Nella
premessa
a una
delle
sue
opere
fondamentali,
Costruzione
della
critica
d’arte
(1955
[1]
)
– che
rappresenta
idealmente
la
continuazione
del
volume
Genesi e
paternità
della
critica
d’arte
(1951
[2]
)
– Luigi
Grassi
sottolineava
«l’importanza,
o la
esclusiva
validità,
dell’attività
critica
dovuta
al
giudizio
immediato,
frammentario,
istintivo
e però
aderente
al
significato
di
un’opera
d’arte,
quale è
quello
formulato
felicemente
da
artisti
o
poeti»,
sebbene
si
tratti
pur
sempre
di
«critica
frammentaria,
intuizione
isolata,
di
ordine
eccezionale»,
ma che,
tuttavia,
concorre,
nella
brillante
metafora
della
«costruzione
dell’edificio
della
critica
d’arte»,
accanto
ai
contributi
estetici
e
storiografici,
al
procedimento
costruttivo
su cui
si fonda
la
moderna
storiografia
artistica
[3]
.
É in
questo
territorio
che si
inserisce
l’attività
di
Leonardo
Sciascia
nel
panorama
della
critica
d’arte,
che come
emerso
in
alcuni
studi
recenti
sul
rapporto
dello
scrittore
con le
arti
visive è
individuabile
–
appunto
– in una
tipologia
di
scritti
di
‘ordine
eccezionale’[4].
I
testi di
Sciascia
sull’arte
antica e
moderna,
distribuiti
in un
arco
temporale
che va
dal 1964
al 1987,
rivolti
principalmente
ad
artisti
e fatti
figurativi
siciliani
o
comunque
riconducibili
al
territorio
isolano,
nascono
come
interventi
e
articoli
sulla
stampa
periodica,
locale e
nazionale,
e come
presentazioni
a
monografie
d’arte.
Questi
interventi
consistono
principalmente
in
recensioni
o saggi
che
toccano
argomenti
siciliani
relativi
alla
cultura
figurativa
quattrocentesca
(Il
Maestro
del
Trionfo
della
Morte,
Antonello
da
Messina,
Francesco
Laurana,
Antonello
e
Domenico
Gagini)
o alla
questione
delle
influenze
caravaggesche
in
Sicilia
tra fine
Cinque e
inizio
Seicento
(Filippo
Paladini,
Pietro
d’Asaro).
Si
tratta
di
scritti
comunque
riconducibili,
anche
sul
piano
degli
effetti
di una
attenzione
alle
vicende
culturali
coeve,
alle
mostre
storiche
siciliane
del
Novecento
(Antonello
da
Messina,
Messina
1953;
Paladini,
Palermo
1967;
Antonello
da
Messina,
Messina
1981;
Pietro
d’Asaro,
Racalmuto
1984;
Caravaggio,
Siracusa
1984), e
dove si
riscontrano,
in
alcuni
casi,
interessanti
riflessioni
sulle
problematiche
figurative
isolane,
parallelamente
alla
coeva
storiografia
artistica.
I
primi
significativi
scritti
appaiono
negli
anni
Sessanta
sul noto
quotidiano
palermitano
«L'Ora»,
periodico
che ebbe
un ruolo
fondamentale
nella
cultura
di
sinistra
siciliana
del
Novecento,
diretto
da
Vittorio
Nisticò[5].
Il
giornale
palermitano,
per
quanto
concerne
le
pagine
di
cultura,
raccoglieva
articoli
e
interventi
delle
più
prestigiose
firme di
quegli
anni,
con un
particolare
riguardo
alle
arti
figurative
(si
pensi,
ad
esempio,
agli
scritti
di Maria
Accascina,
Renato
Guttuso,
Franco
Grasso),
con
recensioni
e brevi
interventi
di
critica
d'arte[6].
Tra i
primi
spunti
critici
e
giudizi,
sparsi
nei
diversi
articoli
pubblicati
nel
quotidiano
“L’Ora”,
che
contribuiscono
a
illuminarci
sulla
sua
visione
della
storia
artistica
siciliana
e, in
particolare,
in
merito
alle
commistioni
di
culture
diverse,
significativa
appare
questa
riflessione
sui
monumenti
normanni:
«I
monumenti
che ci
restano
del
regno
normanno
di
Sicilia
hanno
come
peculiarità
morale
ed
estetica
la
tolleranza
religiosa
e
politica
in cui
si sono
realizzati,
il
‘dialogo’
tra le
culture
mediterranee
da cui
originalmente
(e
finora
irripetibilmente)
sono
sorti»[7].
Per
Sciascia
la
cultura
figurativa
siciliana
nell’età
medievale
aveva
subìto
questo
processo
di
ibridazione
costante,
parallelamente
alle
diverse
dominazioni
e
influssi
di
culture
eterogenee.
Se ne ha
ulteriore
esempio
nella
presentazione
al
Libro
Siciliano
(fig. 1)
di
Giuseppe
Bellafiore
e
Vincenzo
Tusa in
cui,
citando
la
celebre
opera di
Gioacchino
Di
Marzo,
Delle
Belle
Arti in
Sicilia[8],
lo
scrittore
afferma:
«Ammesso
che si
possa
parlare
di una
civiltà
siciliana
(poichè
una
civiltà
non può
lungamente
coesistere,
senza
neutralizzarle
o
trasformarle
in
effetti
opposti
alla
loro
origine
e
natura,
con
forme e
fenomeni
di
inciviltà)
questa
appunto
risulta
dalla
compenetrazione
e
fusione
di
civiltà
diverse»[9].
Tuttavia,
tali
processi
di
vivace
contaminazione
culturale
e
artistica
–
aggiunge
Sciascia,
sulla
scia di
Denis
Mack
Smith[10]
e di
Rosario
Assunto[11]
–
emergono
soprattutto
in
«sovrastruttura,
al
vertice»,
secondo
un
disegno
politico
dei re
normanni
rivolto
a
«glorificare
esteticamente
l’istituto
monarchico»
senza
stravolgere
l’assetto
socio-culturale
precendente[12].
Ne
consegue,
in
ultimo,
che
«l’arte
arabo-normanna
era la
creazione
artificiale
di un
despotismo
illuminato,
non una
vera
compenetrazione
vitale
di per
se
stessa»[13]
e dal
basso. E
qui, il
sottile
relativismo
sciasciano
dimostra
già una
singolare
concezione
del
rapporto
tra arte
e
politica,
tra
strutture
e
sovrastrutture,
tra
cultura
e
potere.
Aspetto,
come
noto,
che
rappresenta
una
chiave
interpretativa
non
trascurabile
in tutti
i suoi
scritti,
compresi
quelli
sull’arte.
Nel
1965, su
“L’Ora”,
esce una
breve
nota di
‘rettifica’
riguardante
il
Busto di
Pietro
Speciale,
opera la
cui
attribuzione
oscillava
in
quegli
anni tra
Domenico
Gagini e
Francesco
Laurana[14].
La nota,
facendo
riferimento
a un suo
testo
precedente,
apparso
sempre
su
“L’Ora”,
nel
quale lo
scrittore
si
interrogava
in
merito
all’ubicazione
del
manufatto,
ci
mostra
uno
Sciascia
lettore
di
Gioacchino
Di Marzo[15]
– la cui
consultazione
dell’opera
in due
volumi
sui
Gagini[16]
relativamente
alla
collocazione
del
busto,
assegnato
dallo
studioso
a
Domenico
Gagini,
lo porta
a un
fraintendimento
(il Di
Marzo,
giustamente,
non
poteva
segnalare
il luogo
di
conservazione
dell’opera,
essendo
di
collezione
privata),
che gli
viene
chiarito
dalla
spiegazione
del
senatore
Simone
Gatto
sull’affido
temporaneo
dell’opera
a
Palazzo
Abatellis,
dove era
esposta.
Quest'errore,
comunque,
mi ha
portato
la
conoscenza
di un
altro
ritratto
di
Pietro
Speciale,
un
bassorilievo,
che si
trova a
Trapani
nella
collezione
Barresi:
ed è
riprodotto
nell'opuscolo
«Sculture
inedite
o poco
note del
Laurana
di
Domenico
e
Antonello
Gagini
nel
trapanese»
che
l'autore,
Vincenzo
Scuderi,
mi ha
gentilmente
inviato.
Debbo
dire,
però,
che il
ritratto
che c'è
a
Militello,
e di cui
ho
parlato,
è molto
più
forte: e
se
quello
di
Trapani
è
attribuito
a
Domenico
Gagini,
è
possibile
quello
di
Militello
sia
d'altra
mano,
del
Laurana
probabilmente[17].
L’opera
di
Militello
in Val
di
Catania[18]
affascinò
lo
scrittore
al punto
da
occuparsene
in un
saggio
più
ampio
apparso
su
“l’Espresso”
nel 1981
e
riedito
nel 1989[19],
dove,
ricostruendo
con quel
suo
inconfondibile
stile
narrativo,
ma
fondato
su
solidissime
basi
storiografiche
- e non
senza
punte di
ironia –
le
vicende
della
famiglia
Speciale,
torna
sulla
querelle
attributiva
della
scultura
divisa
tra uno
dei
Gagini e
Laurana.
Sciascia
–
(«senza
competenza
alcuna e
soltanto
per
sensazione»)
- lo
ritiene
di
Francesco
Laurana,
in base
a un
ragionamento
di
carattere
stilistico
e a un
confronto
con il
Busto
di
Eleonora
d’Aragona
di
palazzo
Abatellis:
[...]
nulla
che ho
visto
dei
Gagini
mi porta
a
credere
che
questo
prodigioso
ritratto
sia
uscito
dalla
loro
officina.
La
stessa
pietra,
di un
caldo
colore
ambrato,
fa
pensare
al gusto
del
Laurana,
al suo
cercare
nel
marmo
una
luce,
una
tonalità,
una
ispirazione,
un
effetto:
e si
pensi a
quel
ritratto
di
Eleonora
d’Aragona
in cui
la
luminosità
della
materia
dà il
senso di
una
luminosità
interiore[20].
Discorso
questo,
sulla
corrispondenza
tra
luminosità
formale
e
luminosità
iconologica,
che lo
porta,
seguendo
naturalmente
aspetti
ben noti
nella
critica
figurativa
di
quegli
anni[21],
ad
accostare
il
ritratto
di
Pietro
Speciale
con il
Ritratto
d’Ignoto
di
Antonello
del
Museo
Mandralisca
di
Cefalù
(fig.
2),
aggiungendo,
tuttavia,
un
giudizio
sul
carattere
rappresentativo
e
universale
delle
due
opere:
Ritratti,
questo
di
Antonello,
questo
che
diciamo
del
Laurana,
in cui
c’è un
carattere,
una
storia –
e non
soltanto
individuale,
ma di
un’epoca.
Ritratti
che sono
una
visione
della
vita»[22].
Negli
scritti
su
Laurana,
Sciascia
mette in
risalto
la
‘familiarità’
tipica
dei
modelli
dell’opera
dello
scultore
dalmata
e, a
proposito
del
Busto di
Gentildonna
detto di
Eleonora
d’Este
di
Palazzo
Abatellis
(fig.
3), su
cui
tornerà
in
diverse
occasioni,
afferma:
[...]
pochissime
opere, e
per noi
questa
primamente,
valgono
a dare
idea
della
scultura
in
assoluto,
della
scultura
“oggetto
eterno”.
Aggiungendo
più
avanti
che:
[...] la
straordinaria
forza
del
pezzo di
Laurana
sta
proprio
in
questo:
che
totalmente
esprimendola,
“facendo
del
marmo
quel che
il marmo
voleva”,
stupendamente
ha
espresso
la norma
della
“vita
che
pensa”[23].
L’artista
che più
affascinò
Sciascia,
culturalmente
e
formalmente,
fu
certamente
Antonello
da
Messina:
Scegliere
nell’intera
storia
della
pittura
un
pittore,
un
quadro,
non è
per me
(e credo
per
ognuno
che
quella
storia,
più o
meno
sommariamente,
conosca)
difficile.
Nulla di
più
facile,
anzi,
che
rispondere
con un
solo
nome, un
solo
titolo,
alla
richiesta
di
esprimere
una
preferenza
assoluta.
La
risposta
affiora
immediata,
quasi
automatica.
Se mi
chiedessero
quale
pittore,
senza
esitazione
risponderei:
Antonello.
E se mi
chiedessero
di un
solo
quadro,
altrettanto
sicuramente
risponderei:
il
“Ritratto
di
ignoto”
che si
trova al
Museo
Mandralisca
di
Cefalù[24].
Nel 1967
esce il
primo
scritto
– forse
uno dei
saggi
più
illuminanti
mai
scritti
sul
contesto
culturale
in cui
operava
il
pittore
messinese
– quale
presentazione
al
volume
curato
da
Gabriele
Mandel
della
serie
dei
Classici
dell’Arte
Rizzoli
per la
Biblioteca
Universale
delle
Arti
Figurative,
diretta
da Paolo
Lecaldano,
e di cui
fu
consulente
anche
Carlo
Ludovico
Ragghianti.
Il
testo,
intitolato
L’ordine
delle
somiglianze,
offre
alcuni
spunti
sugli
elementi
costitutivi
dell’arte
e della
letteratura
dei
siciliani
(il
rapporto
tra la
roba e
l’anima,
che per
i
siciliani
a
partire
da
Antonello,
dice
Sciascia,
sono la
stessa
cosa,
fatti
oggettivi
come la
morte)
[25].
Partendo
dagli
spunti
biografici
sul
pittore
siciliano,
lo
scrittore,
citando
il
celebre
quanto
fantasioso
passo
della
biografia
vasariana
relativo
alla
vita
mondana
condotta
da
Antonello
nell’ipotetico
viaggio
a
Venezia[26],
viene
suggestionato
al punto
da
elaborare
un
suadente
parallelismo
in campo
letterario
con i
personaggi
di
Brancati:
E
viene la
tentazione
di
cercare
riscontro
a questa
“persona
molto
dedita
a'
piaceri
e tutta
venerea”,
alla
distanza
di
cinque
secoli,
nei
personaggi
di
Brancati,
in tutti
quei
personaggi
che
pensano
“sempre
a un
cosa, a
una sola
cosa,
quella!”,
e più
precisamente
a quelli
del Don
Giovanni
in
Sicilia:
“Ma il
verme
dei
viaggi
era
entrato
nei loro
cervelli,
e non
smetteva
di
roderli...Anche
il
piacere
di
restare
a letto,
dopo
essersi
svegliati
dal
sonno
pomeridiano,
e di
sprofondare
gli
occhi
nel
buio,
ignorando
se si
guardi
lontano
o
vicino,
era
guastato
dal
pensiero
che, in
quel
preciso
momento,
i caffè
di via
Veneto
si
riempivano
di
donne”[27].
Il
rimando
a
riferimenti
letterari
è un
elemento
che
ricorre
spesso
negli
scritti
di
Sciascia
sull’arte
siciliana,
e se ciò
può
apparire
scontato
e
persino
banale
per uno
scrittore
come
lui, un
po’ meno
lo è il
concetto
dell’importanza
della
caratterizzazione
geografica
nel
considerare
le opere
d’arte,
che lo
scrittore
applica
con
fermezza
su
Antonello,
ma che
adotterà
frequentemente
anche
negli
altri
scritti
sull’arte.
Certo,
il suo è
un punto
di vista
di
narratore
e di
conoscitore
della
‘sicilianità’
tout
court,
letteraria
e
antropologica,
nel
quale
scrittori,
artisti,
poeti,
sono
visti
nel loro
rapporto
contestuale
con la
storia
culturale
della
Sicilia.
Per
Sciascia,
come
emerge
chiaramente
in molte
sue
pagine
su
artisti
siciliani,
ogni
artista
esprime
nella
propria
opera,
sul
piano
formale,
quei
tratti,
quegli
elementi
di
cultura,
anche
popolare,
che
caratterizzano
un
luogo;
in
merito
Natale
Tedesco
parlerà,
giustamente,
di
‘coscienza
dei
luoghi’[28].
Al
riguardo,
risultano
esemplari
due
passi,
uno, nel
quale,
descrivendo
il
San
Sebastiano
di
Dresda
(fig.
4),
afferma
che
[...]
nella
donna
che si
affaccia
da una
quinta
col
bambino
in
braccio,
nelle
figure
che si
affacciano
ai
terrazzi,
nelle
graste e
nelle
grate,
in
quella
borraccia
appesa a
lato
alla
finestra
alta,
c'era
un'aria
di casa,
di
pomeriggio
messinese.
Si
direbbe
che c'è
scirocco:
quello
scirocco
da cui
l'inglese
Brydone,
a
Messina,
si
sentiva
trafitti
i nervi
quasi
quanto
san
Sebastiano
dalle
frecce.
E l'uomo
stramazzato
nel
sonno
sul
pavimento
nudo, la
scena
galante
che la
coppia
recita
sotto il
pergolato,
le
nuvole
ferme,
la luce:
tutto
sembra
dire
della
snervata
ora del
pomeriggio
sciroccoso.
Mentre,
poco
dopo, il
concetto
è
espresso
in
maniera
più
esplicita
e con
tono
perentorio:
Antonello,
dunque:
e il suo
essere
siciliano,
come
personaggio
e come
artista;
come
uomo
insomma
la cui
vita, la
cui
visione
della
vita, il
cui modo
di
esprimere
nell'arte
la vita,
sono
irreversibilmente
condizionati
dai
luoghi
dagli
ambienti
dalle
persone
tra cui
si trova
a
nascere
e a
passare
l'infanzia,
l'adolescenza.
Un
critico
letterario
dei
giorni
nostri
ha
dichiarato
che non
riesce a
capire
come si
possa
legare
ad un
luogo
una
vita, e
l'opera
di tutta
una
vita;
per
parte
nostra
non
riusciamo
a capire
come si
possa
far
critica
senza
aver
capito
questo
inalienabile
e
inesauribile
rapporto,
in tutte
le sue
infinite
possibilità
di
moltiplicarsi
e
rifrangersi,
di
assottigliarsi,
di
mimetizzarsi,
di
essere
rimosso
e
nascosto.
Nessuno
è mai
riuscito
a
rompere
del
tutto
questo
rapporto,
a
sradicare
completamente
questa
condizione;
e i
siciliani
meno
degli
altri[29].
Più
avanti,
lo
scrittore,
in un
passo
della
Cronachetta
siciliana
dell’estate
1943
di Nino
Savarese
– edito
nel 1945
dalla
Sandron
a Roma,
e poi
riedito
nel 1963
da
Salvatore
Sciascia
a
Caltanissetta
– che
descriveva
le donne
siciliane
poco
prima
della
fine
della
seconda
guerra
mondiale,
individua
una
perfetta
rispondenza
con i
personaggi
femminili
delle
‘madonne’
dipinte
da
Antonello:
In
queste
donne la
pudica
timidezza,
che
contrasta
col
calore
del
temperamento,
fa
sbocciare
sui loro
volti
una
grazia
contrastata
tutta
particolare...Col
volto
stretto
tra le
falde
della
mantellina,
essa par
chiusa
in
un’armatura
che sa
di
chiostro
e
d’ovile.
Questo
classico
copricapo,
rende la
fragranza
delle
sue
guance e
l’ardore
dei suoi
occhi,
favolosi
e
irraggiungibili.
Poche
descrizioni,
come
questa
di
Savarese
–
acutamente
selezionata
da
Sciascia
-,
rendono
la
caratterizzazione
dei
modelli
scelti
da
Antonello
nelle
sue
opere e,
soprattutto,
per le
‘Annunciate’.
A
proposito
dell’Annunciata
di
Palermo
(fig.
5),
infatti,
lo
scrittore,
significativamente,
aggiunge:
[...] si
noti la
piega
della
mantellina
che
scende
al
centro
della
fronte:
che per
il
pittore,
al
momento,
avrà
avuto un
valore
soltanto
compositivo,
ma a noi
dice di
un capo
conservato
nella
cassapanca
tra gli
altri
del
corredo,
e tirato
fuori
nei
giorni
solenni,
nelle
feste
grandi;
e si
noti
anche
l’incongruenza,
stupenda,
della
destra
sospesa
nel
gesto
ieratico
(mentre
è del
tutto
naturale
al
soggetto
–
diciamo
alla
donna
contadina
– il
gesto
della
sinistra
a
chiudere
i lembi
della
mantellina);
e
l’altra
incongruenza
di quel
libro
aperto,
sul
quale si
ha il
dubbio
che mai
gli
occhi
della
giovane
donna
potrebbero
posarsi
a
cogliere
le
parole e
il
senso; e
poi il
mistero
del
sorriso
e dello
sguardo,
in cui
aleggia
carnale
consapevolezza
e nessun
rapimento,
nessuno
stupore
(se non
si
vuole,
nel
sorriso
che
appena
affiora,
scorgere
magari
un’ombra
di
malizia)”[30].
Molti
anni
dopo,
nel 1981
– in
seguito
all’inaugurazione
della
mostra
del
Museo
Regionale
di
Messina
-
lo
scrittore
tornerà
ad
occuparsi
del
pittore
messinese
in un
articolo
apparso
su “La
Stampa”,
dove
ricorda
la
vivida
atmosfera
culturale
della
mostra
messinese
del
1953,
curata
da
Giuseppe
Vigni,
Giovanni
Carandente
e
Giuseppe
Fiocco,
cui
evidentemente,
come
lascia
supporre
il
testo,
egli
visitò:
Non ho
ancora
visto la
mostra
di
Antonello
che si è
aperta
giorni
addietro
a
Messina,
ma ho
ben vivo
il
ricordo
di
quella
del
1953.
Intorno
era
ancora
il
dopoguerra:
sicchè
la
mostra
era come
un
segno,
quieto e
luminoso,
della
pace
ritrovata,
della
ritrovata
Europa.
E dentro
il
simbolo
che era
la
mostra,
più
d'ogni
altro
era
simbolo
quel
piccolo
quadro
che era
arrivato
dalla
Romania:
«La
crocifissione»
di Sibiu.
Come era
finita,
quella
piccola
«crocifissione»
cui
faceva
da
sfondo
lo
Stretto
di
Messina,
in quel
remoto
paese
della
Romania?
E come
mai la
«cortina
di
ferro»
si era
aperta a
prestarla
alla
lontana
patria
del
pittore?
Andando
per le
sale
della
mostra,
davanti
a quei
quadri
di
straordinario
splendore
e
vigore,
ci si
sentiva
come
dentro
una
dimensione
di
serenità,
di
libertà
e di
speranza[31].
Ma
ciò che
più
interessa
in
questa
sede, in
merito
alle
letture
sciasciane
nel
campo
della
storiografia
artistica,
è la
citazione
che,
sempre a
proposito
della
mostra
messinese,
fa del
longhiano
Frammento
Siciliano[32].
Pur
elogiando
il
celebre
studio
longhiano,
ne
contesta
la
considerazione
dello
iato
nella
cultura
figurativa
siciliana
precedente
ad
Antonello[33],
sostenendo
l’importante
precedente
del
Trionfo
della
Morte
(fig.
6), in
cui,
secondo
lo
scrittore
– sulla
scia
degli
articoli
di
Consoli
– non
era del
tutto da
escludere
il
probabile
intervento
del
pittore
messinese[34].
L’attenzione
di
Sciascia
al
celebre
affresco
risale
ai primi
anni
Settanta,
anni in
cui la
critica
specialistica
si
dibatteva
sulle
ipotesi
attribuzionistiche
(Crescenzio,
Spicre,
Pisanello,
Antonello
ecc..)
attraverso
incessanti
ricerche
documentarie
svolte
in
parallelo
con i
restauri
in corso
presso
l’Istituto
Centrale
di Roma[35].
Nel 1974
ne
scriverà
un ampio
articolo,
apparso
su
«L’Illustrazione
italiana»,
dove,
prendendo
in
analisi
le varie
ipotesi
avanzate
dagli
storici
dell’arte,
propone
un’interessante
osservazione
– sulla
scia di
una
fonte
inesauribile
quale il
Di Marzo
–
riguardo
al
valore
poetico
e
iconografico
del
dipinto
che
riconduce
a un
preciso
passo
dei
Trionfi
di
Petrarca[36]
(fig.
7):
Giustamente
il Di
Marzo
notava
come il
dipinto
muovesse
dalla
«idea
sublime
del
Petrarca».
E se
proviamo
a
leggere
il
Triumphus
Mortis
davanti
al
quadro,
scopriamo
che
anche
l’articolazione
figurativa
viene
dal
Petrarca:
e parte
dalla
donna
colpita
dalle
due
frecce –
una al
petto,
una al
collo –
e che è
poi
l’unica
donna
colpita
dalla
Morte.
«La
bella
donna e
le
compagne
elette /
tornando
da la
nobile
vittoria
/ in un
bel
drappelletto
ivan
ristrette;
/ poche
eran,
perché
rara è
vera
gloria,
/ ma
ciascuna
per sé
parea
ben
degna /
di poema
chiarissimo
e
d’istoria...»:
ed ecco
che la
Morte la
sceglie
e senza
dolore,
a
«fuggir
vecchiezza
e’ suoi
molti
fastidi».
La bella
donna
acconsente:
«ed ecco
da
traverso
/ piena
di morti
tutta la
campagna.../
Ivi eran
quei che
fur
detti
felici,
/
pontefici,
regnanti,
imperadori...».
E questo
«da
traverso»
è
impressionante
come si
ripeta
nel
dipinto,
nella
linea
leggermente
obliqua
dei «muertos
regogidos»
che
muove
dal
gruppo
che
possiamo
chiamare
dei
popolani-spettatori,
in cima
al quale
sono i
ritratti
del
pittore
e de suo
aiuto.
Per
questi
elementi,
e per
altri
che
intravediamo
(e per
esempio:
che nel
dipinto
trascorra
un’alba
di
primavera
- «l’ora
prima
era, il
dì sesto
d’aprile»),
sembra
non ci
sia da
dubitare
che il
pittore
abbia
preso
ispirazione
e
cognizione
dal
Trionfo
petrarchesco[37].
Lo
scrittore,
quindi,
individuava
nell’opera
l’intervento
di una
personalità
colta,
sostenendo,
inoltre,
che
l’ambientazione
è memore
di
alcune
pagine
del
Decameron
di
Boccaccio
e
precisamente
in quel:
[…]
vagheggiare
la morte
da una
specie
di “hortus
conclusus”,
di
rifugio,
di luogo
d’immunità:
per cui
il
piacere
dei
sensi e
dell’intelletto,
il gusto
della
vita, il
ricrearla
e
favoleggiarla
nella
parola,
nei
segni,
nei
colori,
ne sono
come
moltiplicati.[38]
Concludendo,
infine,
che:
[…] non
per
nulla il
pittore
si è
posto,
sereno,
in cima
al
gruppo
di
coloro
che
guardano
lo
spettacolo
della
Morte:
il che
può
anche
essere
considerato
come
molto
siciliano,
e a
favore
dell’attribuzione
a un
pittore
siciliano
di cui
il
giovane
Antonello
da
Messina
poteva
benissimo
essere
l’aiutante[39].
Nel
1983,
recensendo
il libro
di
Vincenzo
Consolo,
Il
ritratto
dell’ignoto
marinaio
(1976),
Sciascia,
riferendosi
al
celebre
dipinto
cefaludese
- «il
più
vigoroso
e
certamente
il più
misterioso
e
inquietante»-
si
sofferma
sulla
leggenda
degli
sfregi
che la
figlia
del
farmacista,
che
possedeva
l’opera
nell’Ottocento
prima di
venderlo
al
Barone
di
Mandralisca,
fece al
dipinto,
forse
perché
irritata
dallo
«sguardo
fisso,
persecutorio,
ironico
e
beffardo»
dell’effigiato.
Ma, nota
ancor
più
rilevante,
più
avanti
torna
sul
Frammento
Siciliano
di
Longhi,
intervenendo
sulla
querelle
sull’identità
del
personaggio
ritratto,
non
escludendo,
in
definitiva,
l’ipotesi
che si
tratti
del
primo
autoritratto
di
Antonello,
problema
tuttora
aperto[40].
Proveniente
dall’isola
di
Lipari,
quasi
che in
un’isola
soltanto
ci
fossero
dei
marinai,
all’ignoto
del
ritratto
fu data
qualifica
di
marinaio:
«ritratto
dell’ignoto
marinaio».
Ma altre
ipotesi
furono
avanzate:
che
doveva
essere
un
barone,
e
comunque
un
personaggio
facoltoso,
poiché
era
ancora
lontano
il tempo
dei temi
«di
genere»
(il che
non
esclude
fosse un
marinaio
facoltoso:
armatore
e
capitano
di un
vascello);
o che si
trattasse
di un
autoritratto,
lasciato
ai
familiari
in
Sicilia
al
momento
della
partenza
per il
nord.
Ipotesi,
questa,
ricca di
suggestione:
perché,
se da
quando
esiste
la
fotografia
i
siciliani
usano
prima di
emigrare
farsi
fotografare
e
consegnare
ai
familiari
che
restano
l’immagine
di come
sono al
momento
di
lasciarli,
Antonello
non può
aver
sentito
un
impulso
simile
e,
sommamente
portato
al
ritratto
com’era,
farsene
da sé
uno e
lasciarlo[41]?
A
partire
degli
anni
Sessanta,
Sciascia
si
mostra
sempre
più
sensibile
alla
politica
culturale
siciliana,
intervenendo
criticamente,
con
articoli
e
recensioni,
sulle
principali
mostre
di arte
antica e
moderna.
A questo
filone
appartengono
le
recensioni
su
quella
palermitana
su
Filippo
Paladini
del 1967[42],
quella
siracusana
su
Caravaggio
e il suo
influsso
in
Sicilia,
del 1984[43];
e,
infine,
quella
su
Pietro
D’Asaro
a
Racalmuto
dello
stesso
anno,
che lo
stesso
scrittore
promosse
in prima
persona[44].
Nel
1967,
per le
«Cronache
parlamentari
siciliane»[45],
esce un
breve
articolo
sulla
mostra
di
Filippo
Paladini
a
Palazzo
dei
Normanni
- che
estendeva
l’attenzione
critica
al
pittore
toscano,
anche in
relazione
all’influsso
caravaggesco[46]
-
suggerita
da
Brandi
all’Assemblea
Regionale
in
occasione
del
ventennale
dell’Autonomia
siciliana,
e curata
da Maria
Grazia
Paolini
e Dante
Bernini.
Sciascia,
nell’incipit
della
recensione,
elogia
la
scelta
di
Brandi
di far
anteporre
la
mostra
di
Paladini
a quella
di
Pietro
Novelli,
considerandola
più
rilevante
sul
piano
critico
per la
singolare
commistione
stilistica
operata
dal
pittore
toscano
in
Sicilia
(cultura
manierista
toscana
e
influssi
caravaggeschi).
Sulla
scia del
saggio
dello
storico
senese,
che
introduceva
la
mostra,
lo
scrittore
annovera
tale
passaggio
stilistico
tra le
‘unioni
impossibili’
della
cultura
figurativa
siciliana,
che si
attuò
«per una
condizione
di
ricettività
e
disponibilità
che è
nella
vita e
nella
cultura
siciliana»[47].
Tuttavia,
più
avanti,
lo
scrittore
aggiunge
alcune
considerazioni
alla
tesi
brandiana
in
merito
all’influenza
caravaggesca:
lo
storico
senese
considerava
tale
influsso
non in
chiave
di
totale
conversione
al
naturalismo,
ma quale
‘fortuito’
arricchimento
(segnatamente
ai
contrasti
chiaroscurali
e
all’uso
della
luce
funzionale)
della
matrice
manieristica
(sostenendo,
in
definitiva,
che il
Paladini
rappresentò,
semmai,
«l’ultima
luce del
manierismo
toscano»);
lo
scrittore,
invece,
tende a
inquadrare
Paladini
nell’ottica
di una
netta
conversione
al
naturalismo
caravaggesco,
che lui
spiega
quale
conseguenza
della
‘vocazione
al
realismo’
per
tradizione
connaturata
alla
cultura
siciliana
– e in
questo,
considerando
il
pittore
toscano
ormai
del
tutto
‘naturalizzato’:
Avesse
continuato
ad
operare
in
Toscana,
forse il
Paladini
avrebbe
sentito
molto
meno le
suggestioni
caravaggesche
e
senz’altro
il
risultato
sarebbe
stato
quello
di un
“incenerimento”,
nella
sua
pittura,
della
maniera
cui più
lungamente
si era
dedicato
e delle
istanze
caravaggesche
che
avrebbe
tentato
di
risolvere.
L’ambiente
siciliano
gli è
propizio
non
soltanto
per
l’occasione
di un
più
immediato
incontro
col
Caravaggio,
ma per
il
risultato
di una
“unione
impossibile”
che
viene a
realizzarsi
senza
segnare
una
remora e
senza
lasciare
scorie.
[...] E
si può
anche
osservare,
in
aggiunta
alle
acute
osservazioni
di
Brandi,
che il
Paladini,
del
tutto
sicilianizzato
(e un
po’
commuove,
da un
atto del
1601, il
trovarlo,
come già
Antonello,
sulla
roba:
una
vigna
che
acquista
da un
tale
Vincenzo
de
Xortino),
si sia
volto a
Caravaggio
come a
un nuovo
modo di
far
pittura
che
rispondeva
alla
profonda
e sempre
viva
vocazione
al
realismo
dei
siciliani[48].
Certo,
si
tratta
di
considerazioni
borderline
da
non
‘addetto
ai
lavori’,
legate
più a
una
visione
globale
della
storia
culturale
siciliana.
Non va
dimenticato
che
l’interesse
dello
scrittore
per la
pittura
seicentesca,
in
merito
anche
agli
epigoni
del
pittore
lombardo,
rientra
più nel
quadro
di
suggestioni
letterarie,
come
avviene,
ad
esempio,
per il
dipinto
La
tentazione
di S.
Antonio
Abate
di
Rutilio
Manetti
in
Todo
modo
(1974)
(fig. 8)
e, come
nel caso
del
dipinto
rubato
che
diventa
movente
di una
serie di
delitti,
nel suo
romanzo
giallo
Una
storia
semplice
(Milano,
Adelphi,
1989)
allusivo,
con ogni
probabilità,
al furto
della
Natività
di
Caravaggio
(fig.
9),
trafugata
nel 1969
dall’Oratorio
di San
Lorenzo
di
Palermo.
Tuttavia,
nel
corso
dei
primi
anni
Ottanta,
lo
scrittore
si
mostra
interessato
ai nuovi
studi
sul
caravaggismo
in
Sicilia,
confluiti
nella
grande
mostra
di
Siracusa
Caravaggio
in
Sicilia
(1984),
al punto
da farsi
promotore
della
mostra
di
Pietro
d’Asaro
a
Racalmuto.
Il
saggio
di
presentazione
della
mostra
(riedito
poi in
forma di
articolo
su
“Malgrado
Tutto”[49])
-
esemplare
e vivida
ricostruzione
storico-culturale
(con un
respiro
che fa
pensare
a
un’impostazione
da
kulturgeschichte)
della
«microstoria»
di
Racalmuto
nel XVII
secolo,
sotto la
Signoria
dei Del
Carretto
che fa
da
sfondo
alle
vicende
biografiche
della
singolare
figura
artistica
di
Pietro
d’Asaro
–
risulta
interessante
per la
critica
che
muove ai
ritardi
della
rivalutazione
della
pittura
del
Seicento,
in
primis
Caravaggio,
negli
studi
del
primo
Novecento[50].
E cita,
ad
exemplum,
quale
caso
eclatante
in
negativo,
il
Libro
degli
artisti[51]
del
critico
idealista
e
carducciano
Enrico
Panzacchi[52]:
Nel 1902
Enrico
Panzacchi,
poeta e
autorevole
critico
d’arte,
pubblicava
un
Libro
degli
artisti
che era
un’antologia,
divisa
per
secoli,
di
testimonianze
e
precetti,
intendimenti
e
giudizi
sull’arte
e sugli
artisti
del loro
tempo da
parte
degli
stessi
artisti
o di
letterati
a loro
vicini.
Ma nella
sezione
relativa
al
Seicento,
sul
Caravaggio
altro
non
troviamo
che uno
scritto
di
Francesco
Albani,
pittore
che
fieramente
lo
accusa
di
portare
al
precipizio
e alla
totale
rovina
la
“mobilissima
e
compitissima
virtù
della
pittura”.
Secondo
l’Albani,
dunque,
e
secondo
il
Panzacchi,
il
Caravaggio
altro
non
sarebbe
stato
che un
corruttore
della
pittura.
E a
parte
questo
avverso
giudizio,
tanto
poco si
parla
nel
libro di
Michelangelo
da
Caravaggio
che
nell’indice
lo si
confonde
con
Polidoro
da
Caravaggio,
vissuto
un
secolo
prima.
Siamo,
ripeto,
al 1902.
Il che
vuol
dire
ancora,
all’inizio
del
nostro
secolo,
Michelangelo
da
Caravaggio,
oggi
considerato
tra i
grandissimi
di ogni
secolo,
era un
pittore
quasi
misconosciuto.
E
figuriamoci
i suoi
seguaci
ed
epigoni.
Il fatto
è che
tutto il
secolo
era
misconosciuto,
e nelle
lettere
e nelle
arti. E
quasi
relegato
in un
giudizio
di
formalismo
e di
vuotaggine
riguardo
alle
lettere,
di
corruzione
diciamo
realistica
riguardo
alle
arti.
Giudizi
in
effetti
contrastanti
e che
nessuno
si
preoccupava
di
confrontare,
di
contemperare,
di far
pervenire
a una
sintesi
che
desse,
per così
dire,
l’anima
del
secolo,
pur
tenendo
conto di
tutte le
contraddizioni
che il
secolo
portava
in sé,
come del
resto
ogni
secolo[53].
Sulla
cultura
figurativa
del
pittore,
infine,
non
entrando
nel
merito
delle
influenze
stilistiche,
Sciascia
si
sofferma
su
alcuni
aspetti
iconologici
della
sua
pittura
di
carattere
profano,
considerandoli
per
certi
versi
‘misteriosi’:
Di
Pietro
d’Asaro,
per
questa
mostra
di suoi
quadri
che
finalmente
si
realizza,
in
questo
catalogo,
altri
dirà con
più
competenza
di me.
Io
voglio
soltanto
segnalare
che c’è
nella
sua
pittura
– pur
classificabile
nella
epigonia
manieristica,
negli
echi
baroccisti
e
caravaggeschi,
nella
vicinanza
allo
Zoppo di
Ganci –
un che
di
misterioso,
e
principalmente
nei suoi
quadri
“profani”,
nelle
sue
allegorie:
che
sarebbero
da
studiare
attentamente,
da
disvelare
nei loro
significati.
C’è poi
da tener
conto
della
cecità
del suo
occhio
destro –
“monoculus
racalmutensis”
amava a
volte
firmare
– che
avrà
compensata
e
risolta
in un
certo
virtuosismo
e con
effetti
che mi
sembrano
ravvisabili.
Un
mistero
anche
questo,
in
definitiva:
da
affidare
ad un
oculista,
prima
che a un
critico
d’arte[54].
In
un’intervista
rilasciata
a Giusi
Ferrè
nel 1985
su
“L’Epoca”,
Sciascia,
ricordando
i
momenti
dell’allestimento
della
mostra
racalmutese
- segno
questo
che lo
scrittore
seguì
attivamente
i lavori
–
esprime,
inoltre,
le sue
preferenze
per
alcuni
aspetti
della
pittura
del
Monocolo
di
Racalmuto:
«...confesso
di
preferire
certi
quadretti,
certi
dettagli
di
interno
dei
grandi
quadri,
cesti di
frutta,
cesti di
pane, i
fiori
alla
maniera
del
Caravaggio»[55].
(fig.
10)
La
mostra
di
Pietro
d’Asaro,
forse
anche
grazie
alla
promozione
di uno
scrittore
come il
Nostro,
ebbe una
certa
risonanza
mediatica.
Infatti,
la terza
rete
nazionale
dedicò
un
documentario
televisivo,
curato
da Aldo
Scimè,
sulle
due
mostre
di
Siracusa
e
Racalmuto,
nel
quale
furono
intervistati
Gesualdo
Bufalino
e lo
stesso
Sciascia
e dove
intervennero,
inoltre,
il
giornalista
Luigi
Necco,
lo
studioso
francese
Georges
Vallet e
il
soprintendente
di
allora
Giuseppe
Voza[56].
Un
ultimo
intervento
sulle
due
mostre
siciliane,
dal
titolo
significativo
Caravaggio
& C. in
Sicilia,
appare
il 19
dicembre
sulle
pagine
culturali
del
“Corriere
della
Sera”[57].
Sciascia,
qui,
esprime
il suo
apprezzamento
per le
due
mostre,
per la
particolare
validità
scientifica
e
filologica,
ma non
manca di
lanciare
–
profeticamente,
diremmo
oggi -
acute
critiche
nei
confronti
della
proliferazione
di
iniziative
culturali
e
mostre
‘di
massa’,
che si
andavano
affermando
proprio
negli
anni
Ottanta[58]:
Convegni,
mostre e
pubblicazioni
a volte
(e forse
è più
giusto
dire
spesso)
senza
criterio
alcuno e
si va
dalla
volgarità
festaiola
alle
astrattezze
accademiche
o
avaguardistiche.
E si
dice per
dire,
avanguardistiche:
poiché
si
tratta
piuttosto
di
sparute
e quasi
sparite
retroguardie.
E
sarebbe
da fare
un
elenco
di tutte
le
iniziative
che
sotto
l'Egida
dei Beni
culturali,
e a
spese
dei
contribuenti,
sono
state
realizzate
in
Italia
in
questi
ultimi
tempi: e
senza
che i
contribuenti
ne
abbiano
minimamente
goduto.
Sicchè
quel che
è stato
legiferato
a fin di
bene, e
per la
protezione
e
valorizzazione
dei
beni, è
andato
ad
effetti
del
tutto
opposti:
ad
alimentare
astratte
velleità
e a
lasciare
che i
beni
continuino
a
degradarsi
e a
dissolversi[59].
Più
avanti,
riferendosi
alle
opere
centrali
della
mostra,
il
Seppellimento
di Santa
Lucia
(fig.
11) –
presentata
in
quell’occasione
dopo il
restauro
dell’Istituto
Centrale
di Roma
- e le
due
opere
messinesi,
l’Adorazione
dei
Pastori
(fig.
12) e la
Resurrezione
di
Lazzaro
(fig.
13), lo
scrittore
si
stupisce
come,
specialmente
le due
tele di
Messina,
abbiano
sollevato
nella
critica
novecentesca
dubbi
sull’assegnazione
al
pittore
lombardo[60]:
I
tre
quadri
del
Caravaggio
sono
portentosi,
e riesce
difficile
da
capire
come i
due del
museo di
Messina
siano
stati
dati,
tolti e
ridati
al
Caravaggio,
se anche
ad
incompetenti
come noi
appaiono
indubitabilmente
suoi. O
si
capisce
benissimo,
considerando
come la
critica
attribuzionistica
sia
andata a
finire
nelle
fosse di
Livorno[61].
E, a
tal
proposito,
tornando
sul
Seppellimento
e sull’Adorazione,
lo
scrittore
muove
una
sottile
critica
alle
lettura
berensoniana
dei due
dipinti:
Ma
è da
dire che
anche la
critica
descrittiva
(quella
di
ascendenza
vasariana,
in cui
si può
credere,
ma
evidentemente
con
cautela)
ha le
sue
defaillances.
E mi
accade
di
notarne
due,
proprio
riguardo
al
Seppellimento
di Santa
Lucia e
alla
Natività
che
viene
dal
Museo di
Messina,
in
Berenson.
Del
Seppellimento
dice:
«Qui
l'incongruenza
di
allontanare
nello
sfondo
le
figure
del
dolore,
mettendo
in
grossolana
evidenza
il fatto
materiale,
rasenta
il
cinismo»:
e non è
per
nulla
vero,
poiché è
dal
fatto
materiale,
quasi
brutale,
che le
figure
del
dolore
diventano
più
dolorose.
Ed è
altrettanto
non vera
l'osservazione
sulla
Natività,
che
iconograficamente
gli
sembra
«molto
singolare»
per quei
due
anziani
che
«hanno
l'aspetto
grave e
intellettuale
di
eletti
teologi»[62]
e non di
pastori:
e sono
invece,
puramente
e
semplicemente,
due
anziani
pastori.
E basta
guardare
le loro
mani per
esserne
certi.
Ma si
vede che
Berenson
non
aveva
nozione
di
quanto
possa
essere
«intellettuale»
un
pastore
errante
nell'Asia
o nella
campagna
siciliana,
romana,
abruzzese[63].
Al
di là
degli
aspetti
intrinseci
dei
giudizi
di
Berenson
su
Caravaggio
– che,
come
noto,
rientrano
nella
sua
valutazione
complessivamente
negativa
sulla
pittura
seicentesca[64],
la nota
di
Sciascia
– che
può
apparire
persino
anacronistica
e,
tuttavia,
non
classificabile
come
specifica
argomentazione
critica
sulle
problematiche
caravaggesche
–
attesta
il suo
interesse
mai
superficiale
per la
storiografia
artistica,
anche in
ambito
anglosassone.
La
pittura
seicentesca,
in
relazione
alla
storia
siciliana,
continuò
ad
affascinare
lo
scrittore
fino
agli
ultimi
anni,
come
mostrano
le sue
ulteriori
letture
in
questo
ambito.
Nel 1988
-
traendo
spunto
dal
saggio
critico
di Jane
Costello,
The
twelve
pictures
«ordered
by
Velasquez»
and the
trial of
Valguarnera[65],
che
Giuliano
Briganti
aveva
mandato
allo
scrittore
prima
del 1988
- esce
sulla
rivista
“Nuovi
Argomenti”
una
incisiva
“esegesi
storiografica”
ricostruendo,
in forma
di ‘cronachetta’,
le
vicende
collezionistico-giudiziarie
di
Fabrizio
Valguarnera
dei
baroni
di
Godrano,
medico
ed
esperto
d'arte,
amico e
committente
di
pittori
di fama
tra cui
Rubens
(che
aveva
curato
dalla
podraga
a
Madrid)
ed
appassionato
di
pittura,
a tal
punto
che
arrivò
ad
acquistare
dipinti
direttamente
da Reni,
Lanfranco,
Poussin,
Valentin
e altri
per
riciclare
diamanti
‘fortuitamente’
rubati a
dei
nobili
fiamminghi
in
viaggio
in
Spagna[66]
-
siano
accostabili
per
tipologia
alla
fortunata
antologia
storica
raccolta
nella
selleriana
collana
Delle
cose di
Sicilia,
edita in
quattro
volumi
dal 1980
al 1986[67].
Confronto
che
mette in
evidenza
una
forte
componente
storiografica,
nel
senso di
uno
Sciascia,
che
anche
negli
scritti
sulle
arti si
mostra
‘scrittore
storico’
e cioè
che «non
rifugge
dal
mestiere
dello
storico»[68]
e,
inoltre,
come è
stato
notato,
viene
fuori un
critico
che,
proprio
in virtù
della
lucida
visione
dei
fatti
storici
e
culturali
(e qui
anche le
arti
occupano
per lo
scrittore
un ruolo
centrale),
mostra
notevoli
interessi
per la
tradizione
storiografica
siciliana
di
matrice
erudita
che va
da
Tommaso
Fazello
a
Gioacchino
Di Marzo[69].
[1] L. GRASSI, Costruzione della critica d'arte, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1955.
[2] L. GRASSI, Genesi e paternità della critica d'arte, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1951.
[3] L. GRASSI, Costruzione..., 1955, p. 7.
[4] Sul rapporto tra Sciascia e le arti visive cfr. N. TEDESCO, Le genealogie artistiche di Leonardo Sciascia, in La Sicilia, il suo cuore. Omaggio a Leonardo Sciascia, catalogo della mostra (Palermo-Racalmuto, luglio-novembre 1992) a cura di M. Pecoraino, Palermo 1992, pp. 48-50; F. IZZO, Come Chagall vorrei cogliere questa terra. Leonardo Sciascia e l’arte. Bibliografia ragionata di una passione, in La memoria di carta, a cura di V. Fascia, Edizioni Otto/Novecento, Milano 1998, pp. 191-276; La bella pittura. Leonardo Sciascia e le arti figurative, catalogo della mostra (Racalmuto, 20 novembre-15 dicembre, 1999) a cura di P. Nifosì, Salarci Immagini, Comiso-Racalmuto 1999; G. CIPOLLA, L'universo sciasciano delle arti figurative: “un sistema di conoscenza dal fisico al metafisico”, in “El Aleph”, a. I, f. 11, 2009, pp. 82-88; G. CIPOLLA, Le radici di una passione. Leonardo Sciascia e le arti figurative attraverso la direzione di “Galleria. Rassegna bimestrale di cultura” 1949-1989, in “Malgrado Tutto”, “Speciale Leonardo Sciascia vent’anni dopo”, a. XXVIII, f. 4, novembre 2009, p. 15; G. CIPOLLA, “Io lo conoscevo bene...”. Renato Guttuso visto da Leonardo Sciascia, Palermo, Università degli Studi di Palermo, 2010, DOI: 10.4413/978-88-904738-21, http://www.unipa.it/tecla/articoli_noreg/temicritica1_noreg/art_cipolla1_noreg.php, aprile, pp. 109-129; G. CIPOLLA, Leonardo Sciascia e le arti figurative in Sicilia, tesi di dottorato di ricerca, Università degli Studi di Palermo, Facoltà di Lettere e Filosofia, 2011, relatore Simonetta La Barbera; G. CIPOLLA, Leonardo Sciascia e le arti visive. La rivista «Galleria. Rassegna bimestrale di cultura 1949-1989», I parte, in “Annali di Critica d'Arte”, VII (2011), collana diretta da G. C. Sciolla, CB Edizioni, Poggio a Caiano 2012, pp. 359-408; G. CIPOLLA, Leonardo Sciascia e le arti visive. La rivista «Galleria. Rassegna bimestrale di cultura 1949-1989», II parte, Scritti di Sciascia sulle arti visive del Novecento su «Galleria» (1952-1990), in “Annali di Critica d'Arte”, VIII (2012), collana diretta da G. C. Sciolla, CB Edizioni, Poggio a Caiano 2012, pp. 193-269;; G. CIPOLLA, Leonardo Sciascia e l’architettura in Sicilia tra strutturalismo e immagini letterarie, in «Aa. Quadrimestrale dell’Ordine degli Architetti Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori di Agrigento», a. XV, n. 30, dicembre 2012, pp. 31-37 (ISSN n. 1827-854X); L. SPALANCA, La tentazione dell'arte, Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta 2012.
[5] “L’Ora”, fondato dall'imprenditore siciliano Ignazio Florio, nel corso della metà del Novecento ebbe tra le più autorevoli firme, per quanto concerne la critica d'arte, oltre a Sciascia, Guttuso, e inoltre Maria Accascina, Adolfo Venturi, Emilio Cecchi e altri. Per un inquadramento generale del periodico cfr. G. DE MARCO, “L'Ora”. La cultura in Italia dalle pagine del quotidiano palermitano (1918-1930). Fonti del XX secolo, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, Milano 2007. In particolare, sulla collaborazione di Sciascia a “L’Ora” cfr. M. FARINELLA, Sciascia e l’Ora, in L. SCIASCIA, Quaderno, introduzione di V. Consolo, Nuova editrice meridionale, Palermo 1991, pp. 13-14..
[6] Ibid.
[7] L. SCIASCIA, Il libro di Ruggero, in “L’Ora”, 25 giugno 1966, ripubblicato in L. SCIASCIA, Quaderno...,1991, p. 165. Per un aggiornamento su queste tematiche legate alla cultura figurativa siciliana nella storiografia tra Otto e Novecento si rimanda ai contributi di Simonetta La Barbera, Carmelo Bajamonte e Roberta Cinà presentati a Bologna nel 2011 al convegno di studi Francesco Malaguzzi Valeri (1867-1928). Tra storiografia artistica, museo e tutela, in c.d.s.
[8] Cfr. G. DI MARZO, Delle Belle Arti in Sicilia dai Normanni alla fine del secolo XVI, voll. 4, S. Di Marzo, F. Lao, Palermo, 1858-1864. A. BUTTITTA, Gioacchino Di Marzo e la cultura siciliana tra locale e globale, in Gioacchino Di Marzo e la Critica d’Arte nell’Ottocento in Italia, Atti del Convegno, Palermo, 15-17 aprile 2003, a cura di S. La Barbera, Officine Tipografiche Aiello&Provenzano, Bagheria (Palermo) 2004, pp. 121-127; L. RUSSO, Estetica e critica d’arte nell’Ottocento, in ibid., pp. 128-141.
[9] L. SCIASCIA, Presentazione, in AA.VV., Libro siciliano, D. Flaccovio, Palermo 1972, p. 8.
[10] Sciascia cita alcune pagine, relative al regno normanno, della Storia della Sicilia di Smith che era apparsa in Italia, tradotta da Lucia Biocca Marghieri, nel 1970 (cfr. D. M. SMITH, Storia della Sicilia medievale e moderna, trad. di L. B. MARGHIERI, Laterza, Bari 1970), considerandole una «esatta sintesi» delle problematiche dell’età arabo-normanna in Sicilia.
[11] R. ASSUNTO, La critica d’arte nel pensiero medievale, Il Saggiatore, Milano 1961.
[12] L. SCIASCIA, Presentazione, in Libro Siciliano...,1972, p. 9.
[13] Ibid., p. 10
[14] L. SCIASCIA, Una rettifica, in “L’Ora”, 2 gennaio 1965, poi in L. SCIASCIA, Quaderno..., 1991, p. 22. Il Busto di Pietro Speciale (inv. 5998), originariamente di collezione privata e pervenuto negli ultimi decenni nelle collezioni lapidee della Soprintendenza per i Beni Culturali e Ambientali di Palermo, è stato esposto qualche anno fa nella mostra palermitana Materiali per la Memoria al Palazzo Ajutamicristo, cfr. Materiali per la Memoria. Preciosa Cautius Servantur, catalogo della mostra (Palermo, Palazzo Ajutamicristo, 2010), Palermo 2010. L’opera, datata nella lapide sottostante 1469, ha suscitato da sempre tra gli studiosi un acceso dibattito, divisi sull’attribuzione a Domenico Gagini (Di Marzo, Accascina, Kruft, Bernini, Caglioti) o a Francesco Laurana (Mauceri, De Logu, Patera). Oggi il busto è dato a Domenico Gagini (cfr. M. DE LUCA, Il monumento celebrativo di Pietro Speciale, in Materiali per la Memoria..., 2010, pp. 37-38 ), in base un riferimento nel documento di commissione che lo scultore bissonese stipulò con Pietro Speciale per la realizzazione del monumento sepolcrale del figlio Antonio Speciale della chiesa di San Francesco d’Assisi a Palermo, nel quale si impegnava, inoltre, a scolpire due busti, uno dello stesso Pietro e l’altro del figlio, identificabile secondo la De Luca con il Busto di giovinetto della Galleria di Palazzo Abatellis. É da aggiungere, come noto, che a Pietro Speciale sono dedicati altri due bassorilievi, quello della chiesa di Santa Maria la Stella di Militello in Val di Catania – quello su cui Sciascia si concentrerà, ritenendolo di Laurana – e l’altro già a Calatafimi, oggi in collezione privata (Barresi) a Trapani. Anche questi due bassorilievi hanno visto l’alternarsi dell’attribuzione ora a Domenico Gagini ora a Laurana. Per una sintesi delle problematiche attributive di Laurana e Gagini cfr. F. Abbate, Storia dell’arte nell’Italia meridionale. Il sud angioino e aragonese, vol. II, Il Quattrocento in Sicilia, Donzelli, Roma 1998, pp. 235-238
[15] Sciascia apprezzava molto l’opera dello studioso palermitano – al punto da inserire il suo Di Antonello da Messina e dei suoi congiunti (Società Siciliana per la Storia Patria, Palermo 1903) in una edizione critica nel secondo volume della collana Delle cose di Sicilia (cfr. Delle cose di Sicilia, a cura di L. Sciascia, Sellerio, vol II, Palermo 1996, pp. 188 sgg.) – citandolo frequentemente nei suoi scritti sulle arti, elogiandone, inoltre, lo spiccato “regionalismo”. Al riguardo lo scrittore, sostenendo di fatto l’opinione di Giovanni Gentile riguardo al regionalismo del Di Marzo, unitamente a Giuseppe Pitrè e a Salvatore Marino, scrisse: «Non del tutto accettabile, la tesi è però sostenibile nel senso che la scomparsa di queste tre personalità, nello stesso anno e in piena guerra europea, avverte appunto del tramonto di una cultura regionale, siciliana e sicilianistica; di una cultura regionale negli intendimenti e nell’oggetto» (cfr. Delle cose di Sicilia...., 1996, p. 188). Sull’opera di Di Marzo, si rimanda all’esaustivo e ricco volume degli Atti del Convegno di Palermo del 2003 curato da Simonetta La Barbera, cfr. Gioacchino Di Marzo…, 2004.
[16] G. DI MARZO, I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVII. Memorie storiche e documenti, voll. 2, Tipografia del “Giornale di Sicilia”, Palermo 1880-1883.
[17] L. SCIASCIA, Una rettifica..., 1965, p. 22.
[18] Il bassorielievo raffigurante il Ritratto di Pietro Speciale (attualmente conservato nella “Stanza del tesoro“ in Santa Maria della Stella a Militello in Val di Catania), che già Sebastiano Agati ed Enrico Mauceri attribuivano a Francesco Laurana (cfr. E. MAUCERI, S. AGATI, Francesco Laurana in Sicilia, in “Rassegna d’arte”, a. VI, f. 1, 1906, p. 7), ha mantenuto tale attribuzione, salvo il Kruft che lo assegnava alla scuola di Domenico Gagini (cfr. H. W. KRUFT, Domenico Gagini und seine Werkstatt, Bruckmann, München 1972, pp. 44-45, 245), fino alla critica degli ultimi anni (cfr. B. PATERA, Francesco Laurana in Sicilia, Novecento, Palermo 1992, p. 58).
[19] L. SCIASCIA, Viaggio a Militello, in “L’Espresso”, a. XVII, f. 42, 25 ottobre 1981, p. 241 (poi riedito e ampliato in L. SCIASCIA, Il ritratto di Pietro Speciale, in Fatti diversi di storia letteraria e civile, Adelphi, Milano 1989, pp. 135-137; e ristampa ed. Adelphi, Milano 2009, pp. 197-201)
[20] Ibid. Sull’attività di Laurana in Sicilia cfr. B. PATERA, Francesco Laurana…, 1992; e sulla sua produzione limitatamente ai busti femminili cfr. C. DAMIANAKI, I busti femminili di Francesco Laurana tra realtà e finzione, Cierre Edizioni, Sommacampagna 2008.
[21] Tra gli studi di questi anni su Laurana, incentrati su tali aspetti, cfr. B. PATERA, Francesco Laurana e la cultura lauranesca in Sicilia, in “Quaderni de «La ricerca scientifica»”, f. 106, 1980, pp. 211-230; D. BERNINI, Architettura e scultura del Quattrocento, in Storia della Sicilia, vol V, Società Editrice Storia di Napoli e della Sicilia, Napoli 1981, pp. 231-271
[22] L. SCIASCIA, Il ritratto di Pietro Speciale...., 2009, p. 200. Sui rapporti stilistici tra Antonello e Laurana, cfr. B. PATERA, Sui rapporti tra Antonello da Messina e Francesco Laurana, in Antonello da Messina, Atti del Convegno di Studi, Messina 29 novembre-2 dicembre 1981, Messina 1987, pp. 325-340
[23] L. SCIASCIA, La corda pazza, in Opere 1956-1971, a cura di C. Ambroise, Bompiani, Milano 1987, pp. 1188-89.
[24] L. SCIASCIA in Artisti e scrittori. Brera, Chiara, Marchi, Milani, Moravia, Pivano, Raboni, Sciascia, Soavi, Testori, a cura di O. Patani, Allemandi, Torino 1984, p. 111.
[25] L. SCIASCIA, L’ordine delle somiglianze, in L'opera completa di Antonello da Messina, presentazione di L. Sciascia, apparati critici e filologici di G. Mandel, Rizzoli, Milano 1967, pp. 5-7. Lo stesso scritto sarà poi ripubblicato in L. SCIASCIA, Cruciverba, G. Einaudi, Torino 1983, pp. 23-29. Il testo sarà ristampato anche nel 2000: cfr. L. SCIASCIA, Antonello da Messina: l'ordine delle somiglianze, in Scritti d'arte: dieci maestri della pittura raccontati da dieci grandi della letteratura, Rizzoli, Milano 2000, pp. 89-101.
[26] Il passo citato da Sciascia è il seguente: «E, stato pochi mesi a Messina, se n’andò a Vinezia; dove, per essere persona molto dedita a’ piaceri e tutta venerea, si risolvé abitar sempre e quivi finire la sua vita, dove aveva trovato un modo di vivere appunto secondo il suo gusto», cfr. G. VASARI, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri, nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino, Firenze 1550, a cura di L. Bellosi, A. Rossi, Einaudi, Torino 1986, p. 362.
[27] L. SCIASCIA, L’ordine delle somiglianze..., 1967, p. 5
[28] Cfr. N. TEDESCO,“Coscienza dei luoghi”: le genealogie artistiche di Leonardo Sciascia, in La cometa di Agrigento, E. Sellerio, Palermo 1997, pp. 48-50
[29] L. SCIASCIA, L’ordine delle somiglianze..., 1967, p. 6.
[30] L. SCIASCIA, L’ordine delle somiglianze..., 1967, pp. 6-7. Sciascia tornerà più volte a sottolineare il carattere etnoantropologico delle “madonne” di Antonello, rifacendosi alla teoria di un suo “professore di storia dell’arte”, che noi potremmo identificare con Enzo Maganuco (essendo stato l’unico docente di storia dell’arte nel periodo di formazione messinese), e ponendo tuttavia l’accento sugli alti livelli di espressività e luminosità raggiunti dal pittore siciliano: « Un mio professore di storia dell'arte teneva moltissimo a una sua scoperta: che le donne raffigurate da Antonello sotto vesti e titolo di “Annunciata” erano certamente di Palazzolo Acreide, paese in provincia di Siracusa in cui quel tipo di bellezza come “in vitro” si conservava. E non intendeva soltanto, credo, i lineamenti, le fattezze: ma anche, per così dire, l'interna luminosità, l'espressività, l'intelligenza» (cfr. L. SCIASCIA, Annunciata e Annunciatina, in “L’Espresso”, 22 novembre 1981, p. 179)
[31] L. SCIASCIA, Il sorriso di Antonello è un mistero che ancora ci turba, in “La Stampa”, “Tuttolibri”, 14 novembre 1981, p. 3.
[32] Cfr. R. LONGHI, Frammento Siciliano, in “Paragone Arte”, a. IV, f. 47, 1953, pp. 3-44.
[33] Lo scrittore si mostrerà più volte sensibile a problematiche relative all’arte siciliana quattro e cincquecentesca. Nel saggio Sicilia e sicilitudine, posto nella raccolta di scritti La corda pazza. Scrittori e cose della Sicilia, pubblicata da Einaudi nel 1970, Sciascia, osservando a proposito della storia della cultura siciliana - che sarebbe «da rifare in un disegno organico e magari partendo dai dati più umili» - chiama in causa un aspetto dell’arte isolana, e precisamente la produzione pittorica quattro e cinquecentesca che usciva dalle botteghe locali e veniva esportata in altri centri italiani. E più avanti, sempre nello stesso passo, si chiede come mai gli architetti siciliani barocchi ebbero più contatti con Parigi che con Roma. Ciò dimostra l’attenzione costante dello scrittore anche per gli ambiti meno noti della cultura e delle problematiche figurative connesse all’arte siciliana del passato.
[34] L. SCIASCIA, Il sorriso di Antonello..., 1981, p. 3: «La mostra del '53 diede occasione a Roberto Longhi di scrivere quel mirabile «Frammento siciliano», su Paragone, che oggi, davanti a questa seconda mostra, dovrebbe essere assunto, dagli addetti ai lavori, come una sollecitazione: e specialmente da questo punto: «Una grandezza che spaura nell'ambiente siciliano, quando si pensi ch'egli “cominciò a sormontare” in Messina ad un tempo con Tommaso de Vigilia a Palermo; forse anche prima, quando i carretti siciliani ancora portavano sui monti gli ultimi “retablos” del gotico fiorito. La sua posizione in Sicilia è insomma quella di un Masaccio a Firenze...». Dove, a parte i carretti, che non portavano sui monti un bel niente (sui monti andavano le lettighe e i carretti, per così dire retablati, erano di là da venire: e mi pare che tra i primi a vederli sia stato Maupassant), non persuade molto che la pittura di Antonello esploda come in un deserto. C'è da risolvere il problema dello stupendo «Trionfo della morte» di Palazzo Sclafani (ora alla Galleria Nazionale), e se non sia di qualche attendibilità l'ipotesi che Antonello vi abbia lavorato come aiuto». La prima ipotesi in questo senso, facendo riferimento a supposte iscrizioni, come noto, fu fatta da Giuseppe Consoli nel 1966, (cfr. G. CONSOLI, «El servo» del «Trionfo» Sclafani, in “Arte Antica e Moderna”, a. IX, f. 33, 1966, pp. 58-77; G. CONSOLI, Antonello e Spicre: una ipotesi sul «Trionfo della Morte» di Palazzo Sclafani, in “Cronache di Archeologia e Storia dell’Arte”, a. IV , f. 5, 1966, pp. 134-149; G. CONSOLI, Rettifiche e acquisizioni per Antonello, estratto da “Archivio Storico Messinese”, III s., vol. XXIX, Messina 1978). In generale su tutta la problematica delle firme “presunte” si veda: M. CORDARO, Resoconto degli interventi dell’Istituto Centrale del Restauro sul «Trionfo della Morte», in Il «Trionfo della morte» di Palermo: l'opera, le vicende conservative, il restauro, catalogo della mostra (Palermo, Palazzo Abatellis, luglio-ottobre 1989) a cura di V. Abbate, M. Cordaro, Sellerio, Palermo 1989, pp.76-78. Sempre sullo stesso argomento si veda, inoltre, lo studio di A. MAZZE, Il Trionfo della Morte a Palermo, lo Zingaro e la peste, in “Storia dell’arte”, a. XIV, ff. 44-46, 1982, pp. 153-159; e M. CALVESI, Il “Trionfo della Morte” di Palermo; quando Dio rende grazie, in “Art e dossier”, a.X, f. 106, 1995, pp. 22-27.
[35] Sul restauro del Trionfo della Morte, cfr. M. CORDARO, Resoconto degli interventi dell’Istituto Centrale del Restauro sul «Trionfo della Morte»..., 1989, pp. 76-85
[36] Cfr. F. PETRARCA, Trionfi, a cura di G. Bezzola, Rizzoli, Milano 1957, cap. I, vv. 5-80, pp. 27-31
[37] L. SCIASCIA, Il Trionfo della Morte, in “L’Illustrazione italiana”, f. 1, 1974, p. 64
[38] Ibid.
[39] Ibid., p. 65
[40] Il misterioso sorriso dell’”Ignoto marinaio” (aspetto che ispirò il celebre libro di Vincenzo Consolo) ha portato Sciascia a parlare di “ordine bioetnico delle somiglianze” e della “rete infinita di associazioni involontarie e volontarie” che, da un lato, richiamano il sistema della sinestesia, mentre dall’altro, sostengono gli elementi metaforici che avviano il lettore all’apprezzamento totale di una letteratura viva, dinamica e universale. E, in linea con l’attenzione dello scrittore per le storie legate a un dettaglio (come spesso accade nei suoi romanzi gialli), egli si sofferma sul “presunto” sfregio: L. SCIASCIA, L’ignoto marinaio, in “La Stampa-Tuttolibri”, 23 ottobre 1983, p. 3 (ripubblicato in Cruciverba, Einaudi, Torino 1983): «Lo sfregio – e ce lo insegna tanta letteratura napoletana, e soprattutto quel grande poeta che è Salvatore Di Giacomo – è un atto di esasperazione e di rivolta connaturato all’amore; ed è anche come un rito, violento e sanguinoso, per cui un rapporto d’amore assume uno stigma definitivo, un definitivo segno di possesso: e chi lo ha inferto non è meno “posseduto” di chi lo ha subito. La ragazza che ha sfregiato il dipinto di Antonello è possibile dunque si sia ribellata per amore, abbia voluto iscrivere un suo segno di possesso su quel volto ironico e beffardo. A meno che non si sia semplicemente ribellata – stupida – all’intelligenza da cui si sentiva scrutata ed irrisa». Sul Ritratto d’uomo del Museo Mandralisca di Cefalù, con bibliografia precedente esaustiva, cfr. M. LUCCO, scheda 14, in Antonello da Messina. L’opera completa, catalogo della mostra (Roma, Scuderie del Quirinale, 18 marzo-25 giugno 2006) a cura di M. Lucco, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, Milano 2006, p. 162.
[41] L. SCIASCIA, L’ordine delle somiglianze..., 1967, p. 6. Qui emerge un’ulteriore sferzata storiografica nei confronti di Longhi, che nel Frammento Siciliano (cfr. R. LONGHI, Frammento Siciliano...., 1953, p. 29) aveva negato perentoriamente che si potesse trattare di un marinaio (per le condizioni economiche e per il fatto che non esisteva ancora il ritratto di genere), al quale Sciascia controbatte col suo razionalismo relativista e pungente.
[42] Cfr. Mostra di Filippo Paladini, catalogo della mostra (Palermo 1967) a cura di M. G. Paolini e D. Bernini, saggio introduttivo di C. Brandi, Palermo 1967. Sulla mostra, lo stesso Brandi scriverà, poi, un articolo sul “Corriere della Sera”, cfr. C. BRANDI, I siciliani hanno riscoperto i capolavori di Filippo Paladini, in “Corriere della Sera”, 29 maggio 1967.
[43] Cfr. Caravaggio in Sicilia, il suo tempo, il suo influsso, catalogo della mostra (Siracusa 1984) a cura di V. Abbate, Sellerio, Palermo 1984.
[44] Cfr. Pietro d’Asaro il «Monocolo di Racalmuto», catalogo della mostra (Racalmuto 1984-1985) a cura di M. P. Demma, prefazione di L. Sciascia, Arti Grafiche Siciliane, Palermo 1985.
[45] L. SCIASCIA, Un fatto culturale siciliano: la pittura di Filippo Paladini, in “Cronache parlamentari siciliane”, a. VI, f. 11, novembre 1967, pp. 851-852.
[46] Il rapporto tra Paladini e Caravaggio, considerato in minima parte nella storiografia novecentesca precedente al 1967 - a partire da Enrico Mauceri (E. MAUCERI, Due volumi di disegni di Filippo Paladini, in “Bollettino d’arte”, a. IV, f. 10, ottobre, 1910, pp. 396-405), fino a Stefano Bottari (S. BOTTARI, Filippo Paladino, in “Rivista d’arte”, a. XX, f. 2, 1938, pp. 23-47; S. BOTTARI, Nuovi documenti sul manierismo fiorentino in Sicilia, in “Siculorum Gimnasium”, 1943, pp. 300-304), e a Carlo Ludovico Ragghianti (C. L. RAGGHIANTI, Mischellanea minore di critica d’arte, Laterza, Bari 1946, pp. 163-165) – giunge a una maggiore attenzione nell’articolo di Dante Bernini del 1967 (D. BERNINI, Sull’attività siciliana di Filippo Paladini, in “Commentari”, f.3, 1961, pp. 203-210), dove era sostenuta una rimeditazione del caravaggismo nel tessuto di matrice manierista dell’opera paladiniana, ponendo, in sostanza, le premesse per la grande mostra dello stesso anno a Palazzo dei Normanni, dove Brandi sosteneva la “felice” coesistenza delle due tendenze, negando tuttavia la totale conversione al naturalismo caravaggesco (cfr. Mostra di Filippo Paladini..., 1967). In anni recenti, ulteriori elementi di riflessione si sono aggiunti a quelli messi in luce nella mostra del 1967. L. SEBREGONDI FIORENTINI (Francesco dell’Antella, Caravaggio, Paladini e altri, in “Paragone”, a. XXXIII, ff. 383/385, 1982, pp. 107-122) datava la Decollazione del Battista al 1608; V. ABBATE (I tempi del Caravaggio: situazione della pittura in Sicilia (1580-1625), in Caravaggio in Sicilia..., 1984, pp. 54-58) poneva in rilievo i rapporti fondamentali della cultura artistica isolana con l’azione degli ordini religiosi, e più avanti (V. ABBATE, Per il collezionismo siciliano: la quadreria mazzarinese dell’Ecc.mo Signor Principe di Butera, in L’ultimo Caravaggio e la cultura artistica a Napoli, in Sicilia e a Malta, a cura di M. Calvesi, Ediprint, Siracusa 1987, pp. 293-314) evidenziava il ruolo promotore dei Branciforti nei confronti degli artisti operanti nell’isola. Una nuova ricostruzione delle vicende biografiche di Paladini si deve a Maria Grazia Paolini (M. G. PAOLINI, Filippo Paladini, in Il Seicento fiorentino. Arte a Firenze da Ferdinando I a Cosimo III, catalogo della mostra (Firenze 1986-1987), Cantini, Firenze 1986, vol. II, pp. 145-147 e vol. III, pp. 136-140) che riproponeva il problema della data di nascita del pittore rilevando le affinità con il Pocetti negli affreschi di Malta, tornando a spostare la Decollazione del Battista agli ultimi anni della sua attività. La mostra Pittori del Seicento a Palazzo Abatellis (a cura di V. Abbate, Electa, Milano 1990) recuperava altri due dipinti dell’artista, il Caino e Abele e lo studio del S. Francesco dalla Madonna delle Arpie di Andrea del Sarto. Infine, V. ABBATE, Maestri del Disegno nelle collezioni di Palazzo Abatellis, catalogo della mostra (Palermo 1995), E. Sellerio, Palermo 1995, documentava l’attività di Paladini collezionista di monete e medaglie antiche. In definitiva la questione sul grado di influenza caravaggesca nell’opera di Paladini rimane tuttora aperta.
[47] L. SCIASCIA, Un fatto culturale siciliano....., 1967, p. 851. Nell’articolo lo scrittore, pur elogiando le scelta del Governo regionale democristiano (la carica di Presidente dell’Assemblea Regionale in quegli era occupata da Rosario Lanza, che la detenne dal 1963 al 1971) di avvalersi della competenza di Brandi nella politica culturale, esprime alcune considerazioni sulla blanda attenzione nei confronti dello storico durante il suo periodo di docenza nell’ateneo palermitano (come noto Brandi fu titolare della cattedra di Storia dell’arte a Palermo, succedendo a Giulio Carlo Argan, dal 1959 al 1967). Sciascia, infatti, scrive: «Che il consiglio di Brandi sia stato accettato e realizzato, che alla glorificazione del maggior pittore siciliano si sia preferito un discorso, più sommesso nel senso, per cosi dire, della politica e più importante nel senso della cultura, sul pittore toscano, è un fatto senza dubbio positivo. E viene da considerare quante altre cose si sarebbero potute realizzare o avviare nel periodo in cui Cesare Brandi è stato a Palermo, titolare della cattedra di storia dell’arte all’Università: ma contentiamoci che almeno sul punto del suo trasferimento a Roma si sia fatto ricorso alla sua competenza (e ce ne contentiamo nella speranza che le altre iniziative suggerite da Brandi trovino realizzazione nell’arco di questa legislatura, e la mostra di Pietro Novelli al più presto)», (L. SCIASCIA, Un fatto culturale siciliano..., 1967, p. 851). La mostra su Novelli, come noto, si realizzerà poi soltanto nel 1990, Cfr. Pietro Novelli e il suo ambiente, catalogo della mostra (Palermo, Real Albergo dei Poveri, 1990), D. Flaccovio, Palermo 1990.
[48] Ibid., p.852. Il concetto della ‘vocazione al realismo’ nell’arte siciliana ricorre spesso negli scritti di Sciascia sulle arti, ma si tratta, va puntualizzato, di un pensiero che esula dalle specifiche problematiche di carattere formale, e si pone, semmai, su un versante più ampio, di carattere storico-culturale, dove lo scrittore esprime una visione universale della cultura siciliana, insieme figurativa e letteraria.
[49] Cfr. L. SCIASCIA, Presentazione in Pietro d’Asaro...,1984, pp. 19-22.
[50] Come noto, la riscoperta critica di Caravaggio si deve alla celebre mostra, curata da Roberto Longhi, del 1951 a Milano, cfr. Mostra del Caravaggio e dei Caravaggeschi, catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale 1951), introduzione di R. Longhi, Sansoni, Firenze 1951
[51] Cfr. E. PANZACCHI, Il libro degli artisti. Antologia, Cogliati, Milano 1902.
[52] Enrico Panzacchi (Ozzano dell'Emilia, 16 dicembre 1840 – Bologna, 5 ottobre 1904), poeta, critico d'arte e critico musicale italiano, nonché oratore e prosatore. Nel 1865 si laureò in filologia a Pisa, e l'anno seguente fu nominato professore di storia al liceo Azuni di Sassari. Insegnò Belle Arti all'Università di Bologna e fu deputato e sottosegretario alla Pubblica Istruzione. Assieme a Olindo Guerrini e a Giosuè Carducci formò il cosiddetto triumvirato bolognese. Fondò e diresse diverse riviste tra le quali spiccano Lettere e Arti, fondata a Bologna nel 1889 e la Rivista bolognese di scienze, lettere, arti e scuola. Fu anche critico musicale prediligendo fra tutte le opere di Wagner e di Verdi e, applaudito oratore, tenne conferenze sui più svariati argomenti. Nell’ambito della critica d’arte italiana a cavallo tra Otto e Novecento, Panzacchi si inserisce nel filone estetizzante e lirico rappresentato, tra gli altri, da figure come Angelo Conti, Gabriele D’Annunzio e Ugo Fleres. Su Panzacchi si veda almeno: E. LAMMA, Enrico Panzacchi. Ricordi e memorie, Zanichelli, Bologna 1905; A. ALESSANDRI, Il mondo poetico ed umano di Enrico Panzacchi, Gastaldi, Milano 1955; C. L. RAGGHIANTI, Profilo della critica d’arte in Italia, e complementi, Università Internazionale dell’Arte, Firenze 1990, p. 22 (1ª ed, Edizioni U stampa, Firenze 1948); G. C. SCIOLLA, La Critica d’arte del Novecento, Utet, Torino 1995, p. 52.
[53] L. SCIASCIA, Un pittore del profondo Sud, in “Malgrado Tutto”, ottobre-novembre 1984, p. 8 (si
tratta di una versione ampliata della prefazione di Sciascia al catalogo della mostra racalmutese su Pietro d’Asaro, precedentemente citata).
[54] L. SCIASCIA, Presentazione, in Pietro d’Asaro....., 1984, p. 7
[55] G. FERRÈ, Viaggio fantastico con Leonardo Sciascia: il mondo abita qui nella mia Racalmuto, in “Epoca”, f. 1791, 1 febbraio 1985, p. 33.
[56] Cfr. Il Caravaggio visto da Sciascia e Bufalino in “La Sicilia”, giovedì, 21 febbraio 1985.
[57] L. SCIASCIA, Caravaggio & C. in Sicilia, “Il Corriere della Sera”, 19 dicembre 1984, p. 13
[58] É da sottolineare anche la suadente ironia con cui Sciascia mette in relazione le due mostre, attraverso un sottile fil rouge che si interpone tra esse, ossia la presenza, il protagonismo e la protezione di Santa Lucia. Ed infatti, Santa Lucia viene festeggiata solennemente dalla città di Siracusa in occasione della sua ricorrenza il giorno 13 dicembre; si veda, inoltre, che il d’Asaro in veste di monocolo di Racalmuto, fu certamente devoto alla Santa, «quasi che Santa Lucia […] gli avesse dati facoltà di vedere con un occhio solo e di ritrarre con goduta virtù, quel che agli altri era dato di vedere – soltanto di vedere – con due». A partire dalla metà degli anni Settanta, l’innovazione introdotta dai “nuovi” Assessorati alla Cultura degli Enti locali puntò molto sulle mostre come strumento per innovare le politiche nel campo dell’arte e della cultura e per allargare la base sociale dei suoi pubblici. Nel settore delle mostre si è assistito non solo alla loro proliferazione, ma anche a una loro crescente differenziazione, a seconda che a gestirle fossero le istituzioni museali o gli enti, piccoli o grandi operatori privati, che si puntasse sulla valorizzazione delle collezioni esistenti o sulla loro circolazione, sul valore scientifico o sul ritorno economico, generando esposizioni di diversissima qualità e impatto, tanto sul piano economico e occupazionale quanto su quello culturale. Da questo scenario si sviluppa il fenomeno delle grandi mostre (o meglio: le mostre-evento a carattere commerciale, dette anche blockbuster = “spaccabotteghini”), cui Sciascia, in questo articolo sembra riferirsi denunciando i rischi di impoverimento culturale e scientifico, e soprattutto i rischi per la minore attenzione alla conservazione delle collezioni museali. Lo scrittore, come noto, era un attento e assiduo visitatore di mostre, in Italia e in Francia, come dimostrano le sue numerose recensioni. E, se si pensa al fatto che, contemporaneamente, frequentava gli ambiti più ristretti come le piccole gallerie, gli antiquari e gli ateliers degli artisti, si comprende bene che il suo giudizio sulla politica culturale “di massa” fosse particolarmente negativo, eccezion fatta per le mostre e gli eventi di una certa valenza scientifica e culturale. Sul fenomeno delle mostre blockbuster in Italia gli studi precursori sono: C. BRANDI, Museografia, mostre e restauro, in Problemi della tutela del patrimonio artistico, storico, bibliografico e paesistico, Atti del Convegno, Roma Accademia dei Lincei 6-7 marzo 1969), Accademia dei Lincei, Roma 1970, pp. 77-92; R. LONGHI, Mostre e musei (1959), riedito in R. LONGHI, Critica d'arte e buongoverno. 1938-1969, Sansoni, Firenze 1985, pp. 59-74. Mentre, tra i testi-chiave sui termini del dibattito sul fenomeno al suo sorgere negli anni Settanta e Ottanta si annoverano: A. CHASTEL, Editorial. Les expositions, in "Revue de l'Art", f. 26, 1974, pp. 4-7; R. SPEAR, Art History and the "Blockbuster" Exhibition, in "The Art Bulletin", a. LIVIII, f. 3, 1986, pp. 358-359; S.J. FREEDBERG, G. JACKSON-STOPS, R. SPEAR, Discussion. On "Art History and the 'Blockbuster' Exhibition, in "The Art Bulletin", a. LXIX, f. 2, 1987, pp. 295-298; il numero di "Art in America" del giugno 1986 conteneva una sezione speciale intitolata Museum Blockbusters in cui si dibatteva dell'argomento; L. MIOTTO, La memoria esposta. Esposizioni e musei, Mondadori, Milano 1986. Infine, per un quadro generale, che ricapitola bene il problema, anche in prospettiva storica, cfr. F. HASKELL, The Ephemeral Museum. Old Master Paintings and the Rise of the Art Exhibition, Yale University Press, New Haven - London 2000; D. LEVI, "At What Expense? At What Risk?" Qualche riflessione sulla legittimità delle mostre, in "Predella", a. IV, f. 16, 2005, pp. 15-23.
[59] L. Sciascia, Caravaggio...., 1984, p. 13.
[60] In realtà, i maggiori dubbi sull’autografia, nella critica novecentesca, dettate principalmente da fattori conservativi (interventi e ridipinture ottocentesche), riguardarono principalmente la Resurrezione di Lazzaro (E. MAUCERI, Restauri a dipinti del Museo Nazionale di Messina, in “Bollettino d’Arte”, s. II, a. I, f. 10, 1922 pp. 581-586; E. MAUCERI, Il Caravaggio in Sicilia ed Alonso Rodriguez pittore messinese, in “Bollettino d’Arte”, s. II, a. IV, f. 12, 1925, pp. 559-571; N. PEVSNER, Eine revision der Caravaggio-Daten, in “Zeitschrift für bildende Kunst”, 1927-1928, pp. 386-392; M. CINOTTI, G. A. DELL’ACQUA, Caravaggio, Bolis, Bergamo 1983). Per la storia attribuzionistica dei tre dipinti si rimanda, con bibliografia specifica, alle rispettive schede nel catalogo della mostra del 1984 (cfr. G. BARBERA, scheda n. 8, pp. 147-152, C. CIOLINO MAUGERI, schede n. 9-10, pp. 153-157 e 158-161, in Caravaggio in Sicilia..., 1984).
[61] L. Sciascia, Caravaggio...,1984, p. 13. Qui, naturalmente, il riferimento è rivolto al noto caso delle teste false di Modigliani, scoppiato in occasione della mostra, promossa per il centenario della nascita, nel 1984 al Museo progressivo di arte moderna di Livorno, che portò gran parte degli studiosi del tempo in uno degli “infortuni” attribuzionistici più eclatante del Novecento.
[62] Il testo di Berenson su Caravaggio a cui lo scrittore fa riferimento è lo studio del 1951, cfr. B. BERENSON, Del Caravaggio, delle sue incongruenze e della sua fama, Electa, Firenze 1951 (trad. ingl., Caravaggio, His Incongruity and His Fame, Chapman & Hall, Londra e Macmillan, New York 1953), pp. 39-42
[63] L. SCIASCIA, Caravaggio..., 1984, p. 14
[64] Su questo cfr. G. C. SCIOLLA, La critica d’arte ..., 1995, p. 65.
[65] J. COSTELLO, The twelve pictures «ordered by Velasquez» and the trial of Valguarnera, in “Journal of the Warburg and Courtauld Institutes”, f. 13, 1950, pp. 237-284
[66] L. SCIASCIA, Quadri come diamanti, in “Nuovi Argomenti”, 1988, febbraio, numero speciale, pp. 6-13 (poi ripubblicato in Fatti diversi di storia letteraria e civile, Sellerio, Palermo, 1989, pp. 30-43; e recentemente nella riedizione Adelphi: Fatti diversi di storia letteraria e civile, Adelphi, Milano 2009, pp. 45-65).
[67] Cfr. Delle cose di Sicilia...,1980, 1982, 1984, 1986.
[68] F. RENDA, Leonardo Sciascia e la storia, in Sciascia: scrittura e verità, Atti del convegno, Palermo, novembre -dicembre 1990, D. Flaccovio, Palermo 1991, p. 91.
[69] Ibid., pp. 92-93.
[70] I rapporti tra Sciascia e Scuderi – come ho appreso in seguito a una piacevole conversazione con quest’ultimo, che ringrazio vivamente – hanno inizio a Palermo, nei primi anni Ottanta, negli uffici della Sellerio, tra scambi di opinioni e di pubblicazioni d’arte; e si intensificano durante l’organizzazione della mostra racalmutese di Pietro d’Asaro, per la quale lo scrittore mostrò un interesse non marginale anche nelle fasi di allestimento e di curatela delle relative pubblicazioni (il catalogo della mostra, curato da Maria Pia Demma; e gli Atti del Convegno di poco successivi).