Ormai da qualche decennio gli affreschi absidali della Basilica della SS. Trinità di Saccargia (Codrongianos, SS) hanno cessato di rappresentare, o di essere considerati, un unicum nel panorama della pittura medievale in Sardegna. Un ripensamento critico dei fondamenti di questa convinzione e il riemergere di cicli pittorici di cui si erano perse le tracce, o di cui non si era a conoscenza, hanno proceduto parallelamente nell’opera di smontaggio, permettendo di restituire un nuovo corpus di opere poggiante su nuove basi[1]. Tuttavia, proprio per via del carattere di unicità assunto in precedenza, tali affreschi continuano a valere come una sorta di cartina di tornasole nel momento in cui, e a maggior ragione, si sposta l’ottica dalla storia dell’arte alla storia della critica e della storiografia artistica. Infatti, la ricognizione delle ipotesi interpretative e delle posizioni concettuali emerse nella medievistica in relazione alla Sardegna non può fare a meno di incontrarsi con il riferimento pressoché esclusivo che per lungo tempo si è fatto a questo ciclo pittorico. È su Saccargia che si sono giocate non solo la storia della pittura e, più in generale, dell’arte medievale in Sardegna, ma anche la tenuta sia delle argomentazioni addotte a supporto dell’indagine, sia dei loro principi teorici e storico-critici.
In quest’ottica appaiono particolarmente significative le posizioni emerse tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, tanto sul piano della storia degli studi, per la fecondità dimostrata da alcune ipotesi allora elaborate, quanto sul piano della storia della critica, per la ricchezza dei punti di vista dai quali l’argomento è stato affrontato e per il profilo degli studiosi coinvolti[2]. Il dibattito implicito sviluppatosi in quei decenni costituisce una sorta di fase mediana nella vicenda delle ricerche sugli affreschi, situandosi tra le indagini pionieristiche svolte fino agli anni dell’ultima guerra e quelle che dagli anni Novanta hanno contribuito a metterne in discussione il carattere di unicum. È una fase che ha inizio nel 1953, con la pubblicazione dell’articolo di Maria Accascina Gli affreschi di S. Trinita di Saccargia nella rivista “Bollettino d’arte”; a esso fanno seguito inizialmente il denso Comment on the Frescoes in S. Trinità di Saccargia di Edward B. Garrison, dell’anno successivo, e un cenno brevissimo, finora sfuggito all’attenzione degli studiosi, di Hellmut Hager nella sua prima monografia, Die Anfänge des italienischen Altarbildes del 1962[3]. Questa apertura internazionale ha costituito una parentesi e un’occasione mancata, in quanto sia Garrison sia Hager sono stati ignorati dalla critica successiva e gli studi su Saccargia hanno ripreso a circoscriversi in Italia[4]. Dello stesso 1962 è l’intervento di Corrado Maltese in Arte in Sardegna dal V al XVIII, a cui seguono le osservazioni di Mario Rotili – del tutto dipendenti da Accascina – in Origini della pittura italiana del 1963 e, infine, un cenno nel lungo saggio del 1969 Frammenti di una civiltà anticlassica, scritto a quattro mani da Maltese e Renata Serra; a questi, almeno per completezza, andrebbe aggiunto il testo del pittore e incisore Antonio Leonardo Sechi a corredo delle tavole di rilievo architettonico della basilica, risalente agli anni 1953-1957 e rimasto inedito fino al 1992[5].
Con l’intento di indagarne gli aspetti metodologici, le pagine successive si soffermeranno sull’articolo di Maria Accascina. All’interno della storia degli studi sul ciclo pittorico codrongianese, questo contributo ha costituito soprattutto un termine di confronto polemico: considerato nel suo insieme, come ha scritto l’archeologo Roberto Caprara, un «articolo nel quale spunti interessanti si alternano a disarmanti disinformazioni e ingenuità»[6], se ne sono rifiutate le tesi-chiave, sia in termini di individuazione d’ambito, sia in termini di datazione. Già Garrison contestava alla studiosa i riferimenti a Bisanzio, minimizzava, pur senza negarla, un’influenza catalano-spagnola e rifiutava l’ascrizione alla prima metà del XII secolo[7]. Queste tesi si ritrovano di lì a poco in Sechi e Maltese, più decisi rispetto allo storico statunitense a mettere da parte il riscontro di influssi tardo-bizantini e catalani come pure una datazione così alta: una datazione che anche successivamente ha trovato poco seguito e poco credito, tanto da essere ripresa in anni più recenti solo da Miklós Boskovits e, sulla sua scia, da Angelo Tartuferi[8]. In seguito Renata Serra e Roberto Coroneo, rifiutando parimenti tale datazione, hanno visto come «non pertinenti», e quindi suscettibili di essere «tralasciati», i rimandi agli ambiti copto e, ancora, catalano[9]. Più di recente Alberto Virdis, oltre a considerare l’articolo nel suo complesso «un lavoro derivato da conoscenze approssimative della storia sarda», per esempio per avere «nominato un poco verosimile ducato di Torres», ha criticato il suo legame con la tesi, oggi non più sostenibile, di una «pittura benedettina» dotata di caratteri propri e riconoscibili[10].
Allieva di Adolfo Venturi e docente in quegli anni all’Università di Cagliari, Accascina è stata attiva soprattutto in Sicilia, sua terra d’origine, dove all’insegnamento universitario ha accompagnato, fra l’altro, la direzione del Museo Nazionale di Messina e il riordino della sezione delle opere medievali e moderne di quello di Palermo[11]. Tra i suoi interessi vasti e poliedrici, lo scritto del 1953 è l’unico riguardante argomenti relativi all’arte in Sardegna; nella storia degli studi esso si segnala anzitutto per essere il primo lavoro dedicato interamente al ciclo pittorico di Codrongianos, se si esclude la mezza eccezione dell’articolo pionieristico di Felice Liperi del 1933[12]. Un convegno del 2006, tenutosi proprio in Sicilia, è stata l’occasione per una riconsiderazione della figura della studiosa e del suo contributo alla storia dell’arte, sia sul piano storico, sia su quello metodologico[13]. Ed è significativo notare, in quest’ottica, come i caratteri e i motivi-guida del suo orientamento teorico emergano nitidamente anche nell’articolo su Saccargia, così come, neanche troppo in filigrana o tra le righe, nelle critiche sopra accennate.
All’interno di queste ultime sono soprattutto due indicazioni a rivelarsi acute: la prima di Maltese, che nota come la datazione proposta dalla studiosa nascesse «in seguito a minuziosi raffronti iconografici»[14], e la seconda di Coroneo, ripresa poi da Serra, che riporta la giustificazione di tale datazione come dovuta a quella che la stessa Accascina definiva «volontà rappresentativa più che narrativa»[15]. Se l’ambito entro cui si situa il dibattito nel suo insieme non poteva che essere quello dei “giochi di società” tradizionali della storia dell’arte, vale a dire la datazione e l’attribuzione delle opere, interessante è il modo in cui Accascina conduce il discorso, riconducibile al magistero di Adolfo Venturi e, più in generale, agli orientamenti metodologici tra filologia, storicismo e connoisseurship sui quali si innesta il passaggio dalle ricerche erudite alla messa a punto della disciplina storico-artistica in Italia nella prima metà del secolo scorso[16]. Nella prospettiva della studiosa, infatti, la ricerca documentaria non si sposa, né esclusivamente né in prima istanza, con l’indagine storico-stilistica, bensì per lo più con l’iconografia. Questa, lungi dall’essere impiegata per la realizzazione di una classificazione meramente descrittiva di tipologie, prestando il fianco alla critica di immobilismo astorico[17], è adottata facendo leva sulla possibilità che certe modalità raffigurative siano proprie di determinati periodi e di determinati ambiti, e sia plausibile, pertanto, indagarne le modificazioni subite nello spazio e nel tempo[18]. Esplicite, in proposito, le seguenti affermazioni:
Ma le date contano, soltanto, per potere indiziare l’apporto creativo dell’artista nella formazione rappresentativa di una immagine e la ricerca della fonte iconografica […] ha valore se riesce a dare elementi di conoscenza sull’ambiente in cui visse e sulla cultura da cui l’artista trasse alimento e se riesce a dare all’opera un posto nello spazio, come, per la ricerca della data, nel tempo[19].
L’iconografia, insomma, è impiegata secondo una prospettiva storica, come era già stato, a ben vedere, negli studi apparsi tra fine Ottocento e primo Novecento, soprattutto in area francese: non è un caso che tra i riferimenti di Accascina compaiano gli autori principali di questa tradizione di studi, a cominciare da Émile Mâle[20]. Accanto a ciò, il riferimento alla volontà rappresentativa farebbe pensare che sia lo stesso statuto dell’immagine a essere coinvolto, e che anch’esso possa essere uno strumento fecondo in chiave di attribuzione e localizzazione.
Alcuni elementi contribuiscono a rendere il quadro più complesso. Inizialmente, seguendo un’impostazione attenta al riconoscimento degli artisti come personalità creatrici – che, se non coincide con il primato assegnato all’attribuzione, ne costituisce, per così dire, lo sfondo metafisico – Accascina vede nell’iconografia dell’intero ciclo di Codrongianos il frutto di una scelta che, da testimonianza di un certo ambiente culturale, diviene scelta personale di gusto dell’artista. Per la studiosa, tale iconografia
desta subito un immediato interesse essendo anche la confessione più esplicita da parte dell’anonimo pittore di quel che egli ha preferito scegliere – sia pure un arcaismo o una “vulgata” – in quel circuito millenario nobilissimo del linguaggio iconografico cristiano che rappresenta nel medioevo il costante obbietto, il “contenuto” cui dare colore e forma. Ed è anche in questa scelta che si può ricercare la zona marginale in cui s’inizia il gusto personale che si forma in un determinato ambiente culturale[21].
Prescindendo dal discorso più generale sulla libertà degli artisti nel Medioevo, è da notare come la studiosa rinvenga tale libertà nella possibilità di selezione delle modalità raffigurative[22]. La scelta dell’iconografia è fatta dipendere, in primo luogo, dalla cerchia culturale: la compresenza delle influenze copte, catalane e bizantine, tutte o quasi rifiutate dalla critica successiva, acquista senso in un discorso in cui è sottolineata la cultura eclettica dell’autore del ciclo, «troppo catalana per essere bizantina e troppo bizantina per essere catalana»[23]; per essa si arriva a ipotizzare «che si tratti proprio della cultura quale poteva esservi nel ducato di Torres»[24]. Accascina, insomma – e ciò è stato notato soltanto da Maltese e da Sandra Sedda[25] – propende per l’attribuzione a un pittore locale, la cui educazione eterogenea si spiega in virtù delle circolazioni mediterranee che vedevano la Sardegna, e nella fattispecie il regno o giudicato (non “ducato”) di Torres, in contatto tanto con l’Occidente, quanto con l’Oriente. Nel far ciò, la studiosa si distanzia dalle interpretazioni precedenti, ma anche successive, visto che l’ascrizione a un pittore sardo è una tesi che ha trovato altri sostenitori soltanto in Garrison, implicitamente in Rotili e, prima di loro, in Liperi, sia pure dubitativamente[26].
Un’argomentazione che si concentra sulla cerchia culturale dell’artista, o addirittura sul suo gusto personale, non può sottrarsi al rischio di introdurre elementi di frizione rispetto all’intento di servirsi dell’iconografia in funzione storica. Parlare di scelta dell’iconografia, infatti, potrebbe far pensare a una concezione in cui il repertorio figurativo sia ritenuto stabile, dato una volta per tutte e, per tal motivo, sostanzialmente avulso dai contesti storici particolari. Certo, l’iconografia cristiana aveva, e ha tuttora, un carattere normativo e, in questo senso, può essere concepita come un sistema[27]: ciò implica che la scelta, se di scelta si può parlare, sia vincolata ed eterodiretta, e non autonoma. Ma ciò implica anche, senza che le due cose si contraddicano, che la stabilità del repertorio sia maggiormente evidente sul piano della sincronia che su quello della diacronia: è in un dato contesto culturale e in un dato momento storico che la situazione può far pensare addirittura a una fissità del repertorio iconografico, senza che poi tale fissità sia davvero effettiva[28]. Infatti, come messo in luce già da Rudolf Berliner, la possibilità di innovazioni non è da escludere[29], il che rende più convincente, anche sul piano sincronico, pensare all’iconografia come a un sistema aperto, ovvero come a una topica, «per sua essenza […] per metà codificata e per metà proiettiva», per dirla con Roland Barthes[30]. Accascina, a ben vedere, non parla di astoricità, ma di «circuito millenario nobilissimo del linguaggio iconografico cristiano», e conduce così il discorso sul piano della lunga durata. In tal modo, però, le costanti sembrano comunque privilegiate, laddove la possibilità di servirsi dell’iconografia per «dare all’opera un posto nello spazio, come […] nel tempo» tende, come del resto la stessa studiosa mostra di fare nel prosieguo del saggio, a dare rilievo alle mutazioni, alle innovazioni e agli abbandoni.
Nelle considerazioni successive l’iconografia è appunto intesa in un senso genuinamente storico. Lo si vede già nell’interpretazione dell’Ultima cena, il primo episodio a essere preso in esame, e primo esempio notevole della minuzia nei raffronti iconografici notata da Maltese. La resa della scena è posta anzitutto a confronto per opposizione con raffigurazioni dello stesso soggetto che presentano o «gli Apostoli intorno alla curva del sigma tra Cristo da una parte e Pietro o Giuda dalla parte opposta», oppure gli «Apostoli a destra e a sinistra di Cristo seduto al centro di una tavola rettangolare», per le quali vengono forniti svariati esempi, di aree ed epoche diverse[31]. Successivamente, appoggiandosi soprattutto all’autorità di Gabriel Millet, raffigurazioni accostabili a quella di Saccargia sono individuate dalla fine del X – inizi dell’XI secolo, come nel caso dell’altare di Aquisgrana, dei sacramentari di Gottinga e di Balbech, di Petropol e dell’affresco di San Bastianello in Pallara, tutti esempi in cui Giuda, raffigurato davanti alla tavola, riceve dalla mano di Cristo il pezzo di pane, secondo il rito eucaristico latino[32]. Sempre per la presenza dello stesso momento iconografico, a questi esempi Accascina aggiunge gli affreschi delle chiese rupestri di Toqale Kilissé e Qeledjlar, in Cappadocia, e la «Croce di Pisa», ovvero la croce dipinta proveniente dalla chiesa di San Sepolcro, citata tramite Pietro Toesca e da questi messa in rapporto con le miniature della Bibbia di Calci[33]: l’affinità degli affreschi rupestri e della croce pisana con Saccargia potrebbe essere, agli occhi della studiosa, una riprova della tesi «di una “unità” di cultura figurativa extra bizantina»[34]. L’insieme dei confronti fa dunque propendere Accascina per una datazione degli affreschi alla prima metà del XII sec., e cioè, così conclude, «all’epoca stessa della costruzione della Chiesa»[35].
Le difficoltà di servirsi dell’iconografia in funzione storica emergono nitidamente in relazione alla Discesa agli inferi. Il motivo (non più visibile) del rotulo nelle mani di Cristo, al posto della croce, farebbe infatti pensare a una datazione alta, non posteriore al X sec.: qui Accascina si avvale degli studi di Wilpert e Morey, accettando dubitativamente le conclusioni a cui questi erano giunti a proposito di una miniatura del codice Petropolitanus XXI della biblioteca di San Pietroburgo, allora Leningrado[36]. Ciò testimonia, per la studiosa, «la relatività delle deduzioni di ordine temporale che si possono desumere dai motivi iconografici sulla base del “mai apparso prima” che nell’attimo stesso in cui viene pronunciato può essere smentita dal ritrovamento di consimile, ma anteriore rappresentazione»[37]. Di qui la necessità metodologica di dare la precedenza ai dati rinvenibili per via documentaria, e perciò il mantenimento della datazione, sia pure con cautela, alla prima metà del secolo XII. In relazione all’iconografia della Discesa agli inferi, la studiosa è costretta addirittura a parlare di una «remora» interpretativa, giustificata dal «sospetto» che in Sardegna «affreschi, nelle grotte o nelle chiese decorate nel periodo di frequenti rapporti con l’Africa, abbiano potuto mantenere iconografie più arcaiche»[38]. Tale arcaismo sarebbe inoltre motivato dalla possibilità di un’influenza, non provabile, delle sacre rappresentazioni, da cui deriverebbe il motivo del «cetaceo con la cresta diabolica» in luogo del Satana in catene o della grotta da cui escono fiamme: delle sacre rappresentazioni, infatti, è notato come esse continuino, ancor oggi, «con una sbalorditiva “fissità” di moduli iconografici nelle isole più appartate e conservatrici»[39].
L’impossibilità di poter giungere a una datazione soltanto su base iconografica fa il paio con la difficoltà di giungere a una localizzazione plausibile sulla medesima base: di qui, come già visto, l’ipotesi di un pittore sardo di cultura eclettica. Altrettanto problematica appare ad Accascina la tesi, che pure, come osservato, le è stata attribuita da Virdis, di una pittura benedettina dotata di caratteri propri[40], come se la studiosa continuasse a difendere l’assunto, inizialmente proposto da Émile Bertaux e poi ripreso e ampliato con disinvoltura da altri studiosi, di un ruolo-guida, esteso in tutta Europa, svolto dall’ordine benedettino nel diffondere modi artistici omogenei[41]. Tale assunto, se già aveva incontrato riserve, doveva comunque conoscere una prima risoluta smentita l’anno successivo alla pubblicazione dell’articolo su Saccargia, con l’intervento di Géza de Francovich alle settimane del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo[42]. Accascina è certo sensibile agli scambi culturali tra i monasteri benedettini sardi e quelli campani, francesi e catalani, ed è ugualmente attenta, come nel caso del Cristo in Mandorla del catino absidale, a segnalare, laddove si presenta il caso, la provenienza benedettina degli esempi portati a confronto[43]. Tuttavia, affrontando direttamente la questione, afferma:
Se benedettini volessimo chiamarli [scil.: gli affreschi di Saccargia], dovremmo riconoscerli come una riprova della vitalità dell’ordine e della sua camaleontica capacità di camuffarsi secondo il gusto e la cultura locale accrescendo il disagio che si ha nel pronunciare questa parola “benedettino” che, a parte di una meccanica imitazione di generali qualità non dà, dal punto di vista stilistico, alcun particolare orientamento[44].
La studiosa si richiama qui, fra gli altri, alle riserve espresse alla fine degli anni Trenta da Enzo Carli, il quale, pur pronunciandosi in favore dell’esistenza di «un particolare atteggiamento culturale» che ha contribuito a «creare un tono comune», affermava anche però che «un vero e proprio stile benedettino non esiste»[45]. Nell’intervento prima menzionato, de Francovich andava decisamente oltre, negando l’esistenza pure di un atteggiamento culturale e di un tono comune e criticando in proposito lo stesso Carli: de Francovich era infatti dell’avviso che il «comune denominatore» benedettino non fosse altro che un «arbitrio», uno «spiccio e discutibile gusto di generalizzare» non dissimile da quello che induceva a parlare di «arte dell’impero romano della tarda antichità» o di una «“arte cristiana”, che tutto spiega e tutto giustifica»[46].
Se non giunge alla liquidazione, come de Francovich, Accascina è però senz’altro meno cauta, nelle sue riserve, di Carli: lo mostra il fatto che parli di «disagio» nel pronunciare la parola “benedettino”. In ogni caso, è interessante notare come la questione non sia qui condotta sul piano storico-culturale generale e neanche, come finora è per lo più stato nel saggio, sul piano iconografico, bensì sul piano stilistico – il che, probabilmente, non avrebbe posto la studiosa al riparo da eventuali critiche condotte sulla scia di de Francovich. Critiche a parte, comunque sia, ciò mostra come lo stile non sia assente dalle argomentazioni di Accascina: esso viene però introdotto solo in seconda istanza, nel quadro di considerazioni già conclusive, che intendono fare i conti sia con interpretazioni avanzabili su un piano più generale, come in questo caso, sia con ipotesi proposte effettivamente. Accanto al «disagio» del discorso di una pittura benedettina, a essere coinvolta in queste considerazioni stilistiche è l’ipotesi, avanzata da Toesca, ripresa da Carli e rivalutata, sia pure problematicamente, dalla critica successiva a partire da Maltese, di un’ascrizione degli affreschi a un ambito di scuola romana[47]. L’insieme degli argomenti centrali di Toesca – la presenza del linearismo e della bicromia dei manti – secondo la studiosa «non è sufficiente per la loro inclusione in questa scuola di cui i confini sempre allargandosi in Italia e fuori d’Italia causano appunto per la loro larghezza notevole imbarazzo»[48]. Disagio dunque in un caso, imbarazzo nell’altro caso.
Resta da dire, ancora, sulla «volontà rappresentativa più che narrativa», che Coroneo e Serra leggono come argomentazione portata da Accascina in favore della datazione degli affreschi. Occorre osservare, in primo luogo, che tale volontà è individuata nell’Ultima cena: benché essa sembri comunque agire tacitamente anche nelle altre scene, è qui che si assiste a una misurazione di «distanze, gesti, accostamenti, posizioni perché tutti siano carichi di significati illustrativi»[49]. La volontà rappresentativa, in ogni caso, più che come conferma diretta della datazione proposta, è vista come indice della personalità dell’artista e, implicitamente, come carattere dell’ambiente culturale in cui questi si è formato.
Pur nella brevità delle sue considerazioni, la studiosa pare qui accostarsi alle osservazioni svolte da Erwin Panofsky a proposito dell’imago pietatis. Panofsky si rifaceva alla dottrina medievale dell’immagine, la quale aveva distinto due grandi categorie della figurazione: l’imago, ovvero l’immagine rappresentativa, coincidente in buona sostanza con il ritratto della persona sacra, e l’historia, cioè la narrazione per immagini di un evento[50]. Se “imago” fu il termine privilegiato dai teologi latini per caratterizzare globalmente l’immagine, furono gli stessi teologi a introdurre, all’interno di quest’insieme, la distinzione tra imago in senso stretto e historia[51]. All’interno di questo orizzonte concettuale, Panofsky prendeva in considerazione sia la possibilità di una «messa in sospensione» della dinamicità dell’azione in un dipinto narrativo, per portare la calma e l’atemporalità, se non la ieraticità, proprie dell’imago, sia la «messa in movimento» di un dipinto rappresentativo, di per sé caratterizzato da «un esserci senza tempo e spiritualmente impenetrabile»[52]. Il grande studioso tedesco rivolgeva però le sue attenzioni esclusivamente all’immagine devozionale, nella quale la «messa in sospensione» e la «messa in movimento» rispondevano all’esigenza di «dare alla coscienza individuale del riguardante la possibilità di un’immersione contemplativa nel contenuto osservato», facendo così in modo che il soggetto si unisse spiritualmente con l’oggetto[53]. Accascina, invece, pare prendere in esame la possibilità che una «messa in sospensione» dell’azione si desse anche all’interno di scene narrative, come è appunto nel caso delle historiae dipinte a Saccargia: ecco che allora queste, come visto poc’anzi, pur non rinunciando al carattere narrativo, subiscono, se non una vera e propria sospensione, quantomeno un rallentamento dell’azione e del dinamismo.
Spunti di lettura simili, non più recepiti dalla critica successiva, meriterebbero approfondimenti[54]. Lo stesso cenno alla misurazione di «distanze, gesti, accostamenti, posizioni» potrebbe aprire la strada a un’interpretazione attenta alla composizione dell’immagine: un’interpretazione, cioè, in chiave iconica à la Max Imdahl, sulla falsariga di quanto lo stesso Imdahl ha tentato, per esempio, nella sua lettura della Cappella degli Scrovegni[55]. Lo studio della dimensione temporale, d’altro canto, permetterebbe di comprendere in che modo e fino a che punto la scena rappresentata subisca una cristallizzazione per “bloccarsi” a un dato momento dell’episodio illustrato: potrebbero rivelarsi utili in proposito, oltre agli stessi lavori di Imdahl, le indagini sulla Zeitgestalt dell’immagine portati avanti in altri contesti da Kurt Badt e Lorenz Dittmann[56].
Nel saggio di Accascina tutto si esaurisce in poche righe. Anzi, nelle pagine conclusive il discorso prende altre strade, giacché l’atemporalità e la messa in sospensione della dinamicità dell’azione non sono più letti come testimonianza di una volontà rappresentativa, ma visti come attinenti alla resa stilistico-formale dell’immagine[57]. In quest’ottica viene accolta in toto la tesi, avanzata da Giovanni Lilliu a partire dagli anni Quaranta, di un carattere anticlassico che la cultura figurativa sarda avrebbe manifestato fin dalle sue origini protostoriche e che ne costituirebbe il tratto più proprio e autentico[58]. Di qui, negli affreschi di Saccargia, l’assenza di vitalità espressiva, l’inaridirsi del ritmo, il placarsi dell’azione, la presenza dell’«immutabile linguaggio aprospettico aplastico»:
Un gusto costante si rivela in Sardegna: ridurre la forma in superficie fino al limite concesso per mantenere l’evidenza sensibile, staticità fatale ed ineluttabile, simmetria imposta come da una legge suprema ed immutabile di ordine e di eguaglianza a tutti gli elementi della natura organica, astrazione della realtà. Già nel protosardo questi caratteri erano immanenti: essenzialità, simmetria, geometria, linearismo, schematismo, fissità, astrazione simbolica. Furono essi a respingere il classico e a fare della Sardegna un’isola anticlassica, sono essi nel medioevo a respingere nelle pitture ogni corrente romanica e ogni eventuale neoellenismo bizantino e a raffrenare ogni vivacità benedettina. Sono essi che si affermano negli affreschi di S. Trinita che consideriamo appunto come un documento di “un’isola pittorica” da enucleare nella pittura medioevale come si è fatto per la Campania, il Lazio, gli Abruzzi[59].
Di là dai rischi deterministici – in effetti più evidenti in Rotili, che sintetizza i termini di queste righe parlando degli affreschi di Saccargia come dell’espressione compiuta dell’«anima dolente ma forte della gente sarda»[60] – l’adozione della concezione della Sardegna anticlassica non è comunque del tutto pacifica neanche a voler rimanere sul terreno delle argomentazioni sviluppate da Accascina. Se portata alle estreme conseguenze, infatti, tale concezione corre il pericolo di contraddire la tesi di un coinvolgimento dell’isola nei traffici culturali mediterranei, minando così alla base l’argomento in favore della formazione eclettica del presunto pittore locale autore degli affreschi. Invero, il discorso sulle aperture a tutto campo della cultura figurativa sarda riguarda l’iconografia, mentre a testimoniare una situazione di chiusura e di anticlassicità è lo stile. In tal modo Accascina ammette implicitamente che la comunicazione culturale può prendere direzioni molteplici e che lo scambio può, volta per volta e caso per caso, incontrare resistenze più o meno forti o, al contrario, maggiori o minori disponibilità alla ricezione e all’integrazione dei contenuti, delle strutture e delle forme.
Anche al di là del contesto – Saccargia – e dei termini precisi in cui il discorso è condotto – apertura nell’iconografia, chiusura nello stile – resta comunque consegnata alla riflessione successiva l’idea problematica di una cultura figurativa sarda oscillante tra l’accoglimento attivo di svariate influenze, e la partecipazione, così, a una sorta di mediterranea «“unità” di cultura figurativa», e il loro rifiuto in nome dell’ineluttabile carattere anticlassico. Una problematicità alla quale soltanto l’opera di «rimeditazione», cui la tesi della Sardegna anticlassica è stata sottoposta in anni più recenti, ha potuto fornire nuove risposte[61].
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1 Cfr. R. Serra, La pittura medievale in Sardegna, in L’Altomedioevo, a cura di C. Bertelli, coll. “La pittura in Italia”, Electa, Milano 1994, pp. 321-326: 321-323; R. Serra, Pittura medievale in Sardegna tra Saccargia e Galtellì, in Scritti e immagini in onore di Corrado Maltese, a cura di S. Marconi, Quasar, Roma 1997, pp. 413-422: 413; Enciclopedia dell’arte medievale. Sardegna, vol. X, ad vocem a cura di R. Serra, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1999, pp. 373-381: 378-379; F. Poli, La chiesa del castello di Bosa. Gli affreschi di Nostra Signora de sos Regnos Altos, Edes, Sassari 1999, pp. 78-79; R. Coroneo, Prefazione a G. Goddard King, Pittura sarda del Quattro-Cinquecento, Ilisso, Nuoro 2000, pp. 7-25: 14-15; R. Serra, Gli affreschi romanici della chiesa di San Nicola di Trullas a Semestene, in Medioevo: i modelli, Atti del Convegno internazionale di studi, Parma 1999, a cura di A. C. Quintavalle, Electa, Milano 2002, pp. 581-591: 581; R. Serra, Sardegna romanica. Introduzione, in R. Coroneo, R. Serra, Sardegna preromanica e romanica, coll. “Patrimonio artistico italiano”, Jaca Book, Milano e Wide, Cagliari 2004, pp. 17-28: 27-28; A. Pala, Arredo liturgico medievale. La documentazione scritta e materiale in Sardegna fra IV e XIV secolo, AV, Cagliari 2011, p. 62. La tesi continua a essere sostenuta, limitata però alla scelta delle scene raffigurate e in genere agli aspetti iconografici, da S. Sedda, Per una rilettura degli affreschi della SS. Trinità di Saccargia: analisi delle fonti e nuovi confronti iconografici, in “Biblioteca francescana sarda”, a. X, 2002, pp. 189-211: 204.
2 Sulla storia degli studi la rassegna più aggiornata è quella di N. Usai, Gli affreschi romanici della Santissima Trinità di Saccargia (Codrongianos). Stato degli studi, in “Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Cagliari”, a. LXIV (n. s. XXVII), 2009, pp. 5-28. Cfr. anche, più in sintesi, N. Usai, Santissima Trinità a Saccargia a Codrongianos, Iskra, Ghilarza 2013, pp. 31-34.
3 Riferimenti: M. Accascina, Gli affreschi di S. Trinita di Saccargia, in “Bollettino d’arte”, a. XXXVIII, serie IV, n. 1, 1953, pp. 21-30; E. B. Garrison, Comment on the Frescoes in S. Trinità di Saccargia (1954), in Studies in the History of Italian Medieval Painting, L’Impronta, Florence 1953-62, rist. Pindar, London 1993, vol. I, pp. 193-196; e H. Hager, Die Anfänge des italienischen Altarbildes, Schroll, München 1962, p. 14.
4 Si deve ad Alberto Virdis, nella sua monografia sugli affreschi di Galtellì, l’aver rimesso in circolazione il lavoro di Garrison, come egli stesso nota «inspiegabilmente […] ignorato dalla critica successiva, anche quando verranno ripresi alcuni riferimenti da lui operati» (A. Virdis, Gli affreschi di Galtellì. Iconografia, stile e committenza di un ciclo pittorico romanico in Sardegna, Condaghes, Cagliari 2011, p. 16).
5 Riferimenti: C. Maltese, Arte in Sardegna dal V al XVIII, De Luca, Roma 1962, p. 217; M. Rotili, Origini della pittura italiana, Istituto italiano d’arti grafiche, Bergamo 1963, p. 62; C. Maltese, R. Serra, Episodi di una civiltà anticlassica, in AA. VV., Arte in Sardegna, Electa, Milano 1969, rist. 1986, pp. 133-364: 173 e 169, figg. 170-171; e A. L. Sechi, Ritrovare Saccargia. Documento grafico-storico della basilica romanica “La SS. Trinità” 1953-57/1992, Dattena, Cagliari 1992, pp. 78-90.
6 R. Caprara, La necropoli di S. Andrea Priu, coll. “Sardegna archeologica. Guide e itinerari”, Delfino, Sassari 1986, p. 10. Lo stesso Caprara (ibid.) cita, come esempio in tal senso, il riferimento della studiosa alle «famigerate Carte d’Arborea» (mutuato da Spano: cfr. M. Accascina, Gli affreschi…, p. 30, n. 44; e G. Spano, Storia dei pittori sardi e catalogo descrittivo della privata pinacoteca, Alagna, Cagliari 1870, p. 11, rist. anast. in Miscellanea di scritti sulla Sardegna, Forni, Sala Bolognese 1974).
7 Cfr. E. B. Garrison, Comment on the Frescoes…, pp. 193 e 195-196.
8 Cfr. A. L. Sechi, Ritrovare Saccargia…, pp. 86-88, 85-86 e 89; C. Maltese, Arte in Sardegna…, p. 217; M. Boskovits, The Origins of Florentine Painting, 1100-1270, trad. it., Giunti, Florence 1993, pp. 17-18; e A. Tartuferi, Pisa, Sardegna, in Pittura murale in Italia. Dal tardo Duecento ai primi del Quattrocento, a cura di M. Gregori, Istituto Bancario San Paolo e Bolis, Torino 1995, pp. 74-81: 81.
9 R. Coroneo, SS. Trinità di Saccargia, scheda, in R. Serra, La Sardegna, coll. “Italia Romanica”, Jaca Book, Milano 1989 pp. 271-299: 299; negli stessi termini, R. Serra, Sardegna romanica. Secoli XI-XIII, in R. Coroneo, R. Serra, Sardegna preromanica…, pp. 75-314: 191. Cfr. anche C. Maltese, R. Serra, Episodi di una civiltà…, p. 173; R. Serra, Pittura medievale…, p. 417; e, nel medesimo ordine di idee, A. Virdis, Gli affreschi…, p. 56 nota 8. In senso contrario, dopo Rotili, come detto del tutto dipendente da Accascina, sono state Marisa Porcu Gaias (anche sulla scorta di Accascina) e Fernanda Poli a riprendere a parlare più di recente della presenza di elementi catalani o franco-catalani. Cfr. M. Rotili, Origini della pittura…, p. 62; M. Porcu Gaias, La Basilica di Saccargia: il monumento e la sua storia, parte I, in “Sacer. Bollettino della Associazione Storica Sassarese”, n. 10, 2003, pp. 49-61: 55; F. Poli, Saccargia. L’abbazia della SS. Trinità, Delfino, Sassari 2008, pp. 58-59; e F. Poli, Saccargia. Il complesso monastico camaldolese della SS. Trinità, Dhuoda, Sassari 2013, s.p. (ebook).
10 A. Virdis, Gli affreschi…, p. 16. Per la dicitura «ducato di Torres», cfr. M. Accascina, Gli affreschi…, p. 26. La segue anche in questo M. Rotili, Origini della pittura…, p. 62.
11 Per un profilo biografico e intellettuale della studiosa, cfr. M. C. Di Natale, Maria Accascina storica dell’arte: il metodo, i risultati, in Storia, critica e tutela dell’arte nel Novecento. Un’esperienza siciliana a confronto con il dibattito nazionale, Atti del Convegno Internazionale di Studi in onore di Maria Accascina, Palermo ed Erice 2006, a cura di M. C. Di Natale, Sciascia, Caltanissetta 2007, pp. 27-50.
12 Cfr. F. Liperi, La chiesa della SS. Trinità di Saccargia e il suo affresco absidale, in “Regio Liceo Scientifico ‘Giovanni Spano’ Sassari – Annuario”, a. I, 1933, pp. 71-78. Dipendente da Dionigi Scano in materia di stile e di datazione, Liperi cade vittima di più di un fraintendimento nell’analisi iconografica: in particolare, egli non riconosce le scene del registro inferiore, a parte la Crocifissione, rinvenendo «la natività della Vergine, la presentazione al tempio della Vergine […], il sonno o dormizione della Vergine e la discesa dello Spirito Santo o Pentecoste» (p. 75), invece dell’Ultima cena, della Cattura di Cristo, della Deposizione nel sepolcro e della Discesa agli inferi. Per la dipendenza di Liperi da Scano, cfr. D. Scano, Storia dell’arte in Sardegna dal XI al XIV secolo, Montorsi, Cagliari - Sassari 1907, pp. 167-169, rist. anast. Forni, Sala Bolognese 1979 e 3T, Cagliari 1980.
13 Cfr. il già citato Storia, critica e tutela dell’arte nel Novecento, a cura di M. C. Di Natale. Cfr. anche M. C. Di Natale, I primi studi di oreficeria di Maria Accascina: la lezione di Adolfo Venturi, in Adolfo Venturi e la Storia dell’Arte oggi, Atti del Convegno, Roma 2006, a cura di M. D’Onofrio, Franco Cosimo Panini, Modena 2008, pp. 329-342.
14 C. Maltese, Arte in Sardegna…, p. 217.
15 R. Coroneo, SS. Trinità di Saccargia, p. 299 (che cita M. Accascina, Gli affreschi…, p. 22); negli stessi termini, R. Serra, Sardegna romanica…, p. 191. L’osservazione è ripresa da Rotili, che la parafrasa leggermente («volontà di presentazione e non di narrazione»: M. Rotili, Origini della pittura…, p. 62).
16 Tra la vasta bibliografia in materia, cfr. C. L. Ragghianti, Profilo della critica d’arte in Italia, Vallecchi, Firenze 1973 (1948¹), pp. 31ss.; F. Bologna, I metodi di studio dell’arte italiana e il problema metodologico oggi, in Storia dell’arte italiana, Parte I, Materiali e problemi, vol. I, Questioni e metodi, Einaudi, Torino 1979, pp. 163-282: sopr. 240-252; G. C. Sciolla, La critica d’arte del Novecento, Utet, Torino 1995, pp. 50-56; S. Valeri, I volumi della Storia dell’Arte Italiana, in Adolfo Venturi…, a cura di M. D’Onofrio, pp. 37-42; S. La Barbera, Dalla connoisseurship alla nascita della Storia dell’arte in Sicilia: il ruolo di Adolfo Venturi, in Adolfo Venturi…, a cura di M. D’Onofrio, pp. 309-328; G. Wolf, La Storia dell’arte italiana fra passato e futuro, in Adolfo Venturi…, a cura di M. D’Onofrio, pp. 383-386; e L. Iamurri, Art History in Italy: Connoisseurship, Academic Scholarship and the Protection of Cultural Heritage, in AA. VV., Art History and Visual Studies in Europe. Transnational Discourses and National Frameworks, Brill, Leiden - Boston 2012, pp. 395-406.
17 Per questa critica, cfr. in primo luogo L. Venturi, Storia della critica d’arte, Einaudi, Torino 2000 (1948²), pp. 232-233.
18 In un saggio propedeutico, Willibald Sauerländer presenta la datazione come basata anzitutto sull’intreccio di critica delle fonti e critica stilistica, con la prima in una posizione di preminenza metodologica (W. Sauerländer, Alterssicherung, Ortssicherung und Individualsicherung, in AA. VV., Kunstgeschichte. Eine Einführung, Reimer, Berlin 1986, 20036, pp. 125-152: 129 e passim). Anche l’iconografia viene presa in considerazione dal punto di vista di una critica delle fonti, in relazione alla localizzazione e, nella fattispecie, al culto fortemente circoscritto geograficamente di alcuni santi (per es., al fatto che «una rappresentazione di San Corbiniano proviene probabilmente dalla diocesi di Frisinga o perlomeno dall’arcivescovado di Salisburgo»): non viene fatto pertanto riferimento alle modalità di raffigurazione dei santi stessi, o più in generale delle figure, e alla possibilità di indagare la variazione di tali modalità raffigurative per un’indagine sia geografica che cronologica (cfr. ibid., pp. 138 e 151 nota 16). Pensiamo, tra le altre, alle circostanze in cui possono trovarsi, persino in una stessa chiesa, raffigurazioni del medesimo santo che fanno capo a diverse tradizioni iconografiche, esempio che chiama in causa, quantomeno nella maggior parte dei casi, il legame delle iconografie con i loro contesti di esecuzione.
19 M. Accascina, Gli affreschi…, p. 24.
20 Oltre ai classici studi di Mâle, tra i numerosi riferimenti non mancano infatti Millet, Bertaux, Diehl e Fabre (acccanto a Wilpert, Morey, Sandberg-Vavalà, van Marle, Adolfo Venturi, Toesca e diversi altri).
21 M. Accascina, Gli affreschi…, p. 22.
22 Il discorso sulla libertà dell’arte medievale aveva conosciuto un momento saliente con la pubblicazione, nel 1945, del saggio di Rudolf Berliner The Freedom of Medieval Art. In questo saggio, ormai classico, l’autore metteva in discussione la tesi che il testo scritto fosse il solo mezzo con cui si veicolavano innovazioni dottrinali e lato sensu ideologiche: al contrario, erano possibili per lui innovazioni anche sul piano iconografico, che non passavano attraverso i testi scritti. Di qui una libertà non solo dell’artista – la pictorum licentia di cui parlano Isidoro di Siviglia e l’autore del testo del XII sec. Pictor in Carmine – ma anche dell’arte. Cfr. R. Berliner, The Freedom of Medieval Art (1945), in “The Freedom of Medieval Art” und andere Studien zum christlichen Bild, Lukas, Berlin 2003, pp. 60-75; M. Rhodes James, Pictor in Carmine (1932), in “Archaeologia”, a. XCIV (II serie), 1951, pp. 141-166; Dictionary of the History of Ideas. Studies on Selected Pivotal Ideas. Iconography, vol. II, ad vocem a cura di J. Białostocki, Charles Scribner’s Sons, New York 1973, pp. 524-541: 540; M. V. Schwarz, Visuelle Medien im christlichen Kult. Fallstudien aus dem 13. Bis 16. Jahrhundert, Böhlau, Wien - Köln - Weimar 2002, pp. 38-39; e R. Suckale, Rudolf Berliner und sein Beitrag zum Verständnis des christlichen Bildes, saggio introduttivo a R. Berliner, “The Freedom of Medieval Art”…, pp. 9-21: sopr. 16-21.
23 M. Accascina, Gli affreschi…, p. 26. Cfr., dopo e oltre Rotili (M. Rotili, Origini della pittura…, p. 62), la lettura affine proposta più di recente da Poli, che parla della bottega operante a Saccargia come di un «melting pot di culture diverse, in realtà piuttosto comune nell’età di mezzo», nel quale sono riscontrabili apporti romani, pisani, franco-catalani, in una generica cornice di influsso bizantino (F. Poli, Saccargia. L’abbazia…, pp. 58-59; F. Poli, Saccargia. Il complesso…, s.p.).
24 M. Accascina, Gli affreschi…, p. 26. Cfr. anche ibid., p. 25.
25 Cfr. C. Maltese, Arte in Sardegna…, p. 217; e S. Sedda, Per una rilettura…, p. 203.
26 Cfr. E. B. Garrison, Comment on the Frescoes…, p. 196, per il quale «sembra pressoché certo» che il frescante fosse sardo; M. Rotili, Origini della pittura…, p. 62; e F. Liperi, La chiesa della SS. Trinità…, pp. 77-78.
27 Cfr. Dictionary of the History of Ideas…, Iconography, vol. II, ad vocem a cura di J. Białostocki, p. 524, che distingue tra una «intended iconography» come sistema generale dell’iconografia di un dato periodo o di un dato contesto, e una «interpretative iconography» come branca della storia dell’arte rivolta all’identificazione e alla descrizione dei soggetti rappresentati.
28 Cfr. in via introduttiva Enciclopedia dell’arte medievale…, Iconografia e iconologia, vol. VII, 1996, ad vocem a cura di C. Frugoni, pp. 282-286: 282-283. Si può menzionare il caso-limite dell’età paleologa portato da Hans Belting, età in cui, nonostante l’indubbia cristallizzazione formale a cui si andò incontro, «è difficile sapere in quale misura le forme correnti di quell’arte erano fisse o, a livello semantico, ancora aperte» (H. Belting, Storia dell’arte, in La civiltà bizantina dal XII al XV secolo: aspetti e problemi, a cura di A. Guillou, L’Erma di Bretschneider, Roma 1982, pp. 273-375: 303).
29 Cfr. R. Berliner, The Freedom…, passim., e la letteratura citata supra, nota 22. In quest’ottica, pertanto, la libertà dell’artista non contraddice una considerazione normativa dell’iconografia, come pensa Jean Wirth, perché tale libertà è prevista essa stessa dal sistema. Cfr. J. Wirth, L’image médiévale. Naissance et développements (VIe-XVe siècle), Méridiens Klincksieck, Paris 1989, pp. 18-19.
30 R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, trad. it., Einaudi, Torino 1979, p. 6. In questo caso, riprendendo la distinzione proposta in ambito giuridico da Theodor Viehweg e da Josef Kopperschmidt, si tratterebbe non di una «topica formale» – che coincide con la tradizione aristotelica e ciceroniana dell’ars inveniendi – ma, in quanto archivio e repertorio, di una «topica materiale». Di una topica in un contesto simile, a proposito del tardoantico e del bizantino, parla Belting, riferendosi alle convenzioni dell’immagine, cioè alla possibilità di rendere secondo modalità di presentazione differenti, che variano in base al ruolo e all’essenza (angeli, santi che hanno avuto un’esistenza terrena, ecc.), i personaggi raffigurati. Cfr. T. Viehweg, Notizien zu einer rhetorischen Argumentationstheorie der Rechtsdisziplin, in Rechtsphilosophie und rhetorische Rechtstheorie. Gesammelte kleine Schriften, Nomos, Baden-Baden 1995, pp. 191-199: 196; J. Kopperschmidt, Formale Topik. Anmerkungen zu ihrer heuristischen Funktionalisierung innerhalb einer Argumentationsanalytik, in Rhetorik zwischen den Wissenschaften. Geschichte, System, Praxis als Probleme des “Historischen Wörterbuch der Rhetorik”, a cura di G. Ueding, Niemeyer, Tübingen 1991, pp. 53-62: 53-55; e H. Belting, Il culto delle immagini. Storia dell’icona dall’età imperiale al tardo Medioevo, trad. it., Carocci, Roma 2001, pp. 162-170.
31 M. Accascina, Gli affreschi…, p. 22.
32 Cfr. ibid.; e G. Millet, Recherches sur l’iconographie de l’Évangile aux XIVe, Xve et XVIe siècles d’après les monuments de Mistra, de la Macédoine et du Mont-Athos, de Boccard, Paris 196010 (1916¹), pp. 286-309.
33 Sulla croce, già n. 15 e ora n. 1578 del Museo Nazionale di San Matteo, cfr. tra gli altri E. Sandberg-Vavalà, La croce dipinta italiana e l’iconografia della Passione, Apollo, Verona 1929, pp. 593-597; E. B. Garrison, Italian Romanesque Panel Painting. An Illustrated Index, Olshki, Florence 1949, p. 201 n. 520; M. Boskovits, The Origins…, pp. 35-39; M. Burresi, A. Caleca, Le croci dipinte, Regione Toscana - Comune di Pisa, Pisa 1993, pp. 13-19; e A. Caleca, La pittura medievale in Toscana, in L’Altomedioevo, a cura di C. Bertelli, pp. 163-179: 171-172 e 173, fig. 219. Contro quanto continua a essere sostenuto dalla critica, il primo accostamento di questa croce agli affreschi di Saccargia non si deve né a Maltese (così per es. Enciclopedia dell’arte medievale. Sardegna, vol. X, ad vocem a cura di R. Serra, p. 378), né a Garrison (così A. Virdis, Gli affreschi…, pp. 16 e 105; N. Usai, Gli affreschi…, p. 17; e N. Usai, Santissima Trinità…, p. 32); bensì, come stiamo vedendo, proprio ad Accascina, sebbene rimanga limitato a un cenno brevissimo relativo all’iconografia e la studiosa resti ben lontana dall’impostazione di un confronto sistematico o dal vedervi, come poi Maltese, perfino la stessa mano. Già a Toesca si deve invece il confronto tra questa croce e le miniature della Bibbia di Calci, confronto esteso in seguito a Saccargia da Garrison. Cfr. P. Toesca, Storia dell’arte italiana, vol. I, Il Medioevo, Utet, Torino 1927, p. 934; e E. B. Garrison, Comment on the Frescoes…, pp. 194-195.
34 Cfr. M. Accascina, Gli affreschi…, p. 22; e, per la frase cit., p. 30, n. 44. I testi a cui la studiosa si riferisce sono, per la croce pisana, P. Toesca, Storia dell’arte italiana…, vol. I, pp. 934 e 933, fig. 629; e, per gli affreschi della Cappadocia, G. de Jerphanion, Une nouvelle province de l’art byzantin. Les églises rupestres de Cappadoce, 5 voll., Geuthner, Paris 1925-1942, vol. I, partie 1 (texte), 1925, p. 220 (Qeledjlar); vol. I (planches), 1925, tavv. 49 (Qeledjlar – non 44 come indicato dalla studiosa) e 65 (Toqale Kilissé); vol. II (planches), 1928, tav. 101 (Qaranleq Kilissé).
35 M. Accascina, Gli affreschi…, p. 22. Come accennato, alla stessa conclusione arriva Boskovits, che ricorda come Accascina basi la sua opinione soprattutto su considerazioni di carattere iconografico. Quest’ultimo fonda invece le proprie conclusioni su base storico-congetturale, ritenendo verosimile, data la «sontuosità dell’edificio», che esso fosse già affrescato alla data della sua consacrazione (1116). Cfr. M. Boskovits, The Origins…, p. 17 nota 12; in senso contrario, la risposta di W. Angelelli, recensione di M. Boskovits, The Origins of Florentine Painting, in “Storia dell’arte”, n. 87, 1996, pp. 286-290: 287 e 289, nota 10.
36 M. Accascina, Gli affreschi…, pp. 23 e 29, nota 23; con riferimento a J. Wilpert, Die Römischen Mosaiken und Malereien des kirchlichen Bauten vom IV bis XIII Jahrhundert, Herder, Freiburg 1917, vol. II, pp. 887-896; e a C. R. Morey, Notes on East Christian Miniatures, in “The Art Bulletin”, a. XI, n. 1, 1929, pp. 5-103: 57-58 e fig. 63 (non 69 come indicato dalla studiosa).
37 M. Accascina, Gli affreschi…, p. 23. Questo passaggio non sembra essere stato notato da Sechi, nel momento in cui, riportando le argomentazioni di Accascina sul rotulo di Cristo, con un’osservazione che ha il sapore di un’obiezione, ritiene «alquanto azzardato» basarsi sulla sola iconografia per fissare la datazione di un’opera, «senza il soccorso di altre conferme» (A. L. Sechi, Ritrovare Saccargia…, p. 83).
38 M. Accascina, Gli affreschi…, p. 24. Cfr. ibid., p. 25.
39 Ibid., p. 23.
40 Cfr. supra, nota 10. Tale critica appare più calzante se rivolta a Hager, dal momento che definisce quello di Saccargia «affresco absidale benedettino» (H. Hager, Die Anfänge…, p. 14).
41 Cfr. É. Bertaux, L’art dans l’Italie méridionale, 3 voll., Fontemoing, Paris 1904, vol. I, pp. 155-308, rist. anast. de Boccard - École Française de Rome, Rome 1968.
42 Cfr. G. de Francovich, Problemi della scultura e della pittura preromanica, in AA. VV., I problemi comuni dell’Europa post-carolingia, Atti delle Settimane di Studio del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 1954, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 1955, vol. II, pp. 355-519: sopr. 498-503. In proposito, cfr. F. Gandolfo, Gli allievi medievisti, in Adolfo Venturi…, a cura di M. D’Onofrio, pp. 93-99: 97.
43 Cfr. M. Accascina, Gli affreschi…, pp. 21-22 e 24-25.
44 Ibid., p. 27.
45 E. Carli, Affreschi benedettini del XIII secolo in Abruzzo, in “Le arti”, a. I, f. 5, 1938-1939, pp. 442-463: 443. Cfr. M. Accascina, Gli affreschi…, p. 30 nota 45.
46 G. de Francovich, Problemi della scultura…, p. 499. Cfr. ibid., pp. 499-500 per la critica a Carli (con riferimento proprio a E. Carli, Affreschi benedettini…).
47 Cfr. P. Toesca, Storia dell’arte italiana…, vol. I, pp. 991-992; P. Toesca, Miniature romane dei secoli XI e XII. Bibbie miniate, in “Rivista del Regio Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte”, a. I, n. 1, 1929, pp. 69-96: 72; E. Carli, Affreschi benedettini…, p. 462 (nel quadro di un rapidissimo confronto con gli affreschi di Bominaco); e C. Maltese, Arte in Sardegna…, p. 217 (in senso contrario, invece, C. Maltese, R. Serra, Episodi di una civiltà…, p. 173). Su questo aspetto della lettura di Maltese, cfr. R. Coroneo, SS. Trinità di Saccargia, p. 299; e R. Serra, Sardegna romanica…, p. 191.
48 M. Accascina, Gli affreschi…, p. 27.
49 Ibid., p. 22.
50 Cfr. E. Panofsky, “Imago pietatis”. Un contributo alla storia tipologica dell’uomo dei dolori e della Maria Medicatrix, in “Imago pietatis” e altri scritti del periodo amburghese (1921-1933), trad. it., Il Segnalibro, Torino 1998, pp. 59-107: sopr. 63-66. Per il dibattito critico, cfr. S. Ringbom, Icon to Narrative. The Rise of the Dramatic Close-up in Fifteenth-Century Devotional Painting, Davaco, Doornspijk 1984² (1965¹), pp. 54 e 57-58; R. Suckale, Arma Christi. Überlegungen zur Zeichenhaftigkeit mittelalterlicher Andachtsbilder (1977), in Stil und Funktion. Ausgewählte Schriften zur Kunst des Mittelalters, Deutscher Kunstverlag, München - Berlin 2003, pp. 15-58: 44; H. Belting, L’arte e il suo pubblico. Funzione e forme delle antiche immagini della Passione, trad. it., Nuova Alfa, Bologna 1986, pp. 47-48; e Enciclopedia dell’arte medievale…, Figurazioni devozionali, vol. VI, 1995, ad vocem a cura di P. Skubiszewski, pp. 177-195: 179-180.
51 Sulla distinzione di imago e historia nella teologia medievale, oltre a Panofsky, si vedano fra gli altri H. Belting, L’arte e il suo pubblico…, pp. 47-61; J. Wirth, L’image à l’époque romane, Cerf, Paris 1999, pp. 28-29; e J. Wirth, Il culto delle immagini, trad. it., in Arti e storia nel Medioevo, a cura di E. Castelnuovo e G. Sergi, vol. III, Del vedere: pubblici, forme e funzioni, Einaudi, Torino 2004, pp. 3-47: 3.
52 E. Panofsky, “Imago pietatis”, pp. 65 e 64.
53 Ibid., pp. 63-64.
54 Il discorso, in effetti, riguarda una lettura degli affreschi a 360 gradi. Non si può non concordare in proposito con Virdis quando osserva: «Bisogna […] sottolineare come, nonostante gli affreschi di Saccargia siano sempre stati conosciuti e siano stati studiati sin dalla fine del XIX secolo, non siano mai stati oggetto di un esauriente studio monografico che ne mettesse in luce gli aspetti iconografici, formali e tecnici, inserendoli all’interno delle correnti della pittura italiana ed europea, in modo da fugare ogni perplessità derivante da studi poco approfonditi o incompleti» (A. Virdis, Gli affreschi…, p. 17).
55 Cfr. M. Imdahl, Der hermeneutische Ansatz: Bildanschauung als Sinnvermittlung, in Funkkolleg Kunst, a cura di W. Busch, Studienbegleitbrief n. 12, Deutsches Institut für Fernstudien an der Universität Tübingen e Beltz, Weinheim - Basel 1985, pp. 138-148; M. Imdahl, Giotto. Zur Frage der ikonischen Sinnstruktur, in Gesammelte Schriften, vol. 3, Reflexion - Theorie - Methode, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1996, pp. 424-463; M. Imdahl, Arenafresken. Ikonographie, Ikonologie, Ikonik, Fink, München 1980; M. Imdahl, «Autobiographie», in Gesammelte Schriften, vol. 3, pp. 617-643; M. Imdahl, Iconica. L’intuizione delle immagini, trad. it. in “Aisthesis. Pratiche, linguaggi e saperi dell’estetico”, a. V, n. 2, 2012, pp. 11-32, doi: 10.13128/Aisthesis-11474, http://www.fupress.net/index.php/aisthesis/article/view/11474/10973, ottobre 2014. In merito, cfr. P. Conte, Un po’ più a sinistra, un po’ più a destra. Spazio e immagine nell’iconica di Max Imdahl, in “Aisthesis. Pratiche, linguaggi e saperi dell’estetico”, a. V, n. 2, 2012, pp. 33-42, doi: 10.13128/Aisthesis-11458, http://www.fupress.net/index.php/aisthesis/article/view/11458/10962, ottobre 2014.
56 Cfr. K. Badt, Modell und Maler von Jan Vermeer: Probleme der Interpretation. Eine Streitschrift gegen Hans Sedlmayr, DuMont, Köln 1997² (1961¹); e L. Dittmann, Überlegungen und Beobachtungen zur Zeitgestalt des Gemäldes, in “Neue Hefte für Philosophie”, n. 18-19, 1980, pp. 133-150.
57 Cfr. M. Accascina, Gli affreschi…, pp. 27-28.
58 La tesi venne elaborata da Lilliu in dialogo con alcune posizioni emerse nella Stilgeschichte tedesca (Coellen) e nella scuola viennese di storia dell’arte (da Wickhoff a Schlosser a Kaschnitz-Weinberg) (cfr. G. Lilliu, Sardegna: isola anticlassica, 1946, rist. in La costante resistenziale sarda, Ilisso, Nuoro 2002, pp. 129-132; per una rilettura retrospettiva, G. Lilliu, Sardegna anticlassica, in “Società sarda. Periodico di nuovo impegno”, n. 3, 1996, pp. 68-74). Fu in seguito ripresa, oltre che da Accascina, fra gli altri da Maltese (C. Maltese, Arte in Sardegna…, pp. 9-10; ma cfr. già C. Maltese, Persistenza di motivi arcaici tra il XVI e il XVIII secolo in Sardegna, in “Studi Sardi”, a. XVII, 1959-1961, pp. 462-472: 462-463), per trovare il suo luogo paradigmatico in Episodi di una civiltà anticlassica. (scritto, come detto, insieme con Renata Serra). In merito cfr. A. Mattone, Prefazione a G. Lilliu, La costante resistenziale…, pp. 7-100: 36-38; T. Cossu, “Sinceramente primitivi”: sguardi incrociati sull’origine dei Sardi, in Xenoi. Immagine e parola tra razzismi antichi e moderni, a cura di A. Cannas, T. Cossu, M. Giuman, Liguori, Napoli 2012, pp. 381-394; e M. B. Urban, Sardinia on Screen. The Construction of the Sardinian Character in Italian Cinema, Rodopi, Amsterdam - New York 2013, pp. 161-162.
59 M. Accascina, Gli affreschi…, pp. 27-28.
60 M. Rotili, Origini della pittura…, p. 62.
61 Cfr. R. Serra, Pittura e scultura dall’età romanica alla fine del ’500, coll. “Storia dell’arte in Sardegna”, Banco di Sardegna e Ilisso, Nuoro 1990, pp. 31-32, da cui è tratta l’espressione cit. (riferita alla necessità di «una rimeditazione sull’entità di un eventuale Kunstwollen locale, che si vorrebbe dominato da una sostanziale vocazione aniconica, di retaggio protostorico e “anticlassico”»). Su tale rimeditazione, cfr. anche I. Principe, La vicenda storica e artistica, in Sardegna, coll. “L’Italia” [“Guida rossa” del Touring Club Italiano], n. 16, Touring, Milano 2005, pp. 55-78: 55-57.