia, catalogo della mostra (Roma, 23 gennaio – 5 aprile 2010) a cura di L.M. Barbero e F. Pola, Mondadori Electa, Milano 2010.
[36] E. Crispolti, Appunti su Christo, “Qui arte contemporanea”, n. 13, maggio 1974, pp. 41-45.
[37] Se ne erano avuti i primi sentori su “Marcatré”, già dal 1965, con alcune selezioni curate da D. Palazzoli, seguite, dal 1966, dall’istituzione di una specifica rubrica.
[38] Cfr. M. Verdone, Dal cinema underground alla video-art, “Qui arte contemporanea”, n. 15, settembre 1975, pp. 21-28.
[39] S. Weller, M. Volpi, Lettera aperta: le donne nell’arte, “Qui arte contemporanea”, n. 17, giugno 1977, pp. 50-56; tema d’attualità già comparso su “Data”: cfr. S. Bordini, La rivista come spazio espositivo: artisti e critici in “Data”, in Percorsi di critica…, 2007, pp. 501-508.