In occasione
della mia tesi di laurea[1]
è stato possibile riconsiderare la
figura di Ettore Gabrici (Napoli 1868 –
Palermo 1962) – studioso poco noto ma il
cui peso culturale si è rivelato di
grande importanza – grazie all’analisi
dei suoi scritti editi, pubblicati su
argomenti vari, dall’archeologia alla
storia dell’arte medievale e alle arti
decorative, e di documenti inediti,
rintracciati presso l’Archivio Centrale
di Stato di Roma, preziosa testimonianza
dell’attività di funzionario statale,
come direttore del R. Museo di Palermo.
Ettore
Gabrici giunge a Palermo portando con sé
le esperienze pregresse. Particolarmente
interessanti appaiono gli anni della
formazione napoletana, caratterizzati da
rapporti lavorativi che hanno inciso
sulla sua formazione culturale e ne
hanno indirizzato il lavoro verso più
campi di ricerca. Il giovane Gabrici,
dopo la laurea nel 1889, era entrato
nell’entourage culturale
partenopeo sotto la guida di Giulio De
Petra, ordinario di Archeologia e
direttore del Museo Archeologico
Nazionale di Napoli[2].
De Petra, dovendo stilare un nuovo
inventario e la guida del museo, chiese
la collaborazione nel 1893 di una équipe
di studiosi, fra cui Gabrici, incaricato
di redigere il catalogo delle monete[3].
Nella Guida illustrata del Museo
Nazionale di Napoli[4]
del 1908, Gabrici sarà tra i compilatori
e curatore della sezione di Numismatica
del museo e in relazione a ciò cominciò
a lavorare a fianco del maestro,
conseguendo poi nel 1902 la qualifica di
Ispettore del Museo.
Successivamente troviamo Gabrici a
Firenze, impegnato negli scavi presso
Bolsena[5].
A Firenze, città in cui rimarrà per
circa tre anni, collabora con Luigi
Adriano Milani, direttore dal 1882 del
Museo Archeologico di Firenze e
fondatore del giornale “Studi e
Materiali di Archeologia e Numismatica”,
sul quale pubblicarono numerosi suoi
allievi e colleghi tra cui Luigi Pernier,
Nicola Terzaghi e Giuseppe Petroni. Nel
1910 partecipò al concorso per la carica
di direttore del Museo Archeologico di
Napoli, ma il vincitore risultò Vittorio
Spinazzola, anche dopo il ricorso
tentato da Gabrici. Dopo Napoli[6]
preferì trasferirsi a Roma per lavorare
al Museo Archeologico di Villa Giulia[7].
Da questo
momento in poi Gabrici è presente in
Sicilia. Dalla Topografia e
Numismatica dell’antica Himera (e di
Terme)[8]
del 1894 apprendiamo che un primo
viaggio in Sicilia era stato compiuto
nel 1891, durante il quale aveva avuto
occasione di vedere a Palermo, grazie ad
Antonino Salinas, la collezione di
numismatica del museo da lui diretto,
varie collezioni private e il sito
archeologico di Himera.
Durante e
negli anni successivi la Grande Guerra,
Gabrici riprese gli scavi di Salinas che
interessavano varie aree della Sicilia
occidentale. Si dedicò agli scavi di
Termini Imerese legando il suo nome
soprattutto a Selinunte. Portò a
compimento lo scavo già iniziato da
Francesco Saverio Cavallari del
Santuario della Malophoros poi
oggetto di una pubblicazione[9].
In seguito si dedicò all’acropoli,
procedendo con il metodo stratigrafico
appreso dai suoi maestri e concependo il
reperto come punto di partenza
dell’indagine storica. L’interesse del
mondo archeologico verso questo sito
così importante spinse Gabrici a
pubblicare molti articoli sul tema fino
a organizzare una raccolta critica del
suo lavoro su Selinunte in due ampie
monografie pubblicate in “Monumenti
Antichi dei Lincei” nel 1933[10]
e nel 1956[11].
Gabrici,
allontanandosi momentaneamente dai suoi
studi di archeologo affronta anche
alcuni aspetti dell’arte medievale
dall’architettura alla pittura. Tale
interesse comincia a dare frutti attorno
agli anni venti con la pubblicazione di
La materia del cantare di Elena nel
soffitto Chiaramonte[12]
(1923) e di Il soffitto istoriato
nel Palazzo Steri di Palermo[13]
(1928), studi che poi confluiranno in un
più ampio studio scritto in
collaborazione con Ezio Levi[14].
È del 1923 lo studio su Il Palazzo di
Re Ruggero[15],
interessante per l’analisi
storico-artistica e il riesame delle
fonti, Gioacchino Di Marzo in primis,
e dei contributi più recenti come La
storia dell’Arte Italiana di Adolfo
Venturi. Ma più interessante, nel
contesto dei nostri studi, è la
dimostrazione ancora una volta del
grande approccio critico analitico che
Gabrici manifesta in ambiti che esulano
dalla sua formazione di archeologo, come
emerge dal discorso inaugurale sostenuto
per l’apertura dell’anno accademico
1934-35 che Gabrici intitola
L’Abbozzo[16].
Gli argomenti
affrontati nell’Abbozzo del 1935
sono ripresi dopo la seconda guerra
mondiale in Riflessioni sul travaglio
dell’arte figurativa contemporanea[17],
nel discorso inaugurale tenuto in
occasione dell’apertura del nuovo anno
accademico nel gennaio 1946[18].
Ancora ricordo gli articoli apparsi in
“Giglio di Roccia” riguardanti la
ceramica siciliana, argomento che in
quegli anni sarà oggetto di articoli
anche su riviste nazionali come “L’Arte”
o “Faenza”. Sia il primo di questi
articoli, Collesano nella storia
della maiolica siciliana[19],
sia il secondo, intitolato Appunti
sulle officine ceramiche di Palermo e
Sciacca[20],
dimostrano l’attenzione nei confronti
delle cosiddette “arti minori”[21]
che, come vedremo, Gabrici confermerà
anche nella sua attività di funzionario
museale.
Ettore
Gabrici assunse la carica di direttore
del Museo Nazionale di Palermo, poco
dopo la dipartita del professore
Antonino Salinas, esattamente il 26
agosto 1914[22].
Nella “Rivista Italiana di Numismatica”
del medesimo anno, in occasione della
commemorazione funebre tenuta in onore
di Antonino Salinas[23],
apprendiamo che
Il nuovo
Direttore del Museo Archeologico
Nazionale di Palermo succeduto al
compianto professore Antonino Salinas, è
il professore Ettore Gabrici, già
Dirigente del Gabinetto Numismatico di
Napoli e Ispettore poi degli scavi
presso il Museo di villa Giulia in Roma.
Al valente numismatico, le
congratulazioni della rivista di cui fu
collaboratore[24].
Come nuovo
direttore, Gabrici intraprese una fitta
corrispondenza con il Ministro della
Pubblica Istruzione Corrado Ricci per
tenerlo costantemente aggiornato sulle
necessità dell’amministrazione del
museo, tanto che la sua prima relazione
risale solamente al 31 agosto, a
distanza di pochi giorni dalla sua
nomina. Da questa prima relazione, che
lo stesso Gabrici specifica essere solo
una descrizione delle prime impressioni,
emerge da una preliminare ricognizione
tra le sale e gli uffici del museo
svolta sotto la guida dell’ispettore
Cesare Matranga e del segretario
Francesco Tommasi, una situazione
“anomala”. Percorrendo le sale e i
corridoi e l’area riservata agli uffici
e alla direzione, Gabrici constata
subito una condizione di generale
degrado in cui versava il museo: fra
l’altro, trovò i corridoi della
direzione ingombri di casse in cui erano
conservati i volumi del lascito Salinas,
vicenda veramente annosa che durò per
tutto il mandato di Gabrici.
Già il 4
settembre 1914, Gabrici aggiornava il
ministro sulle pratiche aperte dal
Matranga il quale aveva informato il
Ministero delle disposizioni
testamentarie di Salinas e richiesto
l’autorizzazione ad accettare il legato
in parola, risposta che tardava a
giungere e che ora Gabrici riproponeva.
Gabrici ricorda al ministro che Salinas
da direttore aveva acquistato numerosi
oggetti di arte medievale, moderna e
antica con fondi personali e li aveva
conservati in una stanza degli uffici
della direzione a cui, sopraggiunta la
sua morte, furono apposti i sigilli
dalla autorità giudiziaria. Una gran
confusione regnava pure nelle sale della
Scuola di Archeologia e nelle varie
sale. Queste accoglievano le collezioni
classiche esposte alla rinfusa, parte in
vecchi armadi e parte all’aperto in
terra accanto agli armadi stessi senza
un criterio di selezione «che non deve
mai perdersi di vista nella esposizione
dei monumenti»[25].
Da ciò
conseguivano, come egli riferisce, due
gravissimi inconvenienti:
l’uno che
l’estetica delle sale già compromessa
dallo stato di deperimento dei battenti
delle porte e vetrate e degli armadi, è
addirittura soppressa, l’altro che la
nettezza giornaliera riesce altrettanto
difficile, a questo va aggiunta una
deplorevole inerzia del personale di
custodia vecchio e lento[26].
A distanza di
pochi mesi segue una relazione in data 9
dicembre 1914, in cui emergono i
propositi e i primi interventi che
Gabrici ha intenzione di attuare per
risollevare il museo che
è ancora come
un immenso organismo addormentato, che
solo potenti stimoli possono scuotere, è
come una grande macchina, invasa dalla
ruggine per lungo stato di inerzia ed
alla quale grandi cure occorrono avanti
che si rimetta in moto[27].
In primo
luogo, si premurò di mettere in
sicurezza alcuni accessi del museo
munendo alcune lunette al pianterreno e
gli accessi delle terrazze contigue alla
chiesa di S. Ignazio all’Olivella con
grate di ferro. Lo stato di abbandono
del fabbricato perdurato per molti
decenni, aveva causato lo scrostamento
dell’intonaco delle pareti che col tempo
erano state ricoperte da una fitta
vegetazione che, oltre a provocare
infiltrazioni di umidità, invadeva anche
le finestre schermando la luce
all’interno delle sale. Tra i primi
propositi sono i lavori di manutenzione
per rendere più decoroso l’aspetto
dell’edificio. Anche il vestibolo del
museo necessitava di interventi, perché:
la porta
principale del museo, sulla via Roma, dà
accesso ad un’ampia sala terrena. Questa
era tutta occupata da un brutto
monumento sepolcrale di marmo nero del
XVII secolo, a sinistra da una grande
baracca di legno adibita alla vendita
dei biglietti, le pareti erano
letteralmente ricoperte di quadri ad
olio dei secoli XVII e XVIII con
ritratti prelati[28].
Gabrici fece
rimuovere il monumento sepolcrale e
smontare la baracca; mise nei depositi
le vecchie pitture e, con qualche pezzo
archeologico e qualche sedile, decorò
l’ingresso «ottenendo per ora la
decenza», ma, «nulla potei fare finora
per rendere meno ripugnante l’aspetto di
un lungo corridoio che dal vestibolo
introduce al Museo».
Biancheggiate
le pareti di alcuni corridoi e delle
sale più frequentate dai visitatori,
munì le finestre, prive di scuri, di
tende blu per proteggere le
suppellettili d’argento dai raggi solari
diretti e in altri casi spostò alcuni
monumenti per proteggerli da danni
maggiori come i preziosi affreschi di
Solunto che, dalla parete del cortile
principale, furono trasportati nelle
sale dei grandi bronzi di stile
pompeiano. Per quanto riguarda la zona
dedicata agli uffici acquistò alcuni
mobili per la stanza della direzione,
per il corridoio e per la sala di
aspetto e divise questa dalle stanze
private con una parete in vetro. Questi
dunque, i primissimi interventi che
Gabrici nel giro di tre mesi compì[29].
Nei mesi successivi su richiesta del
ministro, che chiede costanti ragguagli,
le relazioni si fanno più dettagliate e
riguardano i vari ambiti museali dalla
manutenzione a interventi straordinari
di ristrutturazione; dalla risoluzione
di problemi riguardanti la conservazione
e la tutela dei monumenti, a un
ripensamento della “didattica” del
museo.
Gli spazi
dedicati all’arte classica erano esigui
e in un’unica sala erano riunite le
Grondaie di Imera, la statuaria
romana, le Metope selinuntine.
Una gran quantità di materiale
archeologico, proveniente dagli scavi di
Giardini e Randazzo, rimaneva ancora
chiusa nelle casse dal giorno in cui era
pervenuta al museo. Gabrici sottolineava
la necessità di restaurare molte opere
presenti nelle sale e di esporre, una
volta catalogate e studiate, quelle
dimenticate nei depositi. Un altro punto
debole erano gli scaffali ormai
obsoleti: le sale che ne avevano di
«tollerabili» erano quelle dei vasi
greci, per le quali considerava: «non si
può certo pretendere che tutti gli
scaffali siano di ferro battuto con
palchetti di cristallo, ma certi vecchi
credenzoni e scaffali del settecento
bisognerà pure metterli da parte»[30].
Nelle stesse condizioni si trovava la
pinacoteca, in cui le raccolte medievali
e moderne erano ammassate o disposte in
file lungo i corridoi «a guisa di
magazzino d’antiquario».
Il problema
principale era la mancanza di spazio e,
osservava il direttore, solo quando «il
passaggio di questa pinacoteca con le
collezioni accessorie nel monumentale
palazzo Abbatelli si sarà avverato, i
due musei che oggi stanno a disagio in
questo edificio potranno guadagnare
spazio e soddisfare le esigenze della
estetica»[31].
La biblioteca del museo era collocata
entro vecchi scaffali in uno dei
corridoi della direzione, con uno
schedario incompleto e reso inutile
dallo spostamento che i libri avevano
subito quando, dopo la morte del Salinas,
furono raggruppati insieme. Urgente era
dunque per Gabrici cominciare una
verifica e una successiva schedatura, a
maggior ragione quando al cospicuo fondo
librario si unì la biblioteca del
lascito di Salinas che constava di circa
8.000 volumi. La nuova acquisizione
costrinse Gabrici a trovare una nuova
sede. Furono scelte le sale della Scuola
di Archeologia e questa fu spostata nei
locali sopra gli uffici della direzione.
Le due biblioteche occuparono così due
sale e un corridoio. Anche se con
l’accorpamento della raccolta di Salinas
la biblioteca colmò parecchie lacune,
soprattutto nel campo numismatico,
Gabrici segnala al ministro la necessità
di arricchirla soprattutto con opere
moderne che potessero servire da
supporto alle ricerche degli studiosi.
Disorganizzazione e confusione erano
riscontrabili anche tra le sale
dell’archivio del museo:
Dicono che il
Prof. Salinas usasse di trattare affari
al museo, talvolta delicatissimi, senza
mettere penna su carta, che si portasse
nei suoi viaggi lettere del Ministero,
le quali non sempre erano rimesse a
posto. Ho toccato con mano l’esattezza
di questa asserzione, poiché le carte
d’ufficio, trovate a casa sua e quelle
che egli teneva sparse nelle stanze
della vecchia e nuova Direzione,
oltrepassano il migliaio. Molte sono
protocollate, moltissime altre non
protocollate; e per queste ultime ho
istituito un registro di Protocollo
Speciale che potrà raggiungere il mezzo
migliaio. […] l’archivio è ora in via di
ordinamento, e tra non molto quando
meglio sarà fornito di scaffali adatti,
che non mancano nei depositi del Museo,
potrà funzionare regolarmente, senza
spese di sorta[32].
Anche
l’inventario generale del museo gravava
in pessime condizioni. Gli innumerevoli
oggetti accumulati nei depositi e chiusi
in casse, provenienti dai principali
luoghi di scavo siciliani – Selinunte,
Marsala, Mozia (Gabrici fu qui a stretto
contatto con il proprietario dell’isola,
l’inglese Joseph Whitaker) – erano privi
in certi casi pure del giornale di
scavo, mai descritti o numerati né
presenti nel giornale d’entrata.
Il lavoro di
riordino e d’inventariazione dei
manufatti abbandonati all’interno dei
magazzini fu un’importante occasione di
studio, e alcuni scritti di Gabrici sono
inerenti la sua attività all’interno
dell’istituto: si tratta di articoli nei
quali esprimeva, spesso avvertendo un
certo peso di responsabilità, l’urgente
e fondamentale studio dei manufatti,
come nel caso di alcuni frammenti
epigrafici provenienti da Selinunte e
Mozia:
i frammenti epigrafici che
pubblico furono da me, in gran parte,
rinvenuti nei magazzini di deposito
presso le rovine di Selinunte e nel
Museo Nazionale di Palermo. Avendo in
animo di cercare a cognizione dei dotti
un numero considerevole di monumenti
antichi d’ogni genere, ancora inediti,
da me studiati e raccolti nel detto
Museo, stimo opportuno di cominciare
dalle seguenti epigrafi arcaiche, le
quali contribuiranno un poco la scarsa
serie delle iscrizioni selinuntine
finora conosciute[33].
Così pure dedicò tempo allo
studio dei documenti e delle relazioni
lasciate negli archivi, grazie ai quali
riuscì a ricostruire le dinamiche degli
scavi e i reperti emersi identificandoli
con quelli conservati al museo. Partendo
proprio dalla documentazione fu capace
di ricostruire da un frammento un
manufatto nella sua interezza.
L’esempio più evidente che
Gabrici descrive con entusiasmo al
ministro Corrado Ricci in una sua
relazione[34]
è il Gorgoneion del Tempio C di
Selinunte [fig. 1][35],
oggi esposto in una sala del museo
proprio intitolata a Gabrici. Egli cercò
di reperire informazioni su alcuni
frammenti che giacevano nei depositi
privi d’identificazione, chiedendo ai
vecchi custodi e agli operai scavatori,
fino a quando non decise di recarsi a
Selinunte dove trovò, a nord ovest del
Tempio C, un frammento di un enorme
sopracciglio fittile policromo, che
risultò coincidere con gli altri resti
conservati al museo. Grazie a questa
scoperta sul luogo ebbe la conferma che
il tempio possedeva un enorme
Gorgoneion di cui fu possibile la
parziale ricostruzione.
La direzione del Museo di
Palermo dispone del prezioso materiale
finora imperfettamente e parzialmente
studiato ha dinnanzi a sé, fra gli altri
molti, anche questo importantissimo
compito. […] ma il tema di questa mia
nota, pur avendo grande attinenza con
quello accennato, assurge all’importanza
di una vera e propria rivelazione per la
scienza, in quanto dimostra che la
decorazione fittile policroma del Tempio
C di Selinunte non limitavasi alla sima
ed alle tegole semicilindriche lungo la
linea d’incontro al sommo dei due
pioventi, ma comprendeva bensì delle
colossali maschere in terracotta,
collocate come acroterii; e nel bel
mezzo del timpano forse del solo
frontone orientale, era applicato un
immenso “gorgoneion” policromo a
bassorilievo alto metri 2.50 all’incirca[36].
Frutto dei suoi continui studi
sul materiale conservato al museo furono
anche due scritti dedicati uno ad alcuni
vasi inediti e l’altro alla celebre
collezione Casuccini. In Vasi greci
inediti dei Musei di Palermo e Agrigento[37]
nota che le ultime relazioni, in merito
ai manufatti in terracotta presi in
esame, risalgono al 1871 e che mancano
anche altri ragguagli riguardo
l’incremento delle raccolte di ceramica
greca fatte dopo questa data.
L’identificazione e la catalogazione è
estremamente complessa ed egli cerca di
approfondire l’analisi solo di quei
manufatti che possono essere comparati
con gli incartamenti dell’archivio. Tra
questi considera di gran pregio una
lekythos attica a figure nere con
Achille consegnato a Chirone della
quale trova il documento di acquisizione
risalente al 1898.
Nel 1928 Gabrici dedica ai
manufatti chiusini lo scritto La
Collezione Casuccini del Museo Nazionale
di Palermo[38].
Alcune terrecotte della collezione,
appartenuta al conte Pietro Bonci
Casuccini acquisita dal museo di Palermo
nel dicembre 1865, avevano subito
restauri invasivi, quando si trovavano a
Chiusi e ancora in occasione del loro
trasporto in Sicilia, che Gabrici
documenta fornendo una precisa
descrizione di interventi e alterazioni.
L’inventariazione generale rimase uno
dei problemi più annosi da risolvere
procedendo con una verifica generale
lunga e faticosa di tutti gli oggetti.
In attesa di disporre di un personale
più qualificato che potesse aiutarlo
nella verifica, attraverso i vecchi
cataloghi e nella compilazione di nuova
inventariazione di tutti i beni, Gabrici
divise in grandi gruppi il materiale
distinguendolo in archeologico,
librario, fotografico, affidando ad ogni
ambito un funzionario responsabile.
Cominciò il riordino dell’archivio,
sistemando le pratiche riguardanti gli
atti dell’Ufficio degli Scavi e del
Museo Nazionale per poi procedere con i
documenti della Galleria e con gli
incartamenti degli Uffici di
Esportazione.
Quanto al
medagliere, che necessitava di ulteriore
sforzo per il valore e la quantità di
oggetti ammassati e conservati entro
armadi, cassette, buste, Gabrici decise
di porre i sigilli alla porta della
vecchia direzione dov’era il medagliere,
per rimandare temporaneamente il lavoro
di inventariazione che richiedeva,
secondo la sua previsione, più di un
anno di lavoro.
Alla luce di
questa situazione negativa in tutti i
suoi aspetti, gli interventi di Gabrici
e i suoi sforzi sono notevoli ma non
esaustivi né immediati a causa dei pochi
fondi a disposizione e di un personale
numericamente scarso e poco efficiente.
Per assicurare la disciplina del
personale nell’istituto, tra i primi
provvedimenti presi fu l’introduzione
del registro di presenza.
Il
monitoraggio del ministro Ricci
sull’operato di Gabrici era costante e
più volte il ministro spese parole di
stima e ammirazione nei confronti del
direttore. Il sostegno di Ricci però era
molto oculato o si arrestava quando le
richieste economiche avanzate da Gabrici
diventavano più onerose e spesse volte i
programmi per risollevare le sorti del
museo avviati coi pochi fondi a
disposizione venivano bruscamente
rallentati. Tanto che l’esito di
un’ispezione del 1916 è ancora
sfavorevole.
L’ispezione
eseguita all’ufficio di Economato
permise di constatare che l’attuale
Soprintendente agli scavi e direttore
del Museo Ettore Gabrici esercita una
lodevole sorveglianza sull’andamento dei
servizi contabili-amministrativi e che
le scritture relative alla gestione dei
fondi della dotazione sono tenute molto
più regolarmente che non negli altri
Istituti di Palermo dipendenti dalla
Direzione Generale delle Antichità e
Belle Arti […]. Deplorevole invece è lo
stato delle scritture inventariali […].
Vi sono stati immessi libri,
manoscritti, stampe, fotografie ed altri
oggetti, che il Prof. Salinas legò al
Museo, sebbene non siano ancora compiuti
gli atti per l’accettazione del legato
[…] per i depositi degli Enti e dei
privati non esiste un registro di
entrata e di uscita, e, quindi,
qualsiasi notizia sulla consistenza di
quelli non può desumersi che dai
documenti di archivio, non sempre
facilmente reperibili. Il museo possiede
una Biblioteca speciale di opere di
archeologia, arte e storia abbastanza
notevole, ma il numero dei volumi non
può essere precisato, poiché non esiste
un inventario e nemmeno un catalogo
regolare. […] inoltre il personale di
custodia è assolutamente insufficiente
[…] così da essere costretti a tener
chiuse alternatamente la sezione dei
ricordi patrii e quella dei vasi greci,
delle maioliche e dei bronzi, e senza
alternazioni le sale dei merletti, delle
oreficerie e stoffe antiche […][39].
I lavori
proseguono lenti ma con costanza e la
dimostrazione degli esiti positivi
dell’operato di Gabrici si avrà quando,
in occasione del cinquantenario del
museo nei locali dell’Olivella (1918),
si organizzerà una commemorazione in
ricordo di Salinas. I preparativi per
l’evento e la raccolta fondi cominciano
sin dal 1916 e dureranno fino al 1922.
La cerimonia sarà occasione per Gabrici
di mostrare e consegnare alla città un
museo nuovo. Nell’invito che Gabrici
scrive il 26 maggio 1922 al ministro
Arduino Colasanti leggiamo:
Mi onoro di
annunziare all’On. Ministro, che il
giorno 7 giugno, alle ore 16, con
l’intervento del nostro Augusto Sovrano
verrà celebrato il cinquantesimo
anniversario della istituzione di questo
glorioso istituto nei locali che
presentemente occupa, verrà inaugurato
il busto di Antonino Salinas e saranno
aperte sei sezioni, costituite in gran
parte da materiale archeologico ed
artistico finora chiuso nei depositi e
cioè: la Sezione della Preistoria della
Sicilia (4 sale del 3o
piano); la Sezione Topografica Siceliota
(2 corridoi del 1o piano); la
Sezione delle Terrecotte greche votive
(4 sale del 3o piano); la
Sezione delle Majoliche siciliane e
ferri battuti (2 saloni); Pinacoteca di
scuole diverse (10 salette); Merletti e
ricami siciliani (3 salette)[40].
Nei corridoi
del primo piano dunque, dove prima vi
erano accolti materiali classici e
medievali, furono disposti ordinatamente
l’antiquarium e la raccolta
topografica, seguiti dalle sale dedicate
alla raccolta di ceramiche greche
anch’essa accresciuta con una serie di
edicole funerarie dalla necropoli punica
di Lilibeo e da esemplari di ceramica,
acquistati da Gabrici, e provenienti da
Centuripe (III sec a.C.). Ma Gabrici,
esulando dalle sue competenze
specifiche, apportò alcuni cambiamenti
anche nell’allestimento della
pinacoteca, iniziato da Cesare Matranga.
Rimanendo fedele al progetto
museografico di Matranga, che consentiva
la comparazione fra scuole, offrendo
adeguata collocazione alla pittura
siciliana, Gabrici aggiunge dieci
salette in cui furono esposte opere di
scuole italiane o fiamminghe rimaste per
molto tempo nei depositi, così come gli
affreschi della seconda metà del XV
secolo di Tommaso De Vigilia[41],
giunti al museo nel 1881 dalla cappella
dell’ordine dei Teutonici di Risalaimi
presso Marineo.
L’attività di
Gabrici nelle vesti di direttore è
complessa, e riguarda naturalmente anche
la conservazione delle opere:
nell’ottobre del 1916, comincia a
sottoporre all’attenzione del ministro
Ricci i necessari e urgenti interventi
di restauro sugli affreschi di De
Vigilia. Dopo aver esaminato
accuratamente gli affreschi, Gabrici si
rese conto che le parti più rilevanti
come i volti e le mani erano ricoperte
da una vernice grassa e lucida che sotto
l’azione dell’alta temperatura tendeva a
sciogliersi rigando la superficie dei
dipinti. Tra gli affreschi il più
danneggiato e «soggetto a progressivo
deperimento cagionato dal cattivo
restauro»[42]
è Abramo e i tre Angeli [fig. 2].
Il viso, il collo e alcune parti del
terzo angelo a destra presentavano gravi
lacune «formatesi dal distaccarsi e
accartocciarsi di una vernice
sovrapposta dal restauratore la quale
trae seco tutto il colore originario.
Questo deperimento è limitato per ora ad
alcuni punti dell’affresco ma si vede
che il processo di distruzione ha invaso
tutte le figure»[43].
La difficile
operazione su un’opera d’arte così «rara
e pregevole» richiedeva un abile
restauratore che Gabrici non trovò a
Palermo; chiese quindi al Ministero di
procurargliene uno di fiducia. Appresa
la notizia, Ricci contattò la
Soprintendenza ai Monumenti del Lazio e
degli Abruzzi per decidere quale
restauratore proporre a Gabrici. In un
primo momento la scelta cadde su Tito
Venturini Papari il quale era disposto a
recarsi a Palermo per un sopralluogo, ma
che avrebbe potuto dare avvio ai lavori
solo dopo l’estate. Si preferì un altro
restauratore, Vito Mameli – che aveva
già ottenuto numerosi incarichi dal
Ministero della Pubblica Istruzione –
subito disponibile a compiere un primo
sopralluogo per stilare un preventivo.
Sappiamo dallo stesso Mameli che il
compenso per la trasferta constava di
una diaria di 19 lire, mentre per il
lavoro di restauro la diaria era di 20
lire. Con una missiva del 5 gennaio
1917, Ricci fa sapere a Gabrici che il
restauratore giungerà a Palermo «i primi
della ventura settimana».
Giunto a
Palermo, Mameli sotto suggerimento di
Gabrici esamina tutti gli affreschi di
De Vigilia che, come confermato dal
resoconto del restauratore,
necessitavano di cure. Il preventivo di
1.200 lire proposto da Mameli, che
doveva essere approvato dal ministero,
riguardava per ora due affreschi,
Abramo e i tre Angeli e le SS.
Anastasia, Agata, Lucia e Apollonia
[fig. 3]: Gabrici chiese che il lavoro
del restauratore cominciasse dal primo
affresco, per il quale era più urgente
intervenire. Ma al contempo, sempre su
indicazione di Gabrici, Mameli esaminò
l’altro grande affresco del De Vigilia
raffigurante La Madonna in trono tra
Angeli e Santi [fig. 4] che «è più
di tutti spalmato di colla densa che si
è incominciata a sciogliere»[44].
In verità
Gabrici confidava che il ministero
decidesse per un intervento generale su
tutti gli affreschi, sperando che ciò
non avrebbe influito né sui tempi di
lavoro né sul preventivo iniziale.
Mameli così preparò un secondo
preventivo dichiarando che l’affresco
raffigurante La Madonna in trono
era di dimensioni triple rispetto a
quello rappresentante le quattro sante e
che si trovava in condizioni di
deterioramento tanto più gravi da
rendere il lavoro più complesso. Gli
interventi che Mameli aveva in programma
consistevano in una ripulitura generale
dalle colle grasse sovrapposte e in
un’operazione di consolidamento della
superficie pittorica. I lavori avrebbero
impegnato il restauratore per un periodo
di due mesi e per una spesa complessiva
di 1.200 lire; mentre per il restauro
dell’affresco con Abramo il periodo
previsto era di un mese e mezzo di
lavoro per una spesa di 900 lire, per un
compenso totale di 2.100 lire:
tale somma
non può ritenersi eccessiva se si
consideri l’importanza e la dimensione
dei dipinti, la delicatezza e la
responsabilità del lavoro che dovrà dal
sottoscritto essere compiuto fuori dalla
propria residenza e infine l’alto costo
che oggi hanno raggiunto le materie
prime[45].
Con il
decreto del 25 maggio del 1917 è
approvato il contratto che verrà
registrato alla Corte dei Conti il 6
giugno 1917. Da un documento stilato da
Gabrici risalente al 29 novembre 1917,
si apprende che il lavoro eseguito da
Mameli fu eseguito in due tranche,
dal 27 aprile al 26 maggio e dal 20
ottobre al 16 novembre 1917, con
un’interruzione dovuta al richiamo alle
armi del restauratore. Il 12 dicembre
1917 una minuta ministeriale informa
Gabrici dell’avvenuto pagamento come
retribuzione dei restauri svolti. Vale
la pena sottolineare come la volontà di
restaurare Tommaso De Vigilia rientri
nell’indirizzo di gusto di questi anni,
favorevole alla pittura del Trecento e
del Quattrocento, testimoniato anche dal
collezionismo delle opere dei Primitivi
che contribuirono ad arricchire
importanti quadrerie come quella di
Gabriele Chiaramonte Bordonaro[46].
Mentre
proseguono i lavori di restauro di
Mameli sugli affreschi di Risalaimi,
Gabrici riesce ad ottenere gratuitamente
un delicato lavoro di restauro sul
dipinto attribuito ad Andrea del Sarto
raffigurante S. Miniato. La
tavola, danneggiata dai pesanti
interventi precedenti che coprivano le
mani e le vesti del santo, fu liberata
dalle sovrapposizioni dei colori
rivelando anche la data 1563[47].
La collaborazione con il restauratore
sardo prosegue nel tempo. Nel 1919
Mameli fornisce alcuni preventivi a
Gabrici riguardanti altre opere
conservate al museo. Questi riguardano
altri affreschi di Tommaso De Vigilia
raffiguranti uno le SS. Anastasia,
Agata, Lucia e Apollonia, e gli
altri due con le SS. Agnese, Cecilia
e SS. Cristina e Oliva; una
Maria Maddalena di Van Dyck e la
Madonna con il Bambino tra angeli (inv.
68), opera che, sebbene attribuita al
Memling, era difficilmente apprezzabile
perché sporca e ingiallita. Dai
documenti si apprende che la cifra
stabilita raggiunge in questo caso il
totale di 3.550 lire e che i lavori
dovranno terminare entro la fine di
febbraio del 1920. Il contratto è
approvato dal ministro Arduino Colasanti
col decreto del 12 gennaio 1920,
registrato il mese successivo alla Corte
dei Conti (il 26 maggio 1920 verrà
effettuato il pagamento[48]).
È sempre
grazie ai rapporti che Gabrici invia al
ministro che si viene a conoscenza che
Mameli, già il 26 novembre 1919,
terminava i lavori sulla tavola con la
Madonna con il Bambino tra angeli,
le cui fotografie allegate alla pratica
inviata al ministro ne testimoniavano lo
stato di conservazione prima e dopo
l’intervento[49].
Dopo il restauro, la tavola fu posta
accanto al Trittico di Malvagna
con un’attribuzione diversa voluta da
Gabrici, che avanzò l’ipotesi che
l’opera fosse di un ignoto pittore della
cerchia di Quentin Metsys (identificato
poi con il Maestro del Santo Sangue).
Al di là di
questi ambiti di tutela, Gabrici
contribuì ad ampliare le collezioni del
museo intraprendendo trattative
d’acquisto con antiquari siciliani. A
distanza di un solo anno dall’inizio del
suo mandato, esattamente il 16 dicembre
1915, cominciano le trattative con
l’antiquario palermitano Mario De
Ciccio, figura di spicco nella storia
del collezionismo italiano[50],
per l’acquisto, per 1.000 lire, di un
vaso attico a figure rosse a forma di
pelike con un’amazzone a cavallo e
guerriero greco che «rivela chiare note
l’influenza della pittura polignotea»[51].
Gabrici è interessato al manufatto,
proveniente dal territorio di Gela, non
solo per la sua rara dimensione (49 cm.)
e per il buono stato di conservazione ma
anche perché, insieme al già presente
cratere polignoteo gelese anteriore di
circa un ventennio rispetto alla
pelike, forniva una testimonianza
importante per il museo dell’arte
ceramica attica nel periodo di maggiore
sviluppo cioè verso la metà del V sec
a.C.
Il direttore
è anche preoccupato del fatto che se la
compravendita non fosse andata a buon
fine il vaso avrebbe rischiato di essere
venduto a compratori esteri. Il 21
gennaio del 1916 Ricci accetta la
proposta e si avviano le pratiche per
l’acquisto. In seguito, nel 1917, lo
stesso De Ciccio proporrà a Gabrici la
vendita di alcune placchette antiche in
oro [fig. 5], appartenenti probabilmente
a due collane diverse, per 800 lire.
Gabrici manifesta al ministro il suo
interessamento per tali oggetti, perché
andrebbero ad ampliare la collezione già
esistente del museo, e riporta
un’accurata descrizione accompagnata da
una fotografia.
Tenuto conto
della diversa lega del metallo e dei
particolari decorativi ciascuna
laminetta ha nel mezzo una mascherina
muliebre con ornati disposti a raggi
chiusi da un cordoncino. La forma di
tali laminette ed alcuni elementi della
decorazione richiamano simili oreficerie
rodie ed etrusche, il cui tipo apparso
in età arcaica si protrasse fino ai
secoli IV-III a. C.[52].
Gli oggetti
però non hanno nessuna certificazione né
è conosciuta la provenienza, per quanto
Gabrici creda alle rassicurazioni
dell’antiquario e sia a favore
dell’acquisto, rifiutato dal ministro.
Con una
relazione datata 19 luglio 1921, Gabrici
informa il ministero che si presenta la
possibilità di acquistare, tre urne
cinerarie [figg. 6-8] «prodotti
rarissimi della ceramica lavorata a
Centuripe, l’unica fabbrica di vasi
conosciuta nella Sicilia antica»[53].
I tre vasi sono considerati esemplari
rarissimi per tipologia e per l’ottimo
stato di conservazione rispetto ai pochi
frammenti conservati a Siracusa e a
Londra. I loro ornati a rilievo
conservano in parte la lamina in oro che
li rivestiva. La superficie era dipinta
a tempera su fondo chiaro con i pigmenti
ancora molto nitidi e ben conservati. Le
scene raffigurate, come sostiene Gabrici,
devono essere ancora studiate ma è già
possibile identificare una
rappresentazione di un rito o di
consacrazione o di iniziazione. «Se
l’On. Ministero approverà la mia
proposta il Museo di Palermo, per questo
genere di monumenti si metterà in
primissima linea fra i musei del mondo»[54].
I vasi appartenevano a due differenti
antiquari: uno a Michele Trovato di
Taormina, che avanzava la richiesta di
3.500 lire; gli altri due, in migliori
condizioni, al negoziante palermitano
Giuseppe Ingrassia, che chiedeva 10.000
lire. A distanza di un mese Gabrici non
ha ancora risposta da Roma e i suoi
telegrammi cominciano ad essere
frequenti, dato che, come egli stesso fa
presente, gli antiquari facevano
pressioni per concludere l’affare,
minacciando di prendere in
considerazione altri acquirenti.
Ottenuto dal ministro Colasanti il
consenso per proseguire le trattative,
il direttore rasserenato il giorno
seguente comunica:
A seguito al
mio telegramma espresso di ieri, sono
lieto annunziare che mediante mie
argomentazioni persuasive gli antiquari
hanno consentito consegnarmi i tre vasi
che ora si trovano al museo. Riconfermo
mia preghiera di sollecito pagamento
nella maniera da me indicata e ciò a
incoraggiamento e premio dei due
negozianti che cedono allo Stato tre
monumenti cospicui per un prezzo di
molto inferiore al loro valore
commerciale e poi quali avevano avuto
offerte rilevantissime da antiquari
romani[55].
Il 7 ottobre
1921 il Consiglio Superiore per le
Antichità e per le Belle Arti delibera
l’acquisto per la somma complessiva di
13.500 lire.
Ma non sempre
le proposte di Gabrici vengono accolte
positivamente da Roma. Un chiaro esempio
di ciò sono le trattative con
l’antiquario Giuseppe Spanò nel 1920 per
l’acquisizione di una ricca collezione
di suppellettili proveniente dalle
necropoli lipariote del IV sec. a.C. Già
in passato lo Stato si era fatto
sfuggire un prezioso acquisto di
manufatti provenienti sempre dallo
stesso sito archeologico e che erano
finiti tra le collezioni inglesi di cui
restava «a noi il magro conforto di
possedere l’album di fotografie di quei
vasi»[56].
Gabrici stila un dettagliato elenco
delle opere, 47 oggetti tra i quali
alcuni di notevole valore, e comunica
che la richiesta è di 3.000 lire [figg.
9-10].
Il ministro
Colasanti prima di dare una risposta al
direttore chiede la consulenza alla
Soprintendenza ai Musei e agli Scavi
della provincia di Roma la quale così
risponde:
La raccolta
di vasi e di figurine in terracotta
offerta in vendita al Direttore del
Museo Nazionale di Palermo non presenta
nessun oggetto di valore artistico o
archeologico. i vasi sono tra i prodotti
più comuni e meno squisiti delle
fabbriche ceramiche dell’Italia
Meridionale […]. L’acquisto pertanto mi
sembrerebbe consigliabile solo per la
ragione storica-topografica di avere
rappresentazioni al Museo di Palermo la
necropoli del IV sec. a.C. di Lipari.
purtroppo anche a questo scopo la
suppellettile offerta in vendita non può
corrispondere in modo scientificamente
adeguato perché non si ha da essa nessun
corredo completo di tomba ma solo
oggetti sporadici della necropoli ed
oggetti che con la necropoli non hanno
nulla a che fare come le lucerne romane.
L’acquisto potrà avvenire Io
se la provenienza da Lipari è
assicurata, trattandosi di materiale che
è nel commercio antiquario, IIo
se si potrà ottenere un notevole ribasso
sul prezzo richiesto[57].
Gabrici però
non riuscì a ottenere dall’antiquario un
ribasso della richiesta, ma ritenendo
comunque importante per il Museo entrare
in possesso magari di alcuni esemplari
presentò al Ministro un nuovo elenco
questa volta di soli 9 manufatti
proposti a una cifra di 2.100 lire. Ma
anche questa volta il ministero rimase
irremovibile nella sua decisione e le
trattative si fermarono.
Quando è
offerto dall’antiquario Giovanni
Battista Furno per 2.000 lire un Elmo
greco di bronzo [fig. 11] risalente al
VI-V sec. a.C., Gabrici senza aspettare
l’autorizzazione del Ministero lo prende
in custodia e comunica al ministro
Colasanti che il museo ha ancora a
disposizione dei fondi per poter
fronteggiare la spesa. A distanza di una
sola settimana dalla comunicazione del
direttore arriva l’approvazione e a
seguire di pochi mesi il relativo
decreto.
Proveniente
da una villa palermitana demolita per
motivi di ampliamento della città, era
un Sarcofago strigilato con teste
di Medusa, databile alla metà del III
secolo d.C.[58]
[fig. 12] che l’antiquario Antonino
Anastasi proponeva a Gabrici per la
cifra iniziale di 2.000 lire, dopo
trattative scesa a 1.200. Anche questa
volta Gabrici si mostra interessato a un
«monumento ovvio per altre zone
archeologiche ma rarissimo nella Sicilia
occidentale»[59].
Poco dopo un mese giunge da Roma il
consenso del ministero che fa entrare il
sarcofago all’Olivella.
Proprio come
il suo predecessore, Ettore Gabrici non
ignora le offerte d’acquisto o anche le
donazioni di privati di opere d’arte,
comprese le arti decorative che erano
state fortemente volute da Salinas per
testimoniare nella sua completezza la
storia dell’arte siciliana. Le
collezioni vengono arricchite anche
grazie all’attività dell’ufficio per
l’esportazione degli oggetti d’arte e
antichità di Palermo che si trova
all’interno dello stesso museo. La
Commissione[60],
incaricata di prendere in esame gli
oggetti di valore artistico e di
rilasciare l’eventuale licenza per
l’esportazione, può avvalersi dell’art.
9 della legge del 20 giugno 1909 n. 364
ed esercitare il diritto di prelazione
se ritiene che il valore degli oggetti
sia superiore a quello dichiarato. È
quanto accade il 5 dicembre 1920. Il
negozio dei Daneu, fra i più importanti
antiquari di quegli anni[61],
presenta una richiesta di licenza per
poter esportare all’estero un
orologio Impero di bronzo dorato con
l’allegoria della Primavera degli inizi
del XIX secolo [fig. 13] e un
comodino Luigi XVI con applicazioni
in bronzo dorato con testa di Ercole [fig.
14], dichiarando un valore complessivo
per i due manufatti di 1.000 lire. La
Commissione esaminati gli oggetti negò
la licenza dichiarando che conveniva
«allo Stato esercitare il diritto di
prelazione a vantaggio delle collezioni
del Museo Nazionale di Palermo, la cui
galleria possiede una sezione di oggetti
d’arte e di pitture dei principi del XIX
secolo»[62].
Il 16 febbraio 1921 si stila l’atto, il
18 marzo è emanato il decreto dal
ministro Colasanti e, il 13 giugno,
predisposto il pagamento. Il lavoro
della Commissione continua negli anni a
seguire e nel 1923 esercita nuovamente
il diritto di prelazione su altre opere
che stavano per essere esportate
all’estero. La ditta Perricone Violante
di Palermo chiedeva all’ufficio di
esportazione la licenza per quattro
Candelabri Impero di bronzo dorato,
per un valore complessivo dichiarato di
2.000 lire, e per due fiasche per
polvere da sparo, una con placche in
osso incise con scene di caccia al cervo
e al cinghiale [figg. 15-16][63]
e un’altra di cuoio con ricami in
filigrana d’argento, per un valore
complessivo di 150 lire.
Gli oggetti,
i cui prezzi vengono indicati come
«semplicemente derisori», provenivano
dalla vendita attraverso un’asta
pubblica dei beni Baucina e i soli
candelabri erano stati pagati per poco
più di novemila lire «lo speditore aveva
la piena consapevolezza di frodare lo
Stato dichiarando il prezzo di 2.000
lire per essi»[64].
Gabrici prega il ministro affinché la
richiesta della Commissione venga
accolta anche perché il «museo sta
formando una raccolta di oggetti d’arte
Impero la quale dovrà servire per lo
studio delle influenze che l’arte
francese esercitò sullo sviluppo
dell’arte industriale siciliana in quel
periodo»[65].
La richiesta per l’acquisto delle opere
per un prezzo totale di 2.150 lire viene
favorevolmente accolta dal ministro
Colasanti; il 24 maggio 1924 è emanato
il decreto e il 21 agosto il direttore
sarà informato che il ministero ha
provveduto a stipulare una polizza a
favore della ditta Perricone Violante
per la cifra stabilita.
I rapporti
con gli antiquari locali proseguono nel
1923: vanno a buon fine le trattative
con Giuseppe Spanò, relative
all’acquisto di un albarello di
maiolica (Palermo o Faenza del XVI
secolo) raffigurante un Santo
[fig. 17]. Il 2 aprile del 1924 il
Ministro Colasanti acconsente
all’acquisto per la somma di 600 lire e
la maiolica va ad aggiungersi alla già
ricca collezione museale[66].
Contemporaneamente continuano in quegli
anni le lunghe trattative che Gabrici ha
con gli eredi di Salinas per un abito di
seta ricamata in oro di Piana degli
Albanesi della fine del XVIII secolo[67].
Dunque,
Gabrici è sempre consapevole del fatto
che ogni oggetto, traduzione finale
attraverso l’abilità manuale della
creatività e dell’inventiva artistica, è
documento del gusto estetico di un
determinato periodo storico e sociale,
non perde occasione per ampliare le
collezioni del museo. Con questo spirito
e sensibile al momento di rivalutazione
artistica locale, convinto che era
necessario non soltanto per motivi di
tutela ma soprattutto per fini di
documentazione arricchire il museo di
opere siciliane, nel 1922 comincia le
trattative per acquistare il dipinto di
Pietro D’Asaro, noto come il Monocolo
di Racalmuto, rappresentante il
Martirio di S. Stefano[68].
Considerato
che il museo possiede solo un dipinto
sicuramente attribuibile a questo
artista finora imperfettamente studiato
[…] e tenuto presente che esso dipinto
ha molti pregi che rivelano influenze
esterne, propongo che esso sia
acquistato per le raccolte di questo
museo[69].
L’opera –
databile fra il 1613 e il 1618, e
firmata Monocvlo Racalmvtensis P – era
racchiusa entro una coeva cornice di
legno intagliato e dipinto e in buono
stato di conservazione. Dopo lunghe
trattative Gabrici riuscì a ottenere un
notevole ribasso sul prezzo richiesto
dall’antiquario Anastasi che, versando
in gravi condizioni economiche,
acconsentì la vendita per 1.650 lire
invece che per 3.000 ma pose come
condizione di vendita l’immediato
pagamento. Il ministro diede al
direttore il permesso di procedere con
le pratiche, fu fatto l’atto di vendita
e coi fondi del museo acquistato il
quadro per il quale, per la prima volta,
possiamo indicare la data d’ingresso
nelle collezioni museali.
Ma non sempre
le vicende legate alle acquisizioni
delle opere d’arte seguono percorsi
lineari. Il caso del dipinto su tavola
raffigurante La Madonna in trono col
Bambino tra due Angeli musicanti
[fig. 18], opera firmata e datata Nicolò
da Pettineo 1498, può essere d’esempio.
Tutto ha inizio da una richiesta di
indagini sull’antiquario Giulio Sarrica
fatta alla questura di Messina dal
soprintendente alle Gallerie e ai Musei
medievali e moderni Enrico Mauceri[70].
L’antiquario aveva proposto la tavola di
Nicolò da Pettineo per una somma di
25.000 lire ma a condizione di trattare
l’affare “a scatola chiusa”, senza
esaminare il dipinto né svelare il nome
del proprietario.
la strana
proposta mi fece l’impressione di avere
a che fare con un furfante il quale
tentava un ricatto allo Stato, e che
dopo aver tentato lo stesso raggiro col
Direttore del Museo Nazionale di
Palermo, com’è naturale senza successo,
ricorreva agli stessi illeciti mezzi col
sottoscritto[71].
Sarrica si
era in effetti rivolto a Gabrici, ma
inutilmente, e cercava ora di piazzare
l’opera a Messina[72].
Questa fu posta sotto sequestro per
evitare che Sarrica riuscisse a eludere
la sorveglianza degli uffici di
esportazione e venderla all’estero. A
distanza di un anno le vicende attorno a
questo quadro si fanno più chiare. Il
reale proprietario del dipinto era
Giuseppe Spanò il quale con tutta
probabilità aveva preso accordi con
l’antiquario per ricavare un maggior
guadagno nella vendita del dipinto.
Diventa cruciale e determinante in
questa vicenda il ruolo di Gabrici che,
in qualità di soprintendente, ottiene la
rimozione dei sigilli posti
dall’autorità di pubblica sicurezza e
incomincia le trattative per acquistare
l’opera. Gabrici, infatti, vorrebbe che
il Ministero si esprimesse sulla
controversia e che acquistasse a una
cifra più bassa di 14.000 lire. Il
Consiglio Superiore per le Antichità e
le Belle Arti decide che:
tenuti
presenti i vincoli che gravano su
quest’opera d’arte attualmente sotto
sequestro per l’imposta notifica di
importante interesse, è di avviso che
questa tavola sola opera firmata
dall’arcaico maestro siciliano, possa
essere utilmente acquistata per la
Galleria Nazionale di Palermo per un
prezzo che non superi lire 10.000[73].
Accettata
l’offerta, Spanò finalmente firma l’atto
di vendita con lo Stato[74].
[1]
C.
Caruso,
Ettore
Gabrici
(1868-1962),
tesi di
laurea,
Università
degli
Studi di
Palermo,
Facoltà
di
Lettere
e
Filosofia,
anno
accademico
2010-2011,
Relatore
Prof.ssa
S. La
Barbera.
[2]
A lui
Gabrici
dedicherà
uno dei
suoi
primi
scritti
Topografia
e
numismatica
dell’antica
Himera e
di Terme,
pubblicato
a Napoli
nel
1894.
[3]
Per la
vicenda
legata
alla
catalogazione
del
Medagliere
Santangelo
del
Museo
Archeologico
di
Napoli
si veda
V. Nizzo,
Documenti
inediti
per la
storia
del
medagliere
del
Museo
Archeologico
Nazionale
di
Napoli
tra la
fine
dell’800
e inizi
del ‘900,
in
“Annali
dell’Istituto
italiano
di
Numismatica”,
56,
2010,
pp.
157-291.
[4]
G. De
Petra,
Guida
illustrata
del
Museo
Nazionale
di
Napoli,
Richter,
Napoli
1908.
Tra i
compilatori
troviamo:
Domenico
Bassi
direttore
della
sezione
Papiri
Ercolanensi;
Ettore
Gabrici
direttore
della
sezione
Numismatica;
Lucio
Mariani
professore
presso
l’Università
di Pisa;
Orazio
Marucci
direttore
del
Museo
Gregoriano
Egizio
in
Vaticano;
Giovanni
Patroni
professore
presso
l’Università
di
Pavia;
Antonio
Sogliano
direttore
degli
scavi di
Pompei e
professore
presso
l’Università
di
Napoli.
[5]
Durante
la
campagna
di scavi
porta
alla
luce il
recinto
etrusco-italico
consacrato
alla
divinità
locale
Nortia
che
Gabrici
identifica
in base
allo
studio
delle
stipi
votive
rinvenute.
Gli
sviluppi
delle
sue
ricerche
e i
progressi
sulle
identificazioni
del
documento
inedito
sono
costantemente
pubblicati
nella
rivista
“Notizie
degli
scavi di
Antichità”,
dove
appaiono
Bolsena:
scoperta
di
antichità
nell’area
della
città
romana,
1903,
pp.
357-375,
e
Bolsena:
scavi e
trovamenti
fortuiti,
1906,
pp.
59-93.
[6]
Di
ritorno
da
Firenze,
Gabrici
è a
Napoli
dal
1907. Il
primo
interessamento
che lo
studioso
ha per
l’antica
Napoli
coincide
con
l’approvazione
del
piano di
risanamento.
Il
grande
intervento
che
cambiò
l’antico
volto
della
città di
Napoli
fu
ipotizzato
fin
dalla
prima
metà
dell’Ottocento
e fu
portato
a
compimento
dopo una
gravissima
epidemia
di
colera
avvenuta
nel
1884.
Nel 1885
sotto la
spinta
del
sindaco
Nicola
Amore,
appoggiato
dal
presidente
del
consiglio,
Agostino
Depretis,
fu
approvata
la legge
per il
risanamento
della
città di
Napoli e
successivamente
nel 1888
fondata
la
Società
pel
Risanamento
di
Napoli.
Gabrici
si
occuperà
dello
studio
della
topografia
di
Napoli
tra il
1896 e
poi
1912-13,
studi
che
riunirà
nel 1951
in uno
scritto
più
organico
e
unitario
Contributo
archeologico
alla
topografia
di
Napoli e
della
Campania
in
“Monumenti
Antichi
dei
Lincei”,
XLI,
1951,
pp.
553-674.
Il nome
di
Gabrici
rimane
ancora
legato
nell’area
campana
soprattutto
in
riferimento
agli
scavi di
Cuma.
Nacque
così nel
1912 in
“Monumenti
Antichi
dei
Lincei”
Cuma,
un
grande
corpus
organico
che
diede
una
visione
completa
sulla
antica
città.
[7]
Gabrici
giunse
in un
momento
in cui
il
museo,
sembrava
risollevarsi
grazie
al nuovo
riassetto
degli
istituti
archeologici
e
artistici
voluto
da
Corrado
Ricci,
Direttore
Generale
delle
Antichità
e Belle
Arti,
che
conferì
la
carica
di
direttore
del
museo a
Giuseppe
Angelo
Colini.
Cfr.
Villa
Giulia
dalle
origini
al 2000,
guida
breve,
a cura
di A.M.
Moretti
Sgubini,
Soprintendenza
Archeologica
per
l’Etruria
Meridionale,
Roma
2000,
pp.
43-44.
[8]
E.
Gabrici,
Topografia
e
Numismatica
dell’antica
Himera
(e di
Terme),
in “Atti
dell’Accademia
di
Archeologia,
Lettere
e Belle
Arti” ,
XVII,
Napoli
1894,
pp.
109-117.
[9]
E.
Gabrici,
Selinunte:
Temenos
di
Demeter
Malophoros
alla
Gaggera.
Relazione
preliminare
degli
scavi
eseguiti
nel 1915,
in
“Notizie
degli
Scavi di
Antichità”,
1920,
pp.
67-91.
[10]
Id.,
Per la
storia
dell’architettura
dorica
in
Sicilia,
in
“Monumenti
antichi
dei
Lincei”,
XXXV,
1933,
pp.
139-250.
[11]
E.
Gabrici,
Studi
archeologici
selinuntini,
in
“Monumenti
antichi
dei
Lincei”,
XLIII,
1956,
pp.
206-391.
[12]
Id.,
La
materia
del
cantare
di Elena
nel
soffitto
Chiaramonte,
in
“Giornale
di
Sicilia”,
a.
LXIII,
n. 202,
1923.
[13]
E.
Gabrici,
Il
soffitto
istoriato
nel
Palazzo
Steri di
Palermo,
in “La
Siciliana”,
IV,
1928,
pp.
78-85.
[14]
E.
Gabrici,
E. Levi,
Lo
Steri di
Palermo
e le sue
pitture,
Treves,
Milano
1932.
[15]
E.
Gabrici,
Il
Palazzo
di Re
Ruggero,
“Atti
dell’Accademia
di
scienze,
Lettere
ed Arti
di
Palermo”,
1923,
pp.
3-15.
[16]
Id.,
L’Abbozzo,
in
“Atti
dell’Accademia
di
Scienze,
Lettere
ed Arti
di
Palermo”,
vol.
XIX,
fasc.
III,
1935,
pp.
3-11.
[17]
E.
Gabrici,
Riflessioni
sul
travaglio
dell’arte
figurativa
contemporanea,
in “Atti
dell’Accademia
di
Scienze,
Lettere
ed Arti
di
Palermo”,
1946-47,
pp.
3-17.
[18]
Per
questi
aspetti
si veda
C.
Caruso,
Gli
scritti
teorici
di
Ettore
Gabrici,
in corso
di
stampa.
[19]
E.
Gabrici,
Collesano
nella
storia
della
maiolica
siciliana,
in
“Giglio
di
Roccia”,
ottobre-novembre
1939,
pp. 6-7.
[20]
Id.,
Appunti
sulle
officine
ceramiche
di
Palermo
e
Sciacca,
in
“Giglio
di
Roccia”,
1961,
pp.
11-13.
[21]
G.C.
Sciolla,
La
riscoperta
delle
arti
decorative
in
Italia
nella
prima
metà del
Novecento.
Brevi
considerazioni,
in
Storia,
critica
e tutela
dell’arte
nel
Novecento.
Un’esperienza
siciliana
a
confronto
con il
dibattito
nazionale,
atti del
convegno
internazionale
di studi
in onore
di Maria
Accascina
(Palermo-Erice,
2006), a
cura di
M.C. Di
Natale,
Sciascia,
Caltanissetta
2007,
pp.
51-58.
[22]
Nello
stesso
anno
ottiene
l’incarico
per
l’insegnamento
di
Archeologia
presso
l’Università
degli
Studi di
Palermo,
mentre
nel 1927
copre la
cattedra
di
Archeologia
e Storia
dell’arte
antica
rimanendo
a
insegnarvi
fino al
pensionamento
del
1939.
[23]
«Il 25
decorso
aprile,
nella
sede
dell’Istituto
in
Castel
S.
Angelo,
fu
tenuta
una
solenne
commemorazione
in onore
del
compianto
presidente
professore
Salinas.
La mesta
cerimonia
ebbe
principio
con
brevi
parole
del Cav.
Martinori
vice
presidente
dell’Istituto
Italiano
di
Numismatica
[…],
prese la
parola
il
professore
Bormann
[…]
legato
da
un’amicizia
più che
cinquant’enne
[…].
Tenne
poi un
discorso
commemorativo
il
professore
G. De
Petra
dell’Università
di
Napoli.
Con
parola
elevata
e
intensa
commozione
rievocò
la
nobile e
cara
figura
dell’amico
carissimo,
come
niun
altro
avrebbe
potuto
fare,
stretto
d’amicizia
com’era
a lui da
intima e
quasi
fraterna
dimestichezza
da
comunanza
di studi
fin da
giovinezza
[…]», in
“Rivista
Italiana
di
Numismatica
e
Scienze
affini”,
vol.
XXVII,
f. II,
1914,
pp.
294-295.
[24]
In
“Rivista
Italiana
di
Numismatica
e
Scienze
Affini”,
vol.
XXVII,
fascicolo
IV,
1914, p.
486.
[25]
Archivio
Centrale
di Stato
- Roma,
Ministero
della
Pubblica
Istruzione,
Direzione
Generale
Antichità
e Belle
Arti,
Divisione
I,
1908-1924
[da ora
ACS,
AA.BB.AA.
Div. I,
1908-1924],
Busta n.
208,
Sguardo
agli
uffici,
alle
collezioni,
al
fabbricato,
31
agosto
1914.
[26]
Ibidem.
[27]
ACS,
AA.BB.AA.
Div. I,
1908-1924,
Busta n.
208,
Il
fabbricato
del
Museo
Nazionale
di
Palermo,
9
dicembre
1914.
[28]
Ibidem.
[29]
Ibidem.
[30]
ACS,
AA.BB.AA.
Div. I,
1908-1924,
Busta n.
208,
Lo stato
delle
collezioni,
provvedimenti
urgenti,
10
dicembre
1914.
[31]
Ibidem.
[32]
ACS,
AA.BB.AA.
Div. I,
1908-1924,
Busta n.
208,
L’archivio
del
Museo
Nazionale
di
Palermo,
10
dicembre
1914.
[33]
E.
Gabrici,
Selinunte
e Motye:
frammenti
epigrafici,
in
“Notizie
degli
Scavi di
Antichità”,
1917,
pp.
341-348.
[34]
ACS,
AA.BB.AA.
Div. I,
1908-1924,
Busta n.
676,
Selinunte,
frammenti
di un
grande
Gorgoneion
in
terracotta
a
rilievo,
10
giugno
1916. Si
veda
anche E.
Gabrici,
Il
Gorgoneion
fittile
del
tempio C
di
Selinunte,
in “Atti
della
Accademia
di
Scienze,
Lettere
ed Arti
di
Palermo”,
1919,
pp.
3-15.
[35]
Le
immagini
del
presente
saggio
sono
pubblicate
su
concessione
del
Ministero
per i
Beni
Culturali,
Archivio
Centrale
dello
Stato di
Roma (n.
1046/2012).
[36]
Ivi, p.
3.
[37]
E.
Gabrici,
Vasi
greci
inediti
dei
Musei di
Palermo
e
Agrigento,
“Atti
della
Accademia
di
Scienze,
Lettere
ed Arti
di
Palermo”,
XV,
1928/29,
pp.
3-21.
[38]
Id.,
La
Collezione
Casuccini
del
Museo
Nazionale
di
Palermo,
“Studi
Etruschi”,
II,
1928,
pp.
3-29. Si
vedano
anche i
saggi in
La
Collezione
Casuccini,
ceramica
attica
etrusca
e
falisca,
«L’Erma»
di
Bretschneider,
Roma
1996 e
il più
recente
Gli
Etruschi
a
Palermo.
Il Museo
Casuccini,
catalogo
della
mostra a
cura di
A.
Villa,
Silvana
Editoriale,
Cinisello
Balsamo
2012.
[39]
ACS,
AA.BB.AA.
Div. I,
1908-1924,
Busta n.
676,
Ispezione
al Museo
Nazionale
di
Palermo,
24
agosto
1916.
[40]
Ivi,
Busta n.
1025,
Cinquantenario
del
Museo e
onoranze
ad A.
Salinas,
26
maggio
1922.
[41]
Per gli
affreschi
si veda
M.C. Di
Natale,
Tommaso
De
Vigilia.
I,
“Quaderni
dell’A.F.R.A.S.”,
n. 4,
i.l.a.
palma,
Palermo
1974,
pp.
25-28;
L.
Sarullo,
Dizionario
degli
artisti
siciliani.
Pittura,
vol. II,
ad
vocem
De
Vigilia
Tommaso,
a cura
di M.C.
Di
Natale,
Novecento,
Palermo
1993,
pp.
163-165.
Per le
vicende
conservative
cfr. L.
Spatola,
Gli
affreschi
di
Risalaimi.
Vicende
conservative
in età
sabauda,
in
Gli
uomini e
le cose.
I.
Figure
di
restauratori
e casi
di
restauro
in
Italia
tra
XVIII e
XX
secolo,
atti del
Convegno
nazionale
di studi
(Napoli,
18-20
aprile
2007), a
cura di
P. D’Alconzo,
Clio
Press,
Napoli
2007,
pp.
219-239.
[42]
ACS,
AA.BB.AA.
Div. I,
1908-1924,
Busta n.
1026,
Affreschi
di
Tommaso
De
Vigilia
nel
Museo
Nazionale,
9
ottobre
1916.
[43]
Ibidem.
[44]
ACS,
AA.BB.AA.
Div. I,
1908-1924,
Busta n.
1026,
Restauri
a due
affreschi
del De
Vigilia,
8
febbraio
1917.
[45]
ACS,
AA.BB.AA.
Div. I,
1908-1924,
Busta n.
1026,
Preventivo
interventi
di
restauri,
17
febbraio
1917.
[46]
Cfr. V.
Abbate,
Gioacchino
Di Marzo
e la
fortuna
dei
“primitivi”
a
Palermo
nell’Ottocento,
in
Gioacchino
Di Marzo
e la
Critica
d’Arte
nell’Ottocento
in
Italia,
Atti del
Convegno
a cura
di S. La
Barbera,
Bagheria
2004,
pp.
181-198.
[47]
ACS,
AA.BB.AA.
Div. I,
1908-1924,
Busta n.
675,
Restauro
dipinto
Andrea
Del
Sarto,
13
novembre
1917.
[48]
ACS,
AA.BB.AA.
Div. I,
1908-1924,
Busta n.
1026,
Preventivo
interventi
di
restauri,
28
novembre
1919.
[49]
Ivi,
Busta n.
1026,
Intervento
di
restauro,
26
novembre
1919.
[50]
Per la
cui
figura
rinvio a
B.
Molajoli,
in La
donazione
Mario De
Ciccio,
Soprintendenza
alle
Gallerie,
Napoli
1958,
pp.
5-13.
[51]
ACS,
AA.BB.AA.
Div. I,
1908-1924,
Busta n.
676,
Proposta
d’acquisto
di un
vaso
greco,
16
dicembre
1915.
[52]
ACS,
AA.BB.AA.
Div. I,
1908-1924,
Busta n.
676,
Oreficerie
antiche,
21
febbraio
1917.
[53]
Ivi,
Busta n.
1025,
Proposta
d’acquisto
vasi di
Centuripe,
19
luglio
1921.
[54]
Ibidem.
[55]
ACS,
AA.BB.AA.
Div. I,
1908-1924,
Busta n.
1025,
Telegramma/i>,
30
agosto
1921.
[56]
Ivi,
Busta n.
1026,
Vasi
greci
della
Necropoli
di
Lipari,
30
luglio
1920.
[57]
ACS,
AA.BB.AA.
Div. I,
1908-1924,
Busta n.
1026,
Vasi
greci
della
Necropoli
di
Lipari,
7
settembre
1920.
[58]
Il
sarcofago
era
stato
pubblicato
senza
alcuna
indicazione
relativa
alla
provenienza
in V.
Tusa,
I
sarcofagi
romani
in
Sicilia,
Accademia
di
Scienze,
Lettere
e Arti,
Palermo
1957,
pp.
147-148.
[59]
ACS,
AA.BB.AA.
Div. I,
1908-1924,
Busta n.
675,
Sarcofago
Romano,
21
febbraio
1917.
[60]
La
Commissione
è
composta
dal
direttore
Ettore
Gabrici,
da
Vincenzo
Pitini e
da
Francesco
Valenti.
[61]
Per
l’attività
degli
antiquari
cfr. A.
Lavagnino,
I
Daneu:
una
famiglia
di
antiquari,
Sellerio
Editore,
Palermo
2003.
[62]
ACS,
AA.BB.AA.
Div. I,
1908-1924,
Busta n.
1026, 5
dicembre
1920.
[63]
La
fiasca è
stata
pubblicata
da
Luciana
Arbace
in
Wunderkammer
siciliana
alle
origini
del
museo
perduto,
catalogo
della
mostra
(Palermo
2001-2002)
a cura
di V.
Abbate,
scheda
n.
II.47,
Electa
Napoli,
Napoli
2001, p.
221, con
un’indicazione
di
provenienza
dal
Museo di
S.
Martino
delle
Scale
non
pertinente.
[64]
ACS,
AA.BB.AA.
Div. I,
1908-1924,
Busta n.
1027, 12
luglio
1923.
[65]
Ibidem.
[66]
Ivi,
Busta n.
1026.
Nella
richiesta
di
acquisto
la
maiolica
è datata
agli
inizi
del XVII
secolo.
[67]
Nel
1912,
l’abito
era
stato
offerto
in
vendita
a poco
più di
mille
lire
dalla
signora
Vita
Barbacia.
Salinas
lo
comprò,
anticipando
personalmente
la
cifra, e
non
venendo
mai
rimborsato
dal
ministero.
Come
altri
oggetti
acquistati
da
Salinas,
l’abito
diventa
oggetto
d’interesse
degli
eredi di
Salinas
che ne
reclamano
la
proprietà.
Il
ministero
tramite
Gabrici
propone
l’acquisto
della
gonna
per un
prezzo
di 2.500
lire,
mentre
Gabrici
propose
la
restituzione
della
veste
agli
eredi
dai
quali in
un
secondo
momento
lo Stato
l’avrebbe
riacquistata,
cosa che
avvenne
nel
maggio
1923.
L’intera
vicenda
testimonia
il vivo
interesse
e la
rivalutazione
per
questa
tipologia
di
manufatti
provenienti
da Piana
degli
Albanesi.
Cfr. M.
La
Barbera,
Il
costume
e i
gioielli
di Piana
degli
Albanesi,
in
Tracce
d’Oriente.
La
tradizione
liturgica
greco-albanese
e quella
latina
in
Sicilia,
a cura
di M.C.
Di
Natale,
Plaza
Fondazione,
Palermo
2007,
pp.
111-131.
[68]
Per il
pittore
(1579-1647)
si veda
M.P.
Demma (a
cura
di),
Pietro
D’Asaro
il
«Monocolo
di
Racalmuto»
1579-1647,
catalogo
della
mostra (Racalmuto,
9
novembre
1984-13
gennaio
1985),
Arti
grafiche
Siciliane,
Palermo
1984,
scheda
n. 12,
p. 57.
[69]
ACS,
AA.BB.AA.
Div. I,
1908-1924,
Busta n.
1025,
Proposta
d’acquisto
di un
dipinto
di
Pietro
D’Asaro,
18
aprile
1922.
Dalla
consultazione
di tale
documento
si
apprende
per la
prima
volta la
data di
acquisizione
della
tela
oggi
conservata
nei
depositi
della
Galleria
Interdisciplinare
Regionale
della
Sicilia
di
Palermo.
[70]
Per
l’attività
di
Mauceri
rimando
a
Enrico
Mauceri
(1869-1966).
Storico
dell’arte
tra
connoisseurship
e
conservazione,
atti del
convegno
internazionale
(Palermo,
27-29
settembre
2007) a
cura di
S. La
Barbera,
Flaccovio,
Palermo
2009.
[71]
ACS,
AA.BB.AA.
Div. I,
1908-1924,
Busta n.
1026,
Richiesta
di
indagini
di un
dipinto
denunciato
dall’antiquario
Sarrica,
20
gennaio
1920.
[72]
Il
soprintendente
Mauceri,
non
credendo
alle
parole
dell’antiquario,
riteneva
possibile,
invece,
che
Sarrica
fosse il
vero
proprietario
dell’opera
probabilmente
prelevata
da
qualche
chiesa e
che
cercava
di
venderla
allo
Stato
con
questo
espediente.
[73]
ACS,
AA.BB.AA.
Div. I,
1908-1924,
Busta n.
1026,
Dipinto
di
Nicolò
da
Pettineo,
11
novembre
1921.
[74]
A
distanza
di
alcuni
mesi,
vediamo
Gabrici
interessarsi
ancora
alle
trattative:
non
ricevendo
il
decreto
dal
Ministero
per
avviare
i
pagamenti
a favore
del
proprietario,
Gabrici
solleciterà
costantemente
l’iter
burocratico,
concluso
dopo sei
mesi con
la
registrazione
del
contratto
alla
Corte
dei
Conti.