Muovendosi a
partire dal
lavoro di tesi
dal titolo
Net.art: la
collezione della
Tate di Londra e
le iniziative
del MAXXI di
Roma[1],
da me discussa
all’Università
La Sapienza di
Roma, si propone
qui un breve
estratto
relativo al suo
nucleo
costitutivo
principale.
Il
movimento della
Net.art, nato
nella seconda
metà degli anni
Novanta come
avanguardia
autoreferenziale,
è un fenomeno
che ha già avuto
una sua
storicizzazione
critica e a cui
è stato dedicato
ampio spazio[2],
anche in
relazione al
profuso studio
delle opere new
media. Ciò che
si vuole
evidenziare
specificamente
in questa sede
è, invece, il
rapporto della
Net.art con
l’istituzione
museo, nello
specifico
esaminando il
caso della Tate
Gallery di
Londra.
Il
lavoro di studio
si è basato per
gran parte sulle
risorse
disponibili su
Tate Online[3],
la piattaforma
web nata come
portale
informativo e
come opzione
e-space della
galleria
londinese. Tate
Online è infatti
uno spazio
virtuale che
raccoglie ed
espone non solo
la collezione
Net.art e new
media art, ma
funge anche da
piano di
interconnessione
tra le risorse
web relative:
siti degli
artisti e delle
loro opere, ma
anche documenti
istituzionali e
contenuti
divulgativi, ad
esempio estratti
video di
performance,
interviste o
conferenze,
report e altri
documenti
dedicati al
pubblico del
museo, grazie ai
quali è
possibile
realizzare studi
sulla galleria e
reperire quante
più informazioni
possibili
semplicemente
via Internet[4].
Un tipo
di ricerca
on-line
chiaramente in
relazione con la
natura stessa
del contenuto
studiato;
declinatasi
talvolta anche
in un’indagine
di costume,
nella quale
diventavano
manifesti i
livelli di
interazione
uomo-macchina e
uomo-Internet
nella società e
nelle sue
espressioni,
compresa quella
artistica.
La Tate
Gallery e il
cultural-shift
della Net.art
La
presenza della
Net.art nella
collezione
Intermedia Art,
New Media, Sound
and Performance[5]
si configura
come un chiaro
atteggiamento di
apertura verso
un movimento che
è nato dapprima
in
contrapposizione
all’ambiente
istituzionale,
ma dal quale ha
avuto poi, col
passare del
tempo e con una
certa distanza
storico-critica,
il
riconoscimento
come pratica
artistica e la
conseguente
istituzionalizzazione.
La Tate
Gallery di
Londra
rappresenta, in
Europa, uno
degli esempi più
riusciti per cui
un museo storico
tradizionale ha
finito col
rivolgere parte
delle sue
attenzioni e
risorse - non
ultime quelle
finanziarie – al
recente
movimento
Net.art, in
questo modo
legittimandolo,
storicizzandolo
e conservandone
memoria. Un
«loop-culturale»[6]
già profetizzato
nella seconda
metà degli anni
Novanta, quando
la Net.art stava
assumendo sempre
più coscienza di
sé.
Interessante a
tal proposito,
per la
comprensione
dell’arte di
Internet, dei
suoi fini e del
suo rapporto con
l’istituzione
museo nel
periodo di
transizione dal
XX al XXI
secolo,
l’Introduzione
alla Net.art[7]
(1994-1999),
elaborata da
Natalie Bookchin
e Alexei
Shulgin.
Essa si
preoccupava di
fornire il
Manifesto
stilistico al
movimento, dal
quale emergevano
importanti
dichiarazioni
sul cosa/come e
sulle
trasformazioni
in atto. Ad
esempio, è già
evidente la
dialettica tra
gli artisti
irriducibili del
filone critico e
indipendentista
degli inizi, con
affermazioni
come «0%
compromessi. a)
mantenendo
l’indipendenza
dalle burocrazie
istituzionali»[8]
e il prendere
atto che,
effettivamente,
allo stato
attuale: «la
net.art sta
affrontando
grandi
trasformazioni
come risultato
del suo nuovo
status e del
riconoscimento
istituzionale»[9],
ragion per cui
essa «sta
mutando in una
disciplina
autonoma con
tutto il
corollario di:
teorici,
curatori,
dipartimenti di
musei,
specialisti e
consigli di
direzione»[10].
Ancora
nel manifesto si
parla di «morte
pratica
dell’autore»[11],
immediatezza,
immaterialità e
temporalità come
peculiarità
della Net.art,
azione basata su
processo, gioco
e performance,
«disintegrazione
e trasformazione
dell’artista,
del curatore,
dell’amico di
penna, del
pubblico, della
galleria, del
teorico, del
collezionista e
del museo»[12]:
contemporaneamente
lavorare fuori
dall’istituzione
per la sua
denuncia, sfida,
sovversione,
ripensamento e
arrivare al loop
culturale per
cui si finirà a
lavorare dentro
l’istituzione[13].
Tra la
fine degli anni
Novanta e il XXI
secolo la
cultura Net, col
suo fiorire di
pubblicazioni e
corsi
accademici,
rendeva le
forme d’arte
on-line «an
instructive and
vigorous
intellectual
force»[14],
che godeva dei
benefici effetti
della
rivoluzione
informatica nel
mercato a metà
degli anni
Novanta.
Nonostante un
certo freno si
registri nella
primavera del
2000, a
proposito del
quale Rachel
Greene
sottolinea come
il crollo del
mercato
finanziario
avesse prodotto
un forte cinismo
nei confronti di
Internet e delle
sue promesse
disattese,
determinando «a
more
conservative
climate in
museums»[15]
e
l’avvicinamento
degli artisti
Net verso «other
cultural fields
such as tactical
media, free
software and
film»[16],
l’interesse
delle
istituzioni per
la è ormai una
realtà,
delineata da
eventi come le
mostre
net_condition
allo ZKM
(1999-2000) e
010101: Art in
Technological
Times al Museum
of Modern Art di
San Francisco
(2001), la
presenza della
Net.art alla
Biennale di
Venezia del
2000, l’ingaggio
di Christiane
Paul come new
media curator al
Whitney Museum
of American Art
di New York, le
commissioni di
opere on-line da
parte del
Guggenheim di
New York e
naturalmente
della Tate di
Londra,
cominciate nel
1999 (l’ultima
commissione
risale al 2011)[17].
Si noti a tal
proposito che la
Tate non è
un’istituzione
neonata. Ciò
significa che la
sua esistenza
nella storia la
configura non
come una
galleria nata
nell’ambito
delle nuove
tecnologie
multimediali,
come polo di
diffusione e
ricerca sui
nuovi media
(come ad esempio
lo ZKM, Zentrum
für Kunst und
Medientechnologie
di Karlsruhe in
Germania), ma
come galleria
nazionale
dell’arte
britannica nella
metà
dell’Ottocento,
con una
collezione di
pittori come
Constable,
Turner e Blake,
che ne
rappresentano
tutt’oggi il
nucleo di
maggiore
attrattiva per
il pubblico. In
questo caso,
dunque,
l’apertura
istituzionale
verso il
panorama di
opere new media
come quelle net
è un avvenimento
che possiamo
associare ad una
capacità di
adattamento,
all’interno di
una sorta di
teoria
dell’evoluzione
della specie
museale.
Il
Regno Unito
degli anni
Novanta, durante
la fase di
esplosione della
New-economy,
risente, insieme
agli USA,
della situazione
di favore di cui
gode il mercato
dell’informatica,
il quale cambia
di fatto le
abitudini e i
rapporti fra
soggetti e
organizzazioni
economiche.
Nel
saggio on-line
Art meet Net,
Net meet Art
Matthew Fuller
scrive a
proposito del
rapporto fra il
mondo dell’arte
e le nuove
prospettive
della rete in
Gran Bretagna
alle soglie del
XXI secolo,
sottolineando lo
spostamento dei
meccanismi
economici:
The last year or
so in the UK saw
an enormous
amount of
investment in
Internet-related
companies. It
clicked rather
loudly that you
could stick a
website in front
of a warehouse
instead of a
chain of
distributors and
retailers. (…)
Suddenly,
at the same
time, the work
of artists using
the web seems
ripe for an
initial public
offering[18].
Il
museo inglese
quindi, così
come altre
istituzioni
della società di
quel periodo,
subisce il
fatale
spostamento
d’asse,
confrontandosi
con le recenti
implicazioni
della tecnologia
informatica e
cominciando una
lenta
evoluzione. In
generale si può
affermare che la
politica dei
musei negli
ultimi dieci
anni e più ha
visto lo
snodarsi di un
percorso che va
dalle prime
esperienze di
digitalizzazione
del patrimonio,
per accrescere
la fruizione
sfruttando il
canale Internet,
all’ampliamento
di mostre con
contenuti
on-line.
Contestualmente,
nella nuova
società
tecnologica, il
ruolo della rete
sembra sempre
più configurarsi
come «modello
pratico di
decentralizzazione
della conoscenza
e delle
strutture di
potere»[19].
Il museo
tradizionale si
trova così al
bivio che può
essere crisi
senza scampo o
viceversa
occasione di
rivoluzione. Un
processo in
fieri, non senza
traumi o
problematiche
concrete,
obbligato a
relazionarsi con
l’arte
complessa,
capricciosa,
immateriale e
insofferente
alle
classificazioni
com’è quella dei
nuovi media.
La Tate come
istituzione
[…] has only
recently come to
accommodate
photography or
video: the focus
is firmly on
visually
pleasurable,
minutely
disciplined,
singular and
valuable
objects. What is
interesting
therefore is not
simply that it
has chosen to
begin an
involvement now.
For
culture-bunkers,
the decision
must be made to
collect now or
face the
possibility of
archival lack[20].
Da un
lato quindi i
recenti
investimenti
legati a
Internet,
dall’altro la
possibilità che
il museo, come
tradizionale
detentore e
conservatore
(addirittura
assimilato a un
bunker
culturale),
dedito da sempre
alla
tesaurizzazione,
perda per sempre
queste opere new
media se non
comincia a
collezionarle da
adesso.
Da
queste premesse
diventa
possibile un
dialogo con gli
artisti che
lavorano con e
sulla rete:
[…] to now
involve museums
as one of the
media systems
through which
their work
circulates […]
crucial is,
alongside the
avoidance of
being simply
nailed down by
the spotlight,
to attempt to
establish, not a
comfy mode of
living for the
museum on the
networks, but a
series of
prototypes for
and chances at
something other
and more mongrel
than both[21].
Stando
a quanto afferma
in Network Art
and the
Networked
Gallery
Charlie Gere,
risulta
fondamentale il
passaggio dalla
Tate come
galleria alla
Tate come
network
distribuita,
costituita da
«multiple
connections
between the
various sites,
virtual and
physical»[22],
evitando la
struttura
centralizzata.
Cessando di
essere un
edificio e
diventando un
marchio, brand
applicabile a
diversi luoghi e
processi, reali
e virtuali in
diretto
collegamento fra
loro, la Tate
utilizza in
maniera vincente
le strategie
della società
post-industriale,
per la quale
«the means and
location of
actual
production are
less important
than the
sustaining of
the brand»[23].
Ovvero, oltre
alla
dislocazione
fisica
dell’istituzione
nelle quattro
sedi (Tate
Britain, Tate
Modern, Tate
Liverpool, Tate
St. Ives) si
hanno tutta una
serie di
iniziative
estese, reali e
virtuali, che si
snodano anche a
partire dal
portale web Tate
Online[24]:
canali,
podcasts, blog
sino al
merchandising
firmati TATE.
Dire
Tate oggi,
insomma, non
vuol dire solo
conservazione e
mantenimento del
ruolo storico
dell’istituzione
museo, bensì
soprattutto
diffusione:
irraggiamento e
divulgazione di
contenuti, su
livelli diversi
e molteplici
canali,
all’interno di
una rete
creatasi intorno
al marchio.
Parallelamente e
in quest’ottica,
la presenza
della Net.art
nella Tate
testimonia non
più l’evento
artistico
marginale di
difficile
collocazione, ma
il paradigma
dello
«spostamento
culturale» o
«cultural-shift»[25],
dovuto
all’avvento di
Internet e al
suo sviluppo
tecnologico
nella società di
massa.
La
collezione
Net.art trova
quindi la sua
collocazione
virtuale su Tate
Online alla
sezione
Intermedia Art,
New Media, Sound
and Performance[26],
della quale si
chiarisce lo
scopo di voler
essere stimolo
alla ricerca e
al dialogo
museo-artisti-new
media: «The
Intermedia Art
programme aims
to support
artists’ use of
new tools and
new methods as
well as to
expand modes of
distribution and
display beyond
the walls of the
gallery»[27].
E a proposito
dei nuovi media
in collezione:
Artworks may be
created with
newer or older
networked and
time-based media
such as video,
radio, computer
technologies or
the internet.
They may involve
performance or
discussion,
straddle a
variety of
media, or even
fuse media in
the creation of
new hybrid,
intermedia forms[28].
Significativamente,
la collezione
vuole
raccogliere
opere d’arte
intermediali,
nate dal dialogo
e dalla
commistione dei
nuovi media fra
loro. La Net.art
ne costituisce
un capitolo che
non è né purista
né a sé, ma si
presenta nelle
sue diverse
declinazioni, in
rapporto alle
sperimentazioni
nello spazio
reale e nelle
sue implicazioni
più recenti,
soprattutto
emerse nel
decennio
successivo al
1999.
La Tate
tradisce quasi
da subito
un’impostazione
incline alla
divulgazione
anche attraverso
il web. Dal 2003
crea una sezione
dedicata alle
scuole su Tate
Online,
instituendo un
E-learning
Curator. Due
anni dopo la
digitalizzazione
del patrimonio
arriva a portare
on-line 60.000
opere d’arte,
continuando con
oltre 10.000
altri contenuti
virtuali[29].
In
questo senso,
l’impressione è
che sia stata
l’istituzione
stessa a
sfruttare a
proprio
vantaggio il
medium Internet,
accogliendolo
entusiasticamente
come mezzo
propulsivo,
piuttosto che
come moda
problematica o
ineluttabile
epilogo dovuto
alla deriva
tecnologica dei
tempi.
Si legge infatti
sul Tate Report
2002-2004: «Many
of Tate’s aims
can be fulfilled
through
embracing new
technology and
finding ways to
use it most
effectively»[30].
Logisticamente,
Internet
rappresenta
tutt’ora per il
museo un
vantaggio,
comprovato da
esperienze quali
la vendita
on-line dei
biglietti
(almeno il 50%
vengono
acquistati via
Internet), le
e-letters
informative o il
download di
files
multimediali sul
cellulare.
Un
approccio
senz’altro
positivo, che ha
evitato alla
galleria inglese
di tribolare
sulle questioni
ideologiche e
ristagnare nel
complesso
dibattito che
vede
contrapporsi
museo reale e
museo virtuale.
L’istituzione
Tate ha dunque
risolto il
problema non
solo diventando
un marchio
versatile, ma
soprattutto
scegliendo
l’opzione
e-space del
museo, cioè
quella di creare
uno spazio in
Internet dove
conservare ed
esporre le opere
virtuali: la
sezione
Intermedia Art
sulla
piattaforma Tate
Online. Tramite
questa si
attuano continui
rimandi fuori e
dentro l’opera
Net.art esposta,
nelle sue
peculiarità
tecniche e nelle
sue implicazioni
politico-sociali.
La presenza
massiccia del
materiale
digitale, che
trova nella rete
non solo la sua
diffusione ma,
nel caso delle
opere, anche la
sua stessa
ragione
d’essere,
consente una
certa fruibilità
di argomenti
utili
all’inquadramento
del movimento
storico di
Internet e dei
suoi
protagonisti,
artisti e
critici.
Problemi della
Net.art in
rapporto
all’istituzione
museo
Il
riconoscimento
di opere new
media,
conseguentemente
il loro ingresso
nei musei, hanno
posto da subito
l’urgenza
dell’aspetto
conservativo
legato alla
tecnologia, così
fortemente
condizionata dai
suoi mutamenti,
divenuti ormai
frequenti e
repentini.
Le
opere di Net.art
in particolare
sono un tipo di
opere facilmente
assimilabili sia
a quelle
concettuali, sia
a quelle
site-specific[31],
imprescindibilmente
legate ad uno
spazio che è
quello virtuale,
con la sua
temporalità e la
sua semantica.
Il legame con la
tecnologia che
le ha prodotte è
un aspetto che
ne condiziona
fortemente
l’esistenza
storica, ponendo
spesso gli
stessi problemi
avanzati
dall’arte
concettuale
degli anni
Sessanta, quando
la
documentazione
video e
fotografica
tentava di
risolvere il
problema di
conservare e
garantire il
possesso
dell’opera.
Documentare
l’avvenimento in
rete è una
pratica ancora
meno
riproducibile,
anzi più
specifica di un
istante storico.
Trasferire
quindi le opere
di Net.art su
CD-rom a scopo
conservativo non
è sufficiente
per sciogliere
la questione,
dal momento che
il significato e
il funzionamento
stesso
dell’opera
risiedono e sono
validi solo
sulla rete, nel
suo presente
specifico.
Conservare
l’effimero
dunque, così
come restaurarlo
o mantenerlo
operativo nel
tempo, è ancora
una questione
aperta dell’arte
contemporanea,
giacché «il
valore
concettuale e
progettuale
dell’opera
emerge rispetto
a quello
formativo, a
prescindere dai
materiali
utilizzati»[32].
Inoltre, la
cosiddetta arte
sine materia,
può addirittura
svincolarsi
dall’obbligo di
essere
conservata,
perché parte del
suo significato
risiede proprio
nella sua
caducità: il
«diritto di
morte» è
preventivato
dall’artista sin
dall’inizio[33].
Vuk Cosic
sottolinea con
forza l’aspetto
della
temporaneità
dell’opera net,
la quale è parte
integrante del
suo senso: «[…]
and I think the
intentions of
the artist
should not be
respected when
you make an
archive of that
sort because
then you lose
because you have
to then buy
software and
hardware and
maintain stuff»[34]34.
Per
l’artista Net
della prima
generazione il
concetto alla
base dell’opera
risiede altrove.
Parallelamente,
la
caratteristica
di molte delle
opere net di
essere
interattive ha
finito con lo
sfumare i
contorni
dell’autorialità.
È in questo
senso che cambia
il ruolo del
pubblico
dell’opera: dal
connoisseur al
fruitore.
Perfino il
valore
dell’unicità non
sussiste più,
per le pratiche
di plagio
legittimate in
Internet e per
certi meccanismi
informatici che
gli sono propri,
come la memoria
cache[35].
I
problemi
conservativi, di
fruizione e di
possesso,
esasperati e
portati avanti
con la Net.art
nella nuova
società
tecnologica in
rete, ha visto
particolarmente
impegnata, negli
ultimi venti
anni,
l’istituzione
museo in seguito
alle prime
acquisizioni.
Davanti
all’emergenza
Net.art essa ha
cercato di
riorganizzarsi e
ponderare
soluzioni ad
hoc, proponendo
standard e
modelli,
variando
pratiche e
sperimentazioni
nella
conservazione,
nel possesso e
nell’allestimento
di questo tipo
di collezioni[36].
Alcuni musei
hanno deciso di
acquistare il
codice di
programmazione
delle opere net,
altri espongono
tramite il loro
sito web, altri
ancora
partecipano
commissionando e
sponsorizzando,
mentre nuove
organizzazioni
Dotcom[37]
per la
promozione e la
ricerca sui
nuovi media
prolificano e
ricevono persino
finanziamenti
governativi[38].
Il problema
della
contrapposizione
fra museo reale
e museo virtuale
quindi, che fu
uno dei
principali
argomenti di
discussione in
ambito Net.art,
oggi risulta
decisamente
obsoleto.
Superando una
prima diffidenza
verso un tipo di
arte così
tecnicamente
complessa e
potenzialmente
minacciosa per
la sopravvivenza
del museo reale
(basti pensare
alla gestione di
fondi e
investimenti),
pian piano la
distanza storica
e l’evolversi
delle pratiche
hanno annullato
divisioni nette
e conflitti
amministrativi
all’interno
dell’istituzione,
aumentando
sempre più gli
spazi di
dialogo. Vi sono
musei che hanno
cessato di
esistere nella
realtà per
diventare
virtuali, altri
hanno scelto di
digitalizzare il
loro patrimonio
per renderlo più
fruibile, mentre
la celebre
Rhizome.org è
un’organizzazione
in forma di
database
on-line, esempio
più riuscito di
museo sul web[39].
Le
sperimentazioni
di artisti e
curatori,
dunque, si
evolvono
continuamente e
in maniera
rapidissima,
così come le
opere stesse
vivono sempre
più al confine
fra due mondi
che, fino a
quasi un
ventennio fa,
sembravano
destinati ad una
convergenza
impossibile.
Silvia
Bordini riassume
così questa fase
di adattamento
reciproco fra
Net.art e
istituzione:
Dunque
anche gli
intenti
alternativi e
globalizzanti
della Net.art si
stanno lasciando
riassorbire
dalla dimensione
decontestualizzante
del sistema
dell’arte,
portandovi i
processi di
libera
partecipazione
della
comunicazione in
rete che ne
costituisce la
premessa
fondamentale, ma
anche
irrigidendoli
nel
metalinguaggio
degli apparati
espositivi[40].
Citando
Vuk Cosic, siamo
già nell’era
della
«post-modem art»[41].
Opere
della collezione
Intermedia Art,
New Media, Sound
and Performance
La
collezione
Intermedia Art
della Tate
Gallery si
compone di 14
opere Net Art in
totale. Per
questo breve
estratto ne sono
state
selezionate solo
alcune, in base
a criteri che
sono
principalmente
la
rappresentatività
dei loro autori
nel panorama Net
e Web Art, i
temi affrontati
di rilevanza
politico-sociale,
la capacità di
evidenziare i
rapporti
uomo-macchina-rete,
o ancora lo
speciale
utilizzo delle
tecniche new
media. Nella
collezione
Intermedia Art è
ricorrente la
critica, da
parte degli
artisti, di
alcuni aspetti
della società e
della politica
reali, dei quali
Internet e
l’opera net si
rendono
testimoni
tattici per
innescare nuove
declinazioni di
senso,
approfondendo il
discorso sulla
comunicazione in
rete. In
generale l’opera
d’arte su
Internet ha già,
per sua stessa
natura, una
connotazione
politica, perché
nata
direttamente in
opposizione alla
gerarchia
verticale
dell’istituzione;
fermo restando
che in certe
opere questo
carattere è
nettamente
spiccato, pure
in contesti
museali[42].
La
maggior parte
delle opere
della collezione
presuppone
l’interattività,
uno dei
paradigmi
fondamentali
della Net.art,
ovvero la
partecipazione
estesa degli
utenti in rete
per lo sviluppo
dell’opera – a
volte infinita
più che non
finita – e l’uso
di Internet come
vero e proprio
spazio di
scambio e
confronto,
presupponendo
sempre l’aspetto
connettivo e
l’uso che
facciamo di
strumenti quali
il software o il
semplice sito
web. Tuttavia
l’uso della rete
si evolve nelle
sperimentazioni,
giungendo a
esiti che pian
piano escono
fuori dal
cyberspazio,
alla riconquista
del reale,
secondo nuove
tecnologie che
mescolano sempre
più realtà e
finzione, uomo e
macchina,
concretezza e
utopia.
Graham
Harwood,
Uncomfortable
Proximity, 2000.
Problematiche
come il ruolo
dell’arte, come
mezzo per
l’affermazione
dello status
sociale, sono
molto care ad
uno dei net
artisti storici
presenti nella
collezione Tate:
Graham Harwood
con l’opera
Uncomfortable
Proximity[43].
Graham Harwood è
meglio
conosciuto come
co-fondatore di
Mongrel[44]:
Mongrel is a
mixed bunch of
people, machines
and
intelligences
working to
celebrate the
methods of
London street
culture. We make
socially engaged
culture, which
sometimes means
making art,
sometimes
software,
sometimes
setting up
workshops, or
helping other
mongrels to set
things up[45].
Impegnata da
sempre nel
sociale infatti,
l’attività di
Harwood
coinvolge
pratiche legate
all’informatica
e alle arti
visive, ma
fondendole alle
problematiche
sociali
dell’ambiente
londinese, quali
ad esempio gli
stereotipi
razziali o il
disagio
individuale[46].
Il
rimescolamento
figurativo
digitale è una
pratica
ricorrente nella
poetica di
questo artista,
per il quale la
vista diventa il
senso principale
per la
comunicazione e
l’identificazione
fra gli
individui, nelle
loro differenze
e nei loro
disagi, il
livello ove
maturano gli
stereotipi
sociali e che
media la
comunicazione
interpersonale:
esattamente come
l’interfaccia
grafica media il
nostro rapporto
col computer.
Con
Uncomfortable
Proximity,
Harwood si
cimenta nello
sviluppo di un
vero e proprio
sito web della
Tate, parallelo
a quello reale:
citando
l’artista «just
a complete
rewritting»[47]
delle pagine in
HTML[48].
Si ricorda che
all’epoca (alla
fine degli anni
Novanta) era
pratica diffusa
dei musei la
digitalizzazione
del patrimonio.
La Tate di
allora aveva
sposato questa
esigenza
lanciando il
proprio sito
web, che
illustrava la
collezione e
varie
informazioni
pratiche e
storico-artistiche
sul museo.
Il sito
mongrelizzato
parallelo a
quello Tate, è
stato attivo per
tutto il 2000 e
prevedeva
che, durante la
consultazione
del sito web
istituzionale,
dietro queste
pagine rimanesse
aperto il
sito-copia di
Uncomfortable
Proximity.
Questo appariva
quindi non
appena venivano
chiuse le
finestre
ufficiali.
Harwood
interviene cioè
con un’azione di
digital hijaking[49],
proponendo la
visione
personale della
collezione del
museo: le nuove
opere nascono
mischiando, in
maniera tanto
creativa quanto
critica, le
immagini di
alcuni dipinti
(di Constable e
Turner ad
esempio, simboli
illustri
dell’identità
culturale
inglese) con
quelle prese in
prestito dai
corpi di
familiari e
amici
dell’artista. Lo
scopo è
denunciare il
ruolo
dell’istituzione
museale Tate (la
sede Tate
Britain era l’ex
prigione di
Milbank)
utilizzata come
strumento di
controllo e
repressione
nella società
inglese. Harwood
ne sottolinea la
pratica
accentratrice,
esercitata nella
storia sui corpi
come sulle
menti, gli
stessi che oggi
popolano
l’edificio
museale e ne
sono parte
integrante.
Harwood
baratta i
contenuti
virtuali di un
certo sito web
reinventandone
la funzione,
approfittando
dell’interesse
iniziale del
visitatore verso
il sito Tate
istituzionale,
irrompendo
all’improvviso
con nuovi
contenuti, come
detta la
tradizionale
pratica Net.art
del dirottamento
digitale.
Heath
Bunting,
BorderXing
Guide, 2002.
La
presenza del
londinese Heath
Bunting[50]
nella collezione
Intermedia Art
Tate è
senz’altro
indicativa non
solo di una
progressiva
istituzionalizzazione
delle pratiche
Net.art degli
albori, ma anche
della volontà
museale di
raccogliere le
più
significative
testimonianze
storiche del
movimento
artistico,
conservandone il
racconto.
Secondo
Deseriis,
l’opera
BorderXing Guide
(2002)
dell’artista
londinese,
appartenente
alla prima fase
di commissioni
Tate,
rappresenta
molto bene la
transizione
dalla fase
autoreferenziale
e astratta della
Net.art a un più
intenso
intreccio con
soggetti e
luoghi fisici[51].
Siamo infatti
nei primi anni
del XXI secolo e
il networking è
attraversato da
un nuovo tipo di
riflessione che
punta a
«riterritorializzare
oltre lo
schermo»
l’esperienza di
condivisione
virtuale,
«concatenando
alla realtà
fisica e
geografica la
virtualità delle
reti»[52].
L’opera
si presenta
lanciandola dal
link nella
sezione
Intermedia Art
di Tate Online,
che rimanda a
<www.irational.org>,
il sito web
dell’artista. La
schermata che
appare presenta
una lista di
luoghi
geografici
reali, nazioni o
più precisamente
vie di varie
città e luoghi
del mondo,
indicati come
unici client[53]
autorizzati alla
connessione che
permette di
fruire
dell’opera: solo
trovandosi
fisicamente lì è
possibile fruire
della BordeXing
Guide.
Nient’altro che
una sorta di
guida turistica
molto meno
frivola, il cui
scopo è
«crossing
national borders
without
permission»[54].
Bunting in prima
persona, a
seguito di un
viaggio di un
anno e mezzo,
attraversa circa
venti confini in
tutto il mondo
evitando dogane,
controlli e
recinzioni,
scegliendo come
passaggi
preferenziali
foreste e fiumi.
Si pone in
questo modo
l’attenzione
sulle
problematiche
dell’immigrazione
clandestina,
sulla politica
che la gestisce
e sulla presunta
accessibilità di
Internet, messa
prepotentemente
in discussione
grazie ad uno
sbarramento
tecnico
impostato dal
programmatore-artista.
Le
limitazioni
individuali
nella società
sono qui
enfatizzate
perché messe in
stretto contatto
con un limite
tecnico della
rete, indicata
spesso come
utopia di
democraticità e
accessibilità,
connettore
assoluto di
mondi e spazi[55].
Il punto focale
non è più il
Web, ma
l’individuo e la
sua posizione
nello spazio
concreto: al di
là dell’utopia
di Internet come
falso garante di
un’accessibilità
totale al
cyberspazio, si
registra un
chiaro ritorno
al reale.
La
mobilità è oggi
una questione
molto presente
nelle
discussioni
riguardanti la
società
globalizzata, la
tecnologia
informatica e il
cambiamento dei
flussi
economici. Gli
individui che si
muovono in
questa nuova
percezione
spaziale si
spostano
supportati da
una tecnologia
che è anch’essa
nomade e
permette di
portare con se
capitali, beni,
oggetti
culturali.
Lev
Manovich, nel
suo Software
takes command,
definisce questo
tipo di
tecnologie
portatili
«ibride»[56],
sottolineandone
la presenza
massiccia in
«user
interfaces, web
applications,
visual design,
interactive
design, visual
effects,
locative media,
digital art,
interactive
environments,
and other areas
of digital
culture»[57].
La nuova deriva
oggettuale è
legata, ad
esempio, alla
diffusione di
ricevitori Gps a
basso costo, i
cui dati
raccolti e
diventati open
source
contribuiscono a
creare una
geografia umana
condivisa,
mappando
ambienti e
ricostruendo una
cartografia di
paesaggi e
luoghi,
condivisi in
rete attraverso
vari dispositivi
informatici[58].
Esperienze del
genere nella
vita quotidiana,
che utilizzano
tecnologie
mobili, wireless
e software
appositi,
finiscono col
creare nuove
cartografie del
territorio e del
sociale,
giungendo ad
esiti quali ad
esempio il
navigatore
collaborativo
che costruisce
relazioni tra
luoghi diversi
tramite
l’aggiunta di
dati
multimediali
come foto,
suoni, video,
informazioni[59].
Una nuova
geografia
sociale, che
sfuma in
sostanza i
confini reali di
popoli e nazioni
e le altre
barriere
fisiche, ma che
non può
rinfrancare
dalla fine
dell’utopia di
Internet come
terra franca di
libertà e
accessibilità
assoluta.
Susan
Collins, Tate in
Space, 2003.
La
questione delle
ambizioni
culturali di
un’istituzione
prestigiosa come
la Tate Gallery,
è alla base del
progetto di
Susan Collins,
una vera e
propria fiction
architettata in
rete: Tate in
Space
(2002-2003).
La
galleria si
prepara ad
accogliere i
nuovi
visitatori,
quelli della
generazione
futura, di
questo o di un
altro pianeta,
dichiarando di
aver lanciato un
nuovo programma,
Tate in Space,
del quale Susan
Collins è la
direttrice. Il
programma
prevede che un
satellite Tate
venga mandato
nello spazio
con,
all’interno, una
parte della
collezione del
museo
debitamente
attrezzato e
pronto ad
accogliere i
visitatori del
cosmo, che
funzioni come
una ulteriore
succursale del
già variamente
dislocato museo
londinese. La
Collins
prevedeva che la
sezione Tate in
Space si
innestasse
realisticamente
sull’allora sito
web Tate Online
come un’altra
delle sedi
museali, insieme
alle altre
sezioni
navigabili
dedicate al Tate
Modern, Tate St.
Ives, Tate
Britain e Tate
Liverpool.
È la
finzione la
chiave di
lettura, il
pretesto per
indurre i
navigatori di
Tate Online a
trovarsi faccia
a faccia con
questa nuova
proposta,
attivando la
fantasia per
immaginare il
museo in orbita,
così
avanguardistico,
suggerendo
soluzioni ai
limiti del
reale,
sfruttando la
popolarità del
mezzo Internet e
l’uso di
contenuti
virtuali del
tutto fittizi o
quasi. Giocando
sul piano della
finzione, la
Collins sfrutta
la dialettica
fra reale e
virtuale
attraverso la
vetrina
Internet. Si fa
sempre più
pallida la
distinzione fra
Net.art e
happening,
inteso come
esperienza che
coinvolge il
pubblico nello
spazio, nel
tempo e
nell’emotività.
Susan Collins
innesca un
meccanismo che
ha come
conseguenza la
processualità di
una serie di
azioni e
reazioni, in un
lavoro più
concettuale che
tecnico, che
trae vantaggio
dal fatto di
essere fruibile
in rete: «yet
the piece is so
successful
because it’s
on-line. It’s
taking full
advantage of the
medium»[60].
Il
progetto avviato
dalla Collins si
è perpetrato
efficacemente
con tutta una
serie di
iniziative reali
molto
specifiche: la
sezione Tate in
Space, infatti,
contiene
concorsi di
architettura
spaziale,
domande
frequenti sul
progetto, forum
on-line, notizie
fornite in
dettaglio sui
dati dell’orbita
del satellite
Tate e sui costi
delle
operazioni. Essa
propone
addirittura link
esterni e
riferimenti vari
per approfondire
il discorso
della Space Art,
facendo
riflettere su
questioni come
l’accessibilità,
l’innovazione, i
nuovi pubblici,
nonché
l’ambizione
colonialista
della conquista
del cosmo o la
problematica
dell’inquinamento
ad essa legata,
allo scopo di
incentivare il
dibattito. Come
l’artista stessa
dichiara nel
saggio The
Actual and the
Imagined la
proposta di
collaborazione
della Tate per
un lavoro
on-line, alla
fine del 2001,
fu pensata per
agire come un
«agent
provocateur to
explore a range
of issues and
ideas including
the nature of
cultural
ambition»[61].
Natalie
Bookchin,
AgoraXchange,
2004.
Insieme
a Heath Bunting,
Natalie Bookchin
rappresenta uno
dei nomi più
famosi della
Net.art
internazionale.
Americana,
pioniera
nell’arte di
Internet degli
esordi e legata
alle esperienze
dell’
hacktivism, si
muove da sempre
in un contesto
nel quale la
distribuzione
libera di
software, idee e
informazioni è
parte attiva
della scena
on-line. In
AgoraXchange[62],
commissione
Net.art della
Tate nel 2003,
si elabora un
gioco
multi-player[63]
dai costrutti
esplicitamente
politici. L’idea
di partenza è
quella di usare
il gioco
on-line, una
delle più
popolari
esperienze
possibili in
rete, dalla
straordinaria
diffusione, per
tentare di
portare avanti
l’ideale di uno
Stato virtuale
nel quale siano
abolite tutte
quelle leggi e
quei costrutti
culturali che
nell’attualità
creano fenomeni
di
disuguaglianza e
ingiustizia,
economica e
sociale, in
tutto il
mondo.
«The
democratic
potential of the
net lies in fact
that it
extremely easy
and affordable
to be a producer
and distributor
as well as a
consumer»[64],
afferma
l’artista,
spiegando che il
suo interesse
principale è
cercare di
coinvolgere le
normali attività
di un navigatore
annoiato verso
qualcosa che lo
coinvolga nella
promozione di
modelli
alternativi,
validi
politicamente e
socialmente
impegnati[65].
La
prima versione
di AgoraXchange[66]
(2004) era in
forma di forum
di discussione,
al fine di
incentivare il
dibattito
politico,
definendo
democraticamente
il tipo di
grafica e i
principi
fondamentali del
gioco, resi
sottoforma di
quattro decreti.
La versione Beta[67]
successiva
(2008) consiste
in un sito web
con strumenti
classici, come
il forum, le
FAQ, i decreti e
il Manifesto che
impieghi i
lineamenti del
gioco on-line
coinvolgere il
fruitore
all’interno
della dimensione
video ludica[68].
Tuttavia, non è
tanto la
prospettiva
finale del gioco
a costituire
l’essenza del
progetto, bensì
è davvero
cruciale
l’aspetto
collaborativo di
AgoraXchange:
quello di porsi
come risorsa
aperta, pubblica
e globale,
esperimento
connettore di
individui
diversi per
appartenenza
sociale e
geografica,
chiamati a
partecipare al
dibattito
politico-sociale
internazionale.
A
proposito del
collaborativismo
globale on-line
e delle risorse
open source, si
afferma infatti:
We have been
influenced by
various aspects
of successful
Internet
collaborations,
including
self-regulating
community
weblogs, open
source
programming
models, and
large scale
collaborative
projects, such
as
Wikipedia,
Slash dot,
and
Sourceforge.net[69].
È questo il caso
in cui un’opera
di Net.art fa
leva sulle
potenzialità di
Internet come
agorà di
scambio, luogo
per incontrarsi
e creare
relazioni fra
gli individui
partecipanti:
«The form of
this project is
very much
connected to the
global and open
source
possibilities of
the internet,
especially its
ability to
network people
with related
commitments,
regardless of
citizenship»[70].
YOUNG HAE-CHANG
HEAVY
INDUSTRIES, The
Art of Sleep,
2004.
Gli
YOUNG HAE-CHANG
HEAVY INDUSTRIES[71]
sono presenti
nella collezione
Tate con l’opera
The Art of Sleep[72].
Il loro lavoro
si basa
esclusivamente
sull’uso del
testo per scopi
narrativi, ma
allontanandosi
totalmente dalla
tecnologia
ipertestuale
degli albori
Net.art[73].
Una
loro opera si
presenta come un
testo dal font
largo, di solito
il Monaco, di
colore nero, blu
o rosso su
sfondo bianco o
colorato, che
scorre
lampeggiando
grazie
all’utilizzo
della tecnologia
di animazione
Flash[74].
Le frasi, le
parole, la
punteggiatura,
occupano
interamente la
finestra del
browser e
appaiono in
sincronia con un
sottofondo
musicale jazz o
classico, una
particolarità
che enfatizza la
partecipazione
alla narrazione
e la componente
ironica
attraverso un
ritmo
audio–visuale. I
contenuti dei
testi si
ispirano a brani
di letteratura,
alla politica,
alla cultura in
generale, ma
anche al livello
più intimo del
flusso di
coscienza.
L’opera
commissionata
dalla Tate è uno
dei più classici
esempi dello
stile YHCHI, la
quale lascia
impressionati
per «such a
dynamic,
emotionally
powerful work of
art on a
computer screen,
let alone one
that had reached
me in a hotel
room via a 56.6
K modem»[75],
riferisce Mark
Tribe, fondatore
di Rhizome.org.
Si tratta
infatti di una
tecnologia che
sfrutta solo una
minima parte
delle funzioni
applicative
Flash, un
pacchetto di
soli 4,18 MB di
dimensione, tale
che può essere
fruito anche con
un tipo di
connessione a
bassa velocità.
Gli
artisti parlano
difatti
dell’inefficacia
comunicativa
delle opere
Net.art degli
anni Novanta,
quando la banda
larga non era
ancora diffusa e
caricare opere
dai contenuti
multimediali
complessi
(musica, testi,
immagini) sul
browser
diventava un
processo
piuttosto lungo.
Riducendo quindi
i contenuti a
solo testo e
mp3, è possibile
massimizzare la
capacità di
diffusione di
Internet
indipendentemente
dalla portata
della
connessione,
creando opere
che durano fino
a 28 minuti ma
caricate senza
difficoltà.
Contrariamente
alle
poten-zialità
offerte dal
software di
Adobe, anche il
livello
dell’interazione
è qui
pra-ticamente
azzerato: basta
infatti lanciare
l’opera e
lasciarla
scorrere per la
durata di circa
18 minuti senza
interruzioni.
Proprio
l’assenza di
interattività ha
contribuito a
classificare The
Art of Sleep
come Web Art,
piuttosto che
Net.art. Gli
YHCHI non sono
interessati
all’opera
Net.art
interattiva, la
quale, nella
loro ottica, è
simile più alla
TV
d’intrattenimento
che alla rete,
secondo
l’inevitabile
corrispondenza
che lega i due
media. Vi è
tuttavia la
possibilità di
interrompere la
visione
dell’opera,
tornando
indietro col
tasto back. Per
gli artisti
questa
funzionalità di
fatto
ridimensiona il
ruolo totalmente
passivo dello
spettatore, dal
momento che
«clicking away
is one of the
essences of the
Internet.
It’s no
different from
deleting. It’s
rejection, it’s
saying ‘no’.
That’s ultimate
power»[76].
Mark Tribe
ribadisce che
tecnicamente il
lavoro degli
YHCHI manca
delle
«distincti-ve
features of the
Net.art medium
as interactivity
or algorithmic
computation»[77]
e la loro
ricerca rientra
più nell’ambito
di
sperimentazione
new media art,
«to reach
audiences
directly,
without
art-world
intermediaries;
collaborative
production; and
a global
perspective»[78].
Gli
artisti
ammettono
infatti che,
molto più che le
possibilità del
medium Internet
come sinonimo di
accessibilità,
diffusione e
interattività,
l’enfasi si pone
più spesso sulla
sua artisticità[79].
Rimanendo sulla
superficie
tecnologica del
software quindi,
il risultato è
un’opera quasi
filmica, che
gioca sul piano
della
comunicazione,
dell’associazione
di idee,
dell’intrattenimento,
la quale,
esibita sullo
schermo, annulla
la piattezza del
web con le sue
proposizioni
letterarie[80].
In The
Art of Sleep la
tematica
trattata è
quella
duchampiana sul
ruolo dell’arte,
del mercato e
dei suoi
critici. Le
proposizioni che
scorrono sullo
schermo sono
nient’altro che
il flusso di
pensieri di un
anonimo insonne
narratore, che
riflette e si
interroga sul
vero valore
dell’arte in se
stessa[81].
Ma gli YHCHI si
trovano già
all’interno del
sistema arte
così come
all’interno
dell’istituzione
museo, non solo
alla Tate ma
anche al Centre
Pompidou di
Paris, al
Samsung Museum
di Seoul e al
MEIAC di Madrid,
dove sono
presenti anche
con delle
istallazioni
nello spazio
reale.
Alla
domanda su cosa
significa per
un’istituzione
possedere un
lavoro Web Art,
essi rispondono:
Web art is
bought and sold
like any other
art form. An art
institution that
acquires our
work owns a
digital file and
has the right to
exhibit it in
public, usually
projected or on
a plasma screen.
A private
collector can do
the same thing
in his/her home,
over the couch
in the living
room, for
instance[82].
Ma con
la nota ironia,
gli artisti
propongono una
critica sottile
a tutto il
sistema
dell’arte,
sottolineandone
le
contraddizioni,
l’impossibilità
effettiva di
giudicare,
definire,
legittimare
l’arte stessa
come qualcosa di
realmente utile
o valutabile con
metodi
obiettivi.
Riecheggiano
alcuni temi del
dibattito
sull’arte degli
ultimi decenni.
Semplicemente,
«Art is futile»[83].
Golan Levin, The
Dumpster, 2005.
Con The
Dumpster[84],
di Golan Levin,
ci inoltriamo in
uno dei tanti
temi cari alla
Net.art, cioè il
flusso di dati
affidati al
networking: la
vita
sentimentale
finita male di
teen-ager
americani,
postata su blog[85]
disseminati nel
cyberspazio
durante tutto il
2005, è stata
ordinata
all’interno di
un database, la
cui interfaccia
grafica rende le
varie storie
personali
fruibili e
navigabili.
Lev
Manovich ha
evidenziato la
caratteristica
del software The
Dupster di
essere «multi
dimensionale»[86]:
il mouse si
muove sulla
superficie
dell’interfaccia,
evidenziando i
post sottoforma
di pallini
fluttuanti sul
quadrante
centrale. Sulle
assi verticale e
orizzontale è
possibile invece
consultare i
testi raccolti
secondo criteri
di tempo, di
spazio, di
relazione e di
altri elementi
distintivi del
dato specifico
preso in
considerazione.
In ogni
caso il livello
di interazione
con l’opera da
parte del
fruitore è
limitato a
quello che può
essere
l’utilizzo di un
software di
archiviazione
dati.
La
novità di fatto
sta
nell’interfaccia
grafica
dell’applicazione
e probabilmente
nel
coinvolgimento
emotivo di chi
partecipa a
questa
fotografia di
gruppo, nella
quale
l’applicazione
informatica
«provides a
window into the
emotional
experiences of a
real individual,
and the reader
is involved in
that
individual’s
heartbreak»[87].
Levin
si dichiara
assolutamente
attratto dalla
visualizzazione
dei dati e dal
loro uso, nella
loro maggiore o
minore utilità,
dichiarando che
«The discipline
of information
visualization
has emerged as
an important
hybrid of
graphics,
scientific
communication,
database
engineering, and
human-computer
interaction»[88].
Siti
come Myspace,
Twitter,
Facebook,
Flickr, la
possibilità di
creare vari
blog, funzionano
come
catalizzatori
della
personalità
dell’individuo
in rete, dove in
uno spazio
assolutamente
virtuale la
persona può
assumere di
fatto
concretezza nel
momento in cui
vi riversa i
propri pensieri,
aspirazioni,
sentimenti,
idee, contenuti
dal valore
personale. Lev
Manovich ricorda
a proposito
l’espressione
user-generated
content, entrato
ormai in uso
mainstreaming,
per indicare
proprio i
contenuti creati
e pubblicati
dagli utenti su
Internet[89].
Secondo Manovich
si tratta di una
nuova forma di
ritrattistica
degli individui,
della folla,
dalla quale
emergono
finalmente
relazioni,
differenze,
caratteristiche
del singolo;
superando quello
che forse è
stato da sempre
un limite
tecnico
dell’arte
rappresentativa:
il computer e la
potenza del
software oggi
rendono
possibile
un’opera che può
essere definita
di «social data
browsing»[90].
MW2MW,
Noplace, 2008.
Commissionato
dalla Tate nel
2008 e curato da
Kelli Dipple,
responsabile
della sezione
Intermedia Art,
Noplace[91]
è un progetto
prettamente
Net.art che vede
protagoniste le
risorse
audio-video del
web all’interno
di composizioni
filmiche, aventi
come sfondo i
concetti di
paradiso e
utopia. Gli
autori del
progetto sono
Marek Walczak e
Martin
Wattenberg[92].
Il
progetto Noplace
parte dall’idea
di Internet come
spazio di
condivisione non
solo di
esperienze, ma
anche di risorse
multimediali
(audio e video)
che le
rappresentano; e
si è
concretizzato in
un’installazione
immersiva
multisensoriale[93].
Il
funzionamento
tecnico di
Noplace, con la
rete come
medium, è
spiegato così
sul sito web del
progetto:
Live feeds are
taken from the
internet using
the RSS
protocol. Each
image and sound
has its
text-tags stored
in the database.
The Tag
Sequencer finds
relationships
between these
tags and streams
these to the
projectors. Each
projector has a
specific
semantic
cluster, each
representing a
particular
concept of
paradise. The
tag sequencer
not only finds
narrative
threads within
each cluster,
but also finds
parallel
narratives
within different
projections, so
synchronizing
divergent
utopias and
allowing for a
reading across
human wishes and
desires[94].
Il
protocollo RSS[95]
è il formato più
diffuso per la
distribuzione
dei contenuti
web, che li
omologa in un
formato unico e
sempre
leggibile.
I feed
invece
rappresentano
un’applicazione
grazie alla
quale è
possibile
ricevere
aggiornamenti di
dati in formato
RSS: ad esempio
riguardanti i
contenuti di un
sito web,
consultabili
senza dover
necessariamente
visitare ogni
volta il sito in
questione.
Raccolti dunque
gli archivi di
risorse web
corrispondenti a
certe idee di
paradiso,
raggruppati in
cluster (gruppi)
con tag[96]
memorizzate ad
essi associati,
vengono
collegati ad un
proiettore. Il
sequencer tag,
una sorta di
lettore di tag,
rileva i
significati di
ogni contenuto
web del cluster,
ma anche fra i
diversi gruppi,
tessendo una
narrazione
sincronizzata
fra le diverse
utopie. Allo
stato attuale,
dalla sezione
Intermedia Art
del sito web
Tate, è
possibile
lanciare il sito
di Noplace dal
link apposito.
Il sito web
http://noplace.mw2mw.com/tate/
è ormai una
sorta di
archivio delle
esperienze degli
utenti del
progetto, dal
momento che esso
si è concluso
ormai da qualche
tempo. In ogni
caso, questi
artefatti
collaborativi
sono stati
protetti dalla
licenza Creative
Commons, così da
poter essere
utilizzati da
Noplace per
creare nuove
opere.
È
chiara
l’esperienza
dell’
esteriorizzazione
in rete di
contenuti reali
e
immaginari quali
suoni e immagini
(ne è un esempio
il famoso sito
web YouTube), i
quali vanno a
comporre in
Internet una
sorta di
archivio
pubblico,
diventato «an
essential form
of aggregated
cultural memory»[97].
Noplace
è quindi un
progetto che
sottolinea il
valore della
rete come spazio
di condivisione
culturale, una
terra franca in
cui si radunano
istanze, idee,
desideri di
moltissimi
individui in
tutto il mondo.
Internet si fa
specchio e
deposito della
memoria
culturale
condivisa,
disponibile
attraverso
tecnologie che
consentono di
condividere
questo archivio
sconfinato di
suoni, parole e
immagini.
[1] Relatrice prof. Francesca Gallo, correlatrice prof. Silvia Bordini, cattedra di Storia delle Tecniche Artistiche, A. A. 2010/2011.
[2] Per approfondimenti sulla bibliografia Net.art e new media art cfr. L. Manovich, The language of new media, MIT Press, Cambridge, Massachusetts / London, England 2001; T. Tozzi, A. Di Corinto, Hacktivism. La libertà nelle maglie della Rete, Manifestolibri, Roma 2002; C. Paul, Digital art, Thames & Hudson, London 2003; S. Bordini, Arte elettronica, Giunti, Firenze 2004; R. Greene, Internet art, Thames & Hudson, London 2004; D. Quaranta, Net art 1994-1998: la vicenda di Ada’web, Vita e Pensiero, Milano 2004; M. Deseriis, NET.art: l’arte della connessione, Shake, Milano 2008. Per la sitografia e le riviste online cfr. http://www.neural.it/, http://www.nettime.org/, http://www.thething.it/, http://rhizome.org/, http://www.easylife.org/ , http://www.irational.org/, http://www.leonardo.info/.
[3] http://www.tate.org.uk, gennaio 2012.
[4] Il materiale scientifico pubblicato on-line ha coinvolto anche archivi di mailing list, siti web di artisti, critici e curatori, importanti piattaforme di riferimento sulla Net.art e risorse multimediali digitali, anche su CD-rom. Tuttavia, non è venuta meno la ricerca off-line tradizionale, grazie al supporto di una bibliografia dedicata, con pubblicazioni sia in italiano che in inglese. Internet è stato anche il medium che ha reso possibile raggiungere artisti e curatori, grazie ad un atteggiamento di apertura e condivisione che ha permesso di realizzare incontri e conversazioni, dal vivo e per via telematica.
[5] http://www.tate.org.uk/intermediaart, gennaio 2012.
[6] N. Bookchin, A. Shulgin, Introduzione alla Net.Art, 1999, www.easylife.org/netart, gennaio 2012.
[7] Ibid.
[8] Ibid.
[9] Ibid.
[10] Ibid.
[11] Ibid.
[12] Ibid.
[13] Ibid
[14] R. Greene, Internet Art, Thames & Hudson, London 2004, p. 18.
[15] R. Greene, Internet…, 2004, p. 18.
[16] Ibid.
[17] In Italia si segnalano gli studi di Domenico Quaranta che, iniziati nel 2004 e dedicati inizialmente alla Net.art come movimento d’avanguardia fino alla sua fase postmediale, si sono tradotti nell’istituzione del corso di Net.art all’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano nell’A.A. 2005-2006.
[18] M. Fuller, Art meet Net, Net meet art, 2000, http://www2.tate.org.uk/intermediaart/entry15618.shtm, gennaio 2012.
[19] E. G. Rossi, ArcheoNet. Viaggio nella storia della net/web art e suo ingresso negli spazi dei musei tradizionali, Lalli, Poggibonsi 2003, p. 36.
[20] M. Fuller, Art…, 2000.
[21] Ibid.
[22] C. Gere, Network Art and the Networked Gallery, 2006, http://www2.tate.org.uk/intermediaart/entry15617.shtm, gennaio 2012.
[23] C. Gere, Network…, 2006.
[24] http://www.tate.org.uk/.
[25] C. Gere, Network…, 2006.
[26] http://www2.tate.org.uk/intermediaart/ .
[27] http://www2.tate.org.uk/intermediaart/about/.
[28] Ibid.
[29], Tate Report 2002-2004 http://www.tate.org.uk/about/tatereport/2004/downloads/tate_report_2002_2004.pdf , gennaio 2012.
[30] Ibid.
[31] R. Greene, Internet…, 2004.
[32] M. Papa, Per una teoria del restauro dell’arte contemporanea, “Exibart.studi”, 15 giugno 2007, http://www.exibart.com/Ripostiglio/oggetti/pdf/52445.pdf, gennaio 2012.
[33] Ibid.
[34] S. Cook, B. Graham, V. Gfader and A. Lapp (a cura di), A brief history of working with new media art, conversations with artists, The Green Box – Kunst Editionen, Berlin 2010, p. 36.
[35] Il browser di navigazione Internet, ad esempio, conserva in questa memoria temporanea e nascosta i dati, copiandoli, in modo da renderli disponibili a richiesta dell’utente o allo scopo di caricare velocemente le pagine web consultate. I dati accumulati quindi non sono unici, ma riproducibili e manipolabili off-line, oltre la matrice originaria che li ha generati.
[36] R. Greene, Internet…, 2004.
[37] Per Dotcom si intendono tutte quelle società e aziende che operano ed erogano i loro servizi tramite siti Internet. Molte di esse nacquero in seguito al grande ottimismo generato dalla New-economy, nella seconda metà degli anni Novanta.
[38] R. Greene, Internet…, 2004.
[39] S. Cook et al. (a cura di), A brief history…, 2010.
[40] S. Bordini, Arte elettronica, Giunti, Firenze 2004, p. 74.
[41] S. Cook et al. (a cura di), A brief history…, 2010, p. 55.
[42] Basti pensare alla formazione di alcuni artisti, come ad esempio quella di Heath Bunting, avvenuta in ambito hacker/attivista e cyberpunk.
[43] http://www.tate.org.uk/netart/mongrel/home/default.htm, 2000, gennaio 2012.
[44] Il cui significato è indicativamente bastardo, meticcio. Collettivo composto dalle varie pratiche new media di Richard-Pierre-Davis, Mervin Jarman e Matsuko Yokokoji, ora frammentatosi, formato all’ARTEC (Arts Technology Centre) di Londra intorno al 1995-1997. Graham Harwood e Matsuko Yokokoji non lavorano più sotto il nome Mongrel dal 2008: oggi operano come YoHa. http://www.mongrel.org.uk/.
[45] http://digitalarts.lcc.gatech.edu/unesco/internet/artists/int_a_gharwood.html, gennaio 2012.
[46] Il collettivo Mongrel giunge a lavori come Rehearsal of Memory, 1995, http://mongrel.org.uk/rehearsal, gennaio 2012. Si trattava di un’installazione, ora disponibile su CD-rom, all’interno di un ospedale psichiatrico, che consentiva di navigare su un collage di immagini interattivo di corpi di pazienti. Il collage è quindi assimilato a un’interfaccia per la navigazione: i volti diventano storie al confine fra la follia riconosciuta e l’ambigua inquietante normalità nella società, in seguito all’intervento e all’applicazione della tecnologia informatica. Il progetto fu realizzato grazie al contributo dell’ARTEC, di Moviola e del The North West Arts Board Training Cash, organizzazioni e istituti per il finanziamento e la promozione di progetti artistici e arti digitali. Cfr. M. Deseriis, NET.art…, 2008; R. Greene, Internet…, 2004.
[47] Intervista di chi scrive a Graham Harwood, avvenuta via e-mail il giorno 15 Dicembre 2010.
[48] Linguaggio di programmazione e scrittura di siti web che non prevede la possibilità dell’utente di modificare o interagire con i contenuti proposti. I siti web in linguaggio HTML sono detti statici.
[49] La pratica del dirottamento digitale consiste in un’operazione di sabotaggio e critica del sistema mediatico, con valore simbolico, tipica della Net.art della fine degli anni Novanta. Nello scenario digitale rappresenta la capacità, attraverso la manipolazione dei sistemi di filtraggio telematici (ad esempio i metatag dei motori di ricerca) o il controllo sulla navigazione Internet, di porre o dirottare inaspettatamente l’attenzione dell’utente su questioni e critiche diverse. In questo modo si sovvertono i canali di traffico e di informazione della rete, evidenziando la sua enorme capacità di essere canale per informazioni polarizzate e tutt’altro che neutre.
[50] Formatosi negli anni Ottanta in ambito hacker/attivista e diventato ben presto uno dei protagonisti della prima Net.art, Bunting ha creato organizzazioni basate sulla telecomunicazione come Cyber Cafè, Advertising Art e il più famoso Irational.org, le cui prerogative riguardavano la capacità dei nuovi media di comunicare, fare rete e condividere. Cfr. Sarah Cook, Beryl Graham, Verina Gfader and Axel Lapp (a cura di), A brief history…, 2010; R. Greene, Web Work: a history of internet art, ArtForum. FindArticles.com, maggio 2000, http://findarticles.com/p/articles/mi_m0268/is_9_38/ai_65649375/?tag=content;col1, gennaio 2012; www.irational.org, gennaio 2012.
[51] M. Deseriis, NET.art…, 2008.
[52] Ibid.; p. 199.
[53] Il client di una connessione Internet non è altro che il programma software o l’hardware che accede ai servizi e alle risorse offerti da un determinato server. Nel caso specifico quindi si tratta del computer cliente (quindi il fruitore dell’opera) che desidera accedere a BorderXing Guide, nient’altro che un sito web dai contenuti particolari.
[54] www.irational.org/borderxing.
[55] V. Tanni, ART-WARE. Utopie della Net art, “Flash Art Italia”, n. 238, a. 2003, http://www.epidemic.ws/1_press/Flash%20Art.htm, gennaio 2012.
[56] L. Manovich, Software takes command, Olivares, Milano 2008.
[57] L. Manovich, Software takes…, p. 85.
[58] M. Deseriis, NET.art…, 2008.
[59] Ibid.
[60] Intervista di Jemima Rellie a Susan Collins, 20 febbraio 2004, http://www.dshed.net/sites/digest/04/content/week2/tate_in_space.html, gennaio 2012.
[62] http://www.agoraxchange.net, opera creata in collaborazione con Jaqueline Stevens, professore Associato al Laboratorio di Gioco, Cultura e Tecnologia dell’Università della California di Irvine.
[63] Intuitivamente, un gioco multi-player è quello a cui possono partecipare più giocatori contemporaneamente.
[64] S. Cook et al. (a cura di), A brief history…, 2010, p. 34.
[65] Ibid.
[66] http://www.agoraxchange.org/index.php?page=218, 2004.
[67] http://www.agoraxchange.net/, 2008. Il termine Beta è spesso usato per identificare la versione aggiornata di un software. Entrambi i siti web del gioco sono costruiti in PHP, un linguaggio di programmazione molto diffuso per pagine web dinamiche. Il PHP è differente dal linguaggio HTML (cosiddetto statico), in quanto consente l’interazione con l’utente, che può contribuire ai contenuti del sito modificandoli. Su questo tipo di programmazione si basano siti web come il noto Wikipedia.
[68] L’elemento video-ludico è oggetto di ricerca da parte di artisti e studiosi: spesso si ricreano storie di cronaca e performance sinestetiche all’interno delle ambientazioni virtuali dei videogiochi. Cfr. M. Bittanti, D. Quaranta (a cura di), Gamescenes: art in the age of videogames, Johan & Levi, Milano 2006.
[69] http://www.agoraxchange.net/faq.
[70] http://www.agoraxchange.net.
[71] Collettivo di artisti con sede a Seoul, Corea del Sud, composto da Marc Voge (U.S.A.) and Young-hae Chang (Corea). Una vera e propria azienda, una compagnia come ce ne sono diverse nell’industrializzata Corea, fondata nel 1997 e affacciatasi al mercato Net.art, definito dagli artisti stessi un buon mercato economico, nel quale “you don’t need a studio for all your unsold works”. Cfr. Hyun-Joo Yoo, Intercultural medium literature digital. Interview with YOUNG-HAE CHANG HEAVY INDUSTRIES, febbraio 2005, http://dichtung-digital.mewi.unibas.ch/2005/2/Yoo/index-engl.htm, gennaio 2012.
[72] http://www.tate.org.uk/netart/artofsleep/theartofsleep.htm.
[73] Si veda per esempio l’opera Net.art di Olia Lialina, My Boyfriend Came Back From the War, 1996, http://www.teleportacia.org/war/, gennaio 2012. Qui i collegamenti ipertestuali (hyperlinks) davano luogo ad una narrazione ogni volta diversa per l’assemblaggio sempre nuovo di proposizioni.
[74] Flash, un software lanciato dalla casa produttrice Adobe, permette di creare animazioni complesse e multimediali. All’interno di esse, infatti, è possibile inserire forme vettoriali, testi statici e dinamici, immagini, audio e video nei diversi formati e altre animazioni create con Flash. Inoltre si possono aggiungere ulteriori animazioni interattive, grazie alla presenza di un linguaggio di scripting interno. Tramite questo linguaggio, potenziato nel tempo con ulteriori funzioni, è possibile oggi creare menù, sistemi di navigazione, GUI, siti web completi e giochi anche complessi.
[75] M. Tribe, The Ornitology of Net art, 2006, http://www2.tate.org.uk/intermediaart/entry15274.shtm, gennaio 2012.
[76] http://dichtung-digital.mewi.unibas.ch/2005/2/Yoo/index-engl.htm, gennaio 2012.
[77] M. Tribe, The Ornitology…, 2006.
[78] Ibid.
[79] Intervista di Josè Roca a YOUNG HAE-CHANG HEAVY INDUSTRIES, 23 settembre 2009, http://www.philagrafika2010.org/news/interviewyoung-hae-chang-heavy-industries, gennaio 2012.
[80] R. Greene, Internet…, 2004.
[81] “[…]My discovery is a poignant, evil thing. […] This is what I suddenly realize, and I lie awake, unable to sleep. […] Everything is unnecessary”. The Art of Sleep, http://www.tate.org.uk/netart/artofsleep/theartofsleep.htm.
[82] Intervista di Josè Roca a YOUNG HAE-CHANG HEAVY INDUSTRIES, 23 settembre 2009, http://www.philagrafika2010.org/news/interviewyoung-hae-chang-heavy-industries, gennaio 2012.
[83] The Art of Sleep, http://www.tate.org.uk/netart/artofsleep/theartofsleep.htm.
[84] http://www2.tate.org.uk/netart/bvs/thedumpster.htm, 2006. Realizzata da Golan Levin, artista digitale, insieme con Kamal Nigam e Jonathan Feinberg, ricercatori operanti nel settore delle tecnologie digitali e informatiche. L’opera è stata commissionata in collaborazione con l’Artport, il portale Net.Art e arte digitale del Whitney Museum di New York, http://artport.whitney.org.
[85] Nel gergo di Internet, ormai diventato neologismo, postare è l’atto di pubblicare il post, un articolo o messaggio testuale lasciato generalmente su forum, blog, bacheche e quant’altro rappresenti uno spazio virtuale pubblico. Il blog è un termine coniato dall’abbreviazione di web-log, diario in rete. Si tratta cioè di un sito nel quale il gestore, detto blogger, posta i propri messaggi, pensieri, opinioni e così via in forma di diario, col la possibilità di aggiungere contenuti multimediali vari.
[86] L. Manovich, Social Data Browsing, 2006, www.tate.org.uk/intermediaart/entry15385, gennaio 2012.
[87] Ibid.
[88] The Dumpster, http://www2.tate.org.uk/netart/bvs/thedumpster.htm, gennaio 2012.
[89] L. Manovich, Software takes…, 2008.
[90] http://www2.tate.org.uk/intermediaart/entry15484.shtm, gennaio 2012.
[91] http://noplace.mw2mw.com, gennaio 2012.
[92] Insieme a Jonathan Feinberg, Rory Solomon e Johanna Kindvall. Il duo principale degli MW2MW, è composto da Walczak, un architetto che si cimenta in installazioni che sottolineano le interazioni fra utente e interfaccia; mentre Wattenberg nasce come artista new media, nonché ricercatore e fondatore del laboratorio di comunicazione visuale della IBM.
[93] L’installazione Noplace è stata esposta in due occasioni. La prima dal 20 ottobre al 2 dicembre 2007 al Media Art Institute dei Paesi Bassi con la prima versione del progetto durante il Video Vortex. La seconda ha avuto luogo al Synthetic Times dal 9 Giugno al 3 Luglio 2008 al China National Art Museum: un’installazione realizzata grazie al sostegno di Tate Online e dell’organizzazione Creative Capital, http://creative-capital.org/.
[94] http://noplace.mw2mw.com/how/, gennaio 2012.
[95] Acronimo di Really Simple Syndication.
[96] Per tag si intende generalmente una sorta di marcatore, o parola chiave, che associato ad un contenuto web consente di indicizzarlo nei motori di ricerca. Similmente, il tag HTML è un metodo per ordinare gerarchicamente i contenuti di un documento scritto in linguaggio HTML.
[97] http://www2.tate.org.uk/intermediaart/noplace.shtm. Cfr. F. Gallo, Dalle reti locali anni ’80 al Web 2.0: le ricerche degli artisti, “Kunstgeschichte. Open Peer Reviewed Journal”, 2011, http://www.kunstgeschichte-ejournal.net/158/1/Francesca_Gallo_Artistic_Research_from_local_Networks_in_eighties_to_the_web.pdf, gennaio 2012.
[98] C. Gere, Welcome to the desert of the digital, settembre 2008, http://www2.tate.org.uk/intermediaart/desert_of_the_digital.shtm, gennaio 2012.
[99] Ibid.