Scrivere della 
																pittura 
																siciliana del 
																XVII secolo, ove 
																non si sia già 
																fatta ampia luce 
																sulle vicende 
																della cultura 
																figurativa del 
																Siglo de oro 
																isolano, 
																comporta 
																inevitabilmente 
																fare i conti con 
																una larga 
																divaricazione 
																tra due mondi 
																diversissimi: da 
																un lato la 
																grande, e per 
																molti versi 
																irripetibile, 
																esperienza di 
																Pietro Novelli 
																che rappresentò 
																la svolta 
																rispetto agli 
																esiti di un 
																tardo Manierismo 
																solo 
																parzialmente 
																innovato dalla 
																non lontana 
																parentesi di 
																Filippo Paladini 
																e dai testi 
																pittorici di 
																Michelangelo 
																Merisi; 
																dall’altro la 
																schiera di 
																epigoni più o 
																meno tributari 
																del Monrealese, 
																che – talora in 
																virtù delle loro 
																origini 
																“nordiche” – 
																tentarono una 
																mediazione tra 
																il ricco 
																eclettismo del 
																maestro e i 
																retaggi della 
																loro cultura 
																d’origine. Si 
																trattò in 
																qualche caso di 
																artisti 
																estremamente 
																dotati dal punto 
																di vista tecnico 
																e inventivo 
																(viene in mente 
																il luminismo 
																neocaravaggesco 
																di Matthias Stom[1], 
																che tuttavia ben 
																poco seguito 
																attrasse fra gli 
																artisti locali), 
																molto attenti al 
																gusto della 
																committenza 
																laica ed 
																ecclesiastica; 
																in qualche altro 
																di pittori 
																indubitabilmente 
																“secondari” (o 
																addirittura in 
																una posizione di 
																“classifica” 
																ancor più 
																bassa), la cui 
																produzione – 
																tuttavia – dà 
																conto di un 
																panorama in ogni 
																caso multiforme. 
In 
																questo 
																intervento 
																presenterò tre 
																opere sin qui 
																abbastanza 
																trascurate dalla 
																storiografia 
																artistica le 
																quali, mi 
																sembra, 
																presentano però 
																i tratti del più 
																grande interesse 
																a ricostruire il 
																retroterra 
																pittorico 
																siciliano del 
																Seicento. Mi 
																riferisco a un 
																gruppo di 
																dipinti 
																cronologicamente 
																omogenei 
																(appartengono 
																tutti alla prima 
																metà del XVII 
																secolo), certo 
																non 
																qualificabili 
																come 
																“capolavori”, ma 
																che pure val la 
																pena di 
																conoscere o di 
																riscoprire 
																poiché – 
																sconosciute o 
																erratamente 
																attribuite – 
																s’inseriscono 
																esattamente nel 
																milieu cui 
																accennavo: si 
																tratta di una 
																Pentecoste 
																(1624) custodita 
																presso la 
																Basilica di San 
																Francesco 
																d’Assisi a 
																Palermo, opera 
																inedita di un 
																quasi ignoto 
																Giuseppe 
																Schettino; di 
																una Immacolata 
																(1634) 
																conservata nel 
																Seminario 
																Vescovile di 
																Trapani, da 
																assegnare a 
																nostro avviso al 
																minnitesco 
																siracusano 
																Giuseppe Reati; 
																e di una Madonna 
																del Rosario 
																(1647), nella 
																chiesa della 
																Badia Nuova a 
																Trapani, 
																giustamente 
																attribuita (ma 
																solo di 
																passaggio) al 
																fiammingo 
																Geronimo Gerardi, 
																per analogia con 
																altre opere del 
																pittore. 
																Qui darò conto, 
																ovviamente con 
																brevità, delle 
																ragioni che mi 
																inducono a 
																formulare queste 
																attribuzioni.
La data 
																della Pentecoste[2] 
																di Giuseppe 
																Schettino si 
																desume dal 
																relativo 
																contratto 
																stipulato dal 
																pittore con i 
																frati 
																francescani, già 
																citato in 
																transunto da 
																Giovanni Mendola 
																nel 1999
																
																
																[3]. 
																Tale contratto 
																riguardava anche 
																una 
																Resurrezione, 
																spazzata via 
																dalle bombe del 
																1943; il tutto, 
																curiosamente – 
																ma eravamo già 
																in tempi di 
																pestilenza – 
																solo in cambio 
																di “vitto e 
																alloggio” per il 
																pittore e un suo 
																famulo, per 
																tutta la durata 
																del lavoro 
																pittorico. 
																Premesso ancora 
																che delle opere 
																anzidette si 
																trovano già 
																sparute 
																citazioni 
																nell’Otto e 
																Novecento[4], 
																entriamo nel 
																merito della 
																raffigurazione. 
																Che colpisce a 
																prima vista – al 
																di là delle 
																disastrose 
																condizioni di 
																tutta la 
																superficie 
																dipinta –, per 
																l’affollata 
																rappresentazione 
																dell’ambiente 
																del Cenacolo 
																mariano, al 
																centro del quale 
																spicca 
																l’imponente 
																figura della 
																Vergine a 
																braccia aperte 
																tra apostoli e 
																discepoli che 
																coprono l’intero 
																spazio di primo 
																piano. Nel 
																secondo 
																s’intravedono 
																monumentali 
																architetture di 
																gusto classico, 
																che terminano 
																sul fondo con 
																un’alta esedra 
																illuminata da 
																una luce 
																ranciata, 
																immediato 
																richiamo al più 
																vivo arancione 
																dei manti degli 
																apostoli sul 
																proscenio. Pur 
																nelle 
																tristissime 
																condizioni 
																dell’intera 
																superficie 
																pittorica (anche 
																per effetto di 
																un maldestro 
																restauro “di 
																ricostruzione” 
																del dopoguerra), 
																l’immagine della 
																Madonna ha 
																ancora un che di 
																nobile e di 
																elegante: quasi 
																miracolosamente 
																illesa (da 
																quanto sembra) 
																nel bianco collo 
																e nel tenero 
																volto. 
																Quattro apostoli 
																di spalle, dagli 
																scultorei 
																mantelli 
																rosso-arancione 
																intrisi di luce, 
																formano come una 
																conca nel piano 
																inferiore della 
																tela, che poi si 
																colma con 
																l’affollata 
																assemblea 
																attorno alla 
																Vergine nella 
																zona centrale; 
																purtroppo di 
																assai difficile 
																lettura. 
																Composizione a 
																parte, tre sono 
																gli aspetti 
																preminenti del 
																linguaggio 
																formale che 
																sembrano 
																caratterizzare 
																interessi, 
																cultura e gusto 
																del nostro 
																sacerdote-pittore: 
																la vivezza e il 
																cangiantismo 
																cromatico, la 
																peculiare 
																tipologia della 
																Vergine, il 
																naturalismo 
																luministico 
																attraverso cui 
																vuol renderci le 
																figure popolane 
																di apostoli e 
																discepoli. Sono 
																tutti aspetti, 
																se non andiamo 
																errati, che ci 
																inducono a 
																collocare il 
																pittore 
																nell’area della 
																produzione 
																bazzanesca e 
																alviniana; a 
																quest’ultima 
																soprattutto, con 
																riferimento più 
																diretto alla 
																Allegoria 
																dell’Immacolata 
																Concezione 
																(1624) in Santa 
																Maria la Nuova a 
																Palermo di 
																Pietro Alvino, 
																figlio di 
																Giuseppe, il cui 
																calzante 
																confronto ci 
																viene 
																amichevolmente 
																suggerito da 
																Vincenzo Abbate[5]; 
																nel rammarico 
																che le ripetute 
																forti 
																manomissioni 
																delle figure non 
																ci consentano di 
																risalire in 
																maniera più 
																sicura a quel 
																soffio di 
																intenso 
																naturalismo e 
																luminismo, forse 
																di radice 
																caravaggesca o 
																di contagio 
																novellesco, 
																affiorante, come 
																già accennato, 
																nei volti degli 
																apostoli. Resta 
																solo da 
																auspicare 
																vivamente, anche 
																se forse, 
																utopisticamente, 
																un nuovo e 
																coraggioso 
																restauro, che 
																possa consentire 
																un più sicuro 
																riconoscimento 
																di forme e 
																valori originali 
																e residui della 
																tela stessa.
																L’Immacolata con 
																figura di 
																committente[6] 
																di Giuseppe 
																Reati (?,1634), 
																sebbene di un 
																decennio 
																successiva, 
																appartiene a un 
																Manierismo 
																diverso e ben 
																più remoto 
																rispetto a 
																quello che 
																esprime la tela 
																dello Schettino. 
																L’arcaismo 
																dell’impostazione 
																(l’icona della 
																Vergine con i 
																simboli 
																lauretani in 
																altrettanti 
																riquadri e la 
																figura del 
																committente 
																inginocchiato in 
																basso) richiama 
																a prototipi 
																addirittura 
																quattrocenteschi 
																(viene in mente 
																la Madonna del 
																Carmelo di 
																Tomaso de 
																Vigilia nella 
																palermitana 
																chiesa del 
																Carmine 
																Maggiore, datata 
																1492), 
																evidentemente 
																mai tramontati 
																nell’ambito 
																della pittura 
																devozionale del 
																XVII secolo. 
																Unica 
																concessione al 
																“verosimile” il 
																ritratto del 
																committente 
																chiaramente 
																identificato 
																dalla dedica 
																entro lo scudo 
																in primo piano: 
																“Fra Nicola 
																Cavarretta 
																Priore di 
																Venetia 1634”; 
																frate e priore 
																dell’Ordine di 
																Malta, 
																ovviamente, come 
																si evince dalla 
																bianca croce a 
																otto punte 
																ostentata sul 
																mantello[7].
Nessuno 
																ci ha saputo 
																dire come e 
																quando la tela 
																sia arrivata 
																nella sede 
																attuale; si può 
																solo immaginare, 
																credibilmente, 
																che essa abbia 
																avuto come sede 
																originaria una 
																cappella privata 
																della nobile 
																famiglia del 
																committente, in 
																un palazzo della 
																stessa a Trapani 
																o a Palermo[8]. 
																L’opera è stata 
																resa nota nel 
																2004, ma con 
																l’attribuzione 
																difficilmente 
																sostenibile a 
																due mani diverse 
																che avrebbero 
																operato a 
																distanza di 
																oltre un 
																trentennio tra 
																di loro[9]. 
																Analizzando, 
																tuttavia, i modi 
																figurativi delle 
																varie parti del 
																dipinto appare 
																evidente che non 
																due, ma tre mani 
																addirittura 
																possono portare 
																ad autori 
																diversi sebbene 
																comunque 
																nell’ambito 
																della stessa 
																bottega e dello 
																stesso momento 
																esecutivo, 
																testimoniato 
																dalla piena 
																omogeneità della 
																superficie 
																pittorica. Gli 
																accennati 
																diversi modi 
																figurativi 
																riguardano, 
																chiaramente, la 
																figura centrale 
																della Vergine, i 
																quadretti degli 
																stilizzati 
																simboli 
																lauretani 
																attorno a essa e 
																la rude figura 
																del 
																committente-devoto 
																inginocchiato in 
																basso. Una 
																preziosa notizia 
																storiografica 
																relativa al 
																pittore per cui 
																noi propendiamo 
																ci aiuterà a 
																capire da dove 
																provengano 
																queste 
																differenze; ma 
																vediamo, 
																intanto, in che 
																cosa esse 
																realmente 
																consistano. È 
																evidente, nella 
																pur monumentale 
																e quasi espansa 
																figura della 
																Vergine avvolta 
																nel manto 
																verdone a larghe 
																pieghe[10], 
																il permanere 
																dell’iconismo 
																controriformato, 
																addirittura 
																accentuato, in 
																questo caso, 
																dalla grande 
																mandorla ovale 
																dorata in cui la 
																figura è 
																racchiusa e 
																isolata, in una 
																sua dimensione 
																sacrale e “senza 
																tempo”[11]. 
																Né vale a 
																rompere del 
																tutto tale 
																atmosfera un più 
																moderno effetto 
																di luce 
																naturale, tenera 
																e sfumata, sul 
																volto 
																aggraziato, 
																unico e modesto 
																segno di nuova 
																sensibilità 
																umana e 
																culturale 
																espresso dal 
																pittore.
Di ben 
																diversa cultura 
																manieristica, 
																tendente quasi 
																al geometrico e 
																all’astratto, 
																appaiono gli 
																stilizzati 
																quadretti con i 
																simboli delle 
																litanie lungo il 
																perimetro della 
																tela; anche se 
																lo stesso 
																pittore sa 
																applicarsi, in 
																certe 
																raffigurazioni 
																di fiori e 
																piante, in una 
																ricerca quasi 
																fiamminga di 
																verità naturale. 
																L’unica parte 
																del dipinto che 
																può dirsi 
																appieno 
																“moderna” e 
																consona alla più 
																diffusa cultura 
																naturalistica 
																del tempo è 
																quella che ci 
																presenta, pur 
																sommariamente 
																delineata, la 
																figura del 
																committente 
																inginocchiato, 
																dal volto 
																rossastro, 
																marcato e 
																rugoso. Non è 
																difficile 
																trovare la 
																spiegazione di 
																tale “fattura a 
																più mani” 
																coniugando tre 
																dati di 
																riferimento, 
																diretti o 
																indiretti e 
																ancorché 
																eterogenei. 
Eccoli, 
																schematicamente: 
																il linguaggio 
																complessivo 
																della pittura 
																che – come mi 
																suggeriscono 
																amici 
																conoscitori 
																dell’area della 
																Sicilia 
																orientale – 
																indirizza 
																chiaramente 
																verso la bottega 
																minnitesca, di 
																cui attivamente 
																faceva parte 
																Giuseppe Reati; 
																l’autore più 
																probabile, a 
																nostro avviso, 
																di questa tela; 
																un dato 
																documentario 
																della biografia 
																del committente, 
																che sino al 1622 
																era Referendario 
																presso la 
																Commenda 
																gerosolomitana 
																di San Giovanni 
																a Caltagirone[12], 
																da dove avrà 
																potuto 
																apprezzare 
																l’anzidetta 
																bottega 
																minnitesca, 
																ricordandosene 
																più tardi quando 
																da Venezia, 
																forse all’apice 
																della sua 
																carriera, 
																ordinava il 
																dipinto, 
																devozionale e 
																autocelebrativo 
																al tempo stesso; 
																terzo e ultimo 
																(ma non meno 
																significativo) 
																dato, un cenno 
																storiografico di 
																Luigi Sarullo[13] 
																secondo il quale 
																il Reati teneva 
																a bottega ben 
																sedici allievi, 
																ovviamente con 
																talenti e 
																compiti diversi.
Non ci 
																resta, credo, 
																che ricercare 
																ogni riscontro 
																possibile tra 
																l’opera di cui 
																ci occupiamo e i 
																dipinti di più 
																sicura e 
																accreditata 
																attribuzione ai 
																citati pittori 
																siracusani, da 
																parte della 
																critica degli 
																ultimi decenni 
																(Campagna 
																Cicala, Barbera, 
																Spagnolo, Vella…). 
Per 
																brevità, ci 
																limitiamo a 
																citare qui 
																alcune 
																morfo-tipologie 
																evidenti nella 
																tela trapanese, 
																e nella figura 
																della Vergine in 
																particolare, 
																ampiamente 
																riscontrabili in 
																alcune opere 
																abbastanza 
																affini di Mario 
																Minniti e di 
																Giuseppe Reati 
																custodite in 
																diversi luoghi 
																della Sicilia 
																orientale. 
																Figura e posa, 
																anzitutto, del 
																personaggio 
																principale, la 
																Madonna appunto; 
																colore rosso 
																acceso, 
																piegature rigide 
																e fitte con alta 
																accollatura 
																della veste; 
																lunghi capelli 
																sciolti, volto 
																aggraziato e 
																modellato (in 
																questo caso più 
																che in altri) 
																dallo sfumare 
																della luce; mani 
																affusolate ma 
																anche un po’ 
																legnose… Tutto, 
																anche se 
																variamente, 
																riscontrabile 
																dalle due 
																Immacolate del 
																Minniti del 
																Museo di Messina 
																ma, ancor più, 
																nelle tele del 
																Reati: 
																l’Immacolata di 
																San Filippo Neri 
																a Siracusa, il 
																Miracolo di San 
																Domenico a 
																Soriano a 
																Modica, la 
																Madonna del 
																Carmine con i 
																Santi Agata e 
																Carlo Borromeo 
																di Noto[14]. 
																Tutto questo, 
																peraltro, a 
																prescindere dai 
																significati 
																linguistici da 
																connettere alle 
																differenze di 
																tempi esecutivi, 
																cui non possiamo 
																dedicarci se non 
																per sottolineare 
																che la nostra 
																tela è datata, 
																come abbiamo 
																visto, al 1634 
																mentre quelle 
																già citate dello 
																stesso Reati si 
																collocano, com’è 
																stato 
																puntualmente 
																notato[15], 
																tra il ’38 ed il 
																’42. Altri potrà 
																indagare, 
																eventualmente, 
																con migliori 
																letture degli 
																aspetti e dei 
																linguaggi, 
																rispetto a 
																questi spunti.
																L’ultimo dei 
																dipinti che qui 
																presentiamo, la 
																Madonna del 
																Rosario con i 
																Santi Domenico e 
																Caterina da 
																Siena[16] 
																di Geronimo 
																Gerardi[17] 
																(1647), 
																appartiene 
																invece alla fase 
																più aggiornata 
																della pittura 
																siciliana del 
																Seicento, quella 
																per intenderci 
																immediatamente 
																contigua alla 
																cerchia di 
																Pietro Novelli.
																
																Questa bella e 
																colorata tela 
																posta 
																sull’altare 
																maggiore della 
																chiesa 
																ex-domenicana al 
																centro di 
																Trapani, a 
																differenza delle 
																precedenti non è 
																né inedita né 
																misconosciuta, 
																ma semplicemente 
																e marginalmente 
																nota agli 
																specialisti che, 
																di passaggio, 
																l’hanno citata 
																per analogia con 
																altre tele (a 
																Palermo, Cefalù, 
																etc.) dello 
																stesso pittore[18]. 
																Ma essa merita 
																certamente, per 
																i motivi che 
																vedremo, una più 
																specifica 
																attenzione. 
																Ricordato, 
																anzitutto, che 
																la sua datazione 
																– 1647, dipinta 
																in basso sul 
																dorso del libro 
																adagiato sul 
																manto della 
																Santa Caterina – 
																era stata già 
																divulgata dagli 
																eruditi 
																trapanesi 
																dell’Ottocento 
																che avevano 
																concordemente 
																ammirato la 
																pittura «d’inavanzabile 
																pennello 
																fiammingo»[19] 
																e senza 
																indugiare sulla 
																descrizione,  
																rileviamo subito 
																che tra i valori 
																formali che la 
																caratterizzano 
																spicca 
																soprattutto la 
																componente 
																cromatica; per i 
																bianchi e neri 
																toccati dalla 
																luce dei sài 
																monacali ma, 
																ancor più, per 
																l’azzurro e il 
																rosso immersi 
																nella luce del 
																manto spazioso e 
																della veste 
																della Vergine. 
Un 
																aspetto, poi, 
																che distingue 
																questa tela 
																dalle consorelle 
																palermitana e 
																cefaludese già 
																studiate, è 
																l’aggiunta nella 
																parte superiore 
																della mossa e 
																colorata 
																ghirlanda (quasi 
																di aerei 
																palloncini) con 
																episodi della 
																vita di Cristo e 
																di Maria. Ma, al 
																di là delle pur 
																strette affinità 
																con le tele 
																anzidette quanto 
																alla 
																composizione 
																piramidale delle 
																tre figure sacre 
																che incarnano i 
																rispettivi 
																soggetti, è 
																quell’animato 
																coronamento che 
																lega piuttosto 
																questa tela 
																domenicana a 
																un’altra pittura 
																trapanese dello 
																stesso Gerardi, 
																antecedente di 
																un decennio e 
																non meno 
																caratterizzata 
																da interessi 
																cromatico-spaziali: 
																la grande 
																Immacolata 
																Concezione che i 
																Gesuiti nel 1636 
																avevano 
																collocato 
																sull’altare 
																della loro 
																Chiesa del 
																Collegio, 
																distante da 
																quella 
																domenicana solo 
																qualche 
																centinaio di 
																metri[20]. 
																L’accennata 
																ricerca di 
																“movimento 
																colorato” come 
																potremmo 
																definirlo, qui 
																rappresentata 
																dall’arco di 
																medaglioni 
																collegati da 
																serti floreali 
																nella parte alta 
																del dipinto, 
																poteva già 
																vedersi, infatti 
																– e anche assai 
																più ricca – 
																nella tela 
																dell’Immacolata, 
																nell’ampia e 
																festosa danza 
																dei floridi 
																puttini 
																rubensiani che 
																si svolgeva 
																tutt’attorno 
																all’alta figura 
																della Vergine, 
																emergente in un 
																azzurro ovale di 
																cielo. La 
																«squillante 
																ricchezza 
																cromatica» che – 
																utilizzo le 
																parole di 
																Vincenzo Abbate[21] 
																– caratterizza 
																la pittura del 
																Gerardi, qui 
																emerge in tutta 
																la sua fascinosa 
																evidenza.
Sempre 
																sul filo 
																dell’incidenza 
																stilistica dei 
																valori di colore 
																e luce, ma anche 
																di spazio e 
																movimento nel 
																linguaggio del 
																Gerardi di 
																questo tardo 
																tempo trapanese, 
																ritengo sia pure 
																da richiamare la 
																grande tela 
																carmelitana con 
																la Sacra 
																Famiglia con i 
																Santi Gioacchino 
																e Anna, 
																recentemente 
																attribuitagli da 
																Giovanni Mendola 
																e, quasi 
																sicuramente, di 
																questi stessi 
																anni quaranta[22]. 
Al 
																tirare allora 
																delle somme, ed 
																essendo stato 
																scritto che «le 
																opere del 
																Gerardi 
																presentano 
																caratteri più 
																spiccatamente 
																naturalistici in 
																cui non 
																risultano mai 
																troppo 
																accentuati i 
																toni cromatici, 
																rimanendo 
																evidenti 
																piuttosto 
																contrastanti 
																valori di 
																luce-ombra»[23], 
																non sembra di 
																assistere, con 
																queste ultime 
																tele del 
																fiammingo 
																proprio a un 
																orientamento 
																opposto, per il 
																quale proprio il 
																colore – non 
																senza apporti di 
																luce, spazio e 
																movimento – 
																sembra 
																interessare 
																maggiormente al 
																pittore e alla 
																sua committenza?
[1]              Per il soggiorno siciliano di Matthias Stom, mi permetto di rinviare a V. Scuderi, Caravaggeschi nordici (e di «nazioni italiane») operanti in Sicilia. La posizione di Pietro Novelli, in Caravaggio in Sicilia: il suo tempo, il suo influsso, catalogo della mostra, Sellerio, Palermo 1984, pp. 183-224; cfr. inoltre A. Zalapì, Il soggiorno siciliano di Matthias Stom tra neostoicismo e «dissenso». Nuove acquisizioni documentarie sull’ambiente artistico straniero a Palermo, in Porto di mare. Pittori e pittura a Palermo, 1570-1670, catalogo della mostra a cura di V. Abbate et al., Electa, Napoli 1999, pp. 147-157; A. Zalapì, Matthias Stom. Un caravaggesco nella collezione Villafranca di Palermo, Museo Diocesano di Palermo, Palermo 2010.
[2]               Si tratta di un olio su tela, cm 350 x 280, custodito nella parete destra presbiterio della Basilica di San Francesco di Assisi a Palermo.
[3]              Prima del 1999, quando Giovanni Mendola (Dallo Zoppo di Ganci a Pietro Novelli. Nuove acquisizioni documentarie, in Porto di mare…, cit., pp. 57-87, a p. 73) citava il contratto con i Francescani, un altro contratto del 1632 era emerso a Trapani. Da esso risulta che Schettino si impegnava con i Carmelitani a dipingere nella cappella della Madonna una serie di riquadri entro un apparato di stucchi di Giuseppe Ferraro: tutto, oggi, perduto (cfr. G. Bongiovanni, Vicende della Cappella della Madonna, in M. C. Di Natale, V. Abbate (a cura di), Il Tesoro nascosto: gioie e argenti per la Madonna di Trapani, Novecento, Palermo, 1995, pp. 67-75, a p. 75). Da aggiungere, infine, che Giuseppe Schettino, prima di impegnarsi con i Francescani di Palermo per la Pentecoste e per la Resurrezione, doveva aver lavorato all’interno del Convento: nel contratto per le tele si parla infatti anche della eventuale ripresa di affreschi nel chiostro, oggi scomparsi.
[4]              Cfr. G. Palermo, Guida per Palermo e suoi dintorni (ed. a cura di G. Di Marzo Ferro), Palermo 1858, p. 238; e F. Rotolo, La Basilica di San Francesco di Assisi, Palermo, 1952, p. 120. Impossibile verificare, oggi, quanto il Palermo affermava circa una data “1618” dipinta su di un libro in mano ad un apostolo. Nella nuova edizione del suo volume (La Basilica di San Francesco d’Assisi e le sue cappelle. Un monumento unico nella Palermo medievale, Provincia di Sicilia dei Frati Minori Conventuali Ss. Agata e Lucia, Palermo 2010, p. 328), padre Rotolo afferma che la tela fu restaurata nel 1970 dal pittore napoletano Stefano Macario.
[5]              La tela di Pietro Alvino di Santa Maria La Nuova è stata pubblicata da T. Viscuso, Per la pittura in Sicilia occidentale nei primi del Seicento, in Contributi alla storia della cultura figurativa della Sicilia occidentale tra la fine del XVI e gli inizi del XVII secolo. Palermo, 1985, p. 28; cfr. anche G. Mendola, Dallo Zoppo di Gangi…, cit., pp. 62-63.
[6]              Si tratta di una tela, cm 281 x 203, custodita presso il Seminario vescovile di Trapani.
[7]              Sulla nobile famiglia trapanese dei Cavarretta, vedi G. M. Di Ferro, Biografia degli uomini illustri trapanesi, Trapani 1830, tomo III, p. 68 e segg.
[8]              Si conosce il palazzo privato della famiglia a Trapani, mentre se ne può anche ipotizzare uno a Palermo, dove Nicola Cavarretta disponeva di “soggiogazioni” da cui attingeva ampiamente i fondi per armare, ogni cinque anni, una galera per i Cavalieri di Malta. Cfr. L. Buono e G. Pace Gravina, (a cura di), La Sicilia dei Cavalieri. Le istituzioni dell’Ordine di Malta in età moderna (1530-1826), Fondazione Donna Maria Marullo di Condojanni, Roma 2003, p. 133, n. 7.
[9]               M. Vitella, Su alcune immagini dell’Immacolata Concezione nel trapanese, in L’Immacolata nell’arte in Sicilia, catalogo della mostra a cura di M. C. Di Natale e M. Vitella, Palermo 2004, p. 134.
[10]            In cui soprattutto sono evidenti ampi e non proprio felici rifacimenti di un restauro attuato un decennio addietro.
[11]            Uso qui, ovviamente, la formula di Federico Zeri a proposito della pittura di Scipione Pulzone, che costituisce il titolo di uno dei suoi studi più fortunati, Pittura e Controriforma. L’“arte senza tempo di Scipione da Gaeta”, Neri Pozza, Vicenza 1997 (prima ed. Einaudi, Torino 1957).
[12]            L. Buono e G. Pace Gravina, (a cura di), La Sicilia dei Cavalieri…, cit., p. 133.
[13]            L. Sarullo, Dizionario degli artisti siciliani, vol. II – Pittura, Novecento, Palermo 1993, ad vocem “Reati, Giuseppe” a cura di C. Di Giacomo, p. 447.
[14]            Per un confronto alle opere anzidette, rimando a AA.VV, Mario Minniti, l’eredità di Caravaggio a Siracusa, Electa Napoli 2004, passim; Opere d’arte restaurate nelle province di Siracusa e Ragusa, 1990-92, Palermo 1994, passim.
[15]            D. Spagnolo, schede 4-4 a/d, in Opere d’arte restaurate nelle province di Siracusa e Ragusa, II (1989), pp. 30 e ss.
[16]            Si tratta di un olio su tela, cm 420 x 253, custodito a Trapani presso la Chiesa della Badia Nuova.
[17]            Per Geronimo Gerardi (Anversa, 1595 ca.-Trapani, 1648), cfr. la scheda biografica a cura di G. Mendola, in Porto di mare…, cit., p. 273; cfr. inoltre gli studi di T. Viscuso, Pittori fiamminghi nella Sicilia occidentale al tempo di Pietro Novelli. Nuove acquisizioni documentarie, in Pietro Novelli e il suo ambiente, catalogo della mostra, Flaccovio, Palermo 1990, pp. 101-114; di G. Mendola, Un approdo sicuro. Nuovi documenti per Van Dyck e Gerardi a Palermo, in Porto di mare…, cit., pp. 88-105; e di 
																								V. Abbate, Un’aggiunta a Geronimo Gerardi e qualche precisazione a margine del suo soggiorno siciliano, in Interventi sulla «questione meridionale». Saggi di Storia dell’arte, a cura del Centro di studi sulla civiltà artistica dell’Italia Meridionale «Giovanni Previtali», Donzelli, Roma 2005, pp. 223-228; N. Gozzano, Mercanti fiamminghi in Italia nel Seicento: agenti, artisti, consoli, “Bollettino Telematico dell’Arte”, n. 595, 22 Febbraio 2011, on line su http://www.bta.it/txt/a0/05/bta00595.html (visitato il 12 marzo 2012).
[18]            S. Grasso, Dipinti inediti di G. Lo Verde, in “BCA Sicilia”, a. IV, nn. 1-4, 1983, pp. 107-122; e G. Mendola, La Madonna del Rosario con i Santi Domenico e Giacinto, scheda n. 33, in Porto di mare…, cit., pp. 238-239.
[19]            G. M. Di Ferro, Guida per gli stranieri in Trapani, presso Manone e Solina, Trapani 1825, p. 36; e F. Mondello, Breve guida artistica di Trapani, Trapani, 1883, p. 82.
[20]            M. P. Demma, Scheda n. 5, in Opere d’arte restaurate, 1987-1996, Trapani 1998, p. 35.
[21]            V. Abbate, Un’aggiunta a Geronimo Gerardi…, cit., p. 225.
[22]            Ringrazio ancora Giovanni Mendola per la comunicazione verbale su questa attribuzione, come ho già avuto modo di fare in V. Scuderi, La Madonna di Trapani e il suo Santuario, Edizioni del santuario della Madonna di Trapani, ivi 2011, p. 93.
[23]            T. Viscuso, Pittori fiamminghi nella Sicilia occidentale…, cit., p. 106.

