Uno dei
dipinti più enigmatici ed affascinanti
presenti in Sicilia è certamente una
tavola fiamminga della chiesa di S.
Giorgio di Caltagirone, indicata come
Il mistero della Trinità (fig. 1) e
attribuita comunemente dalla
storiografia locale a Roger van der
Weyden[1].
Il dipinto è pervenuto alla chiesa
parrocchiale grazie alla baronessa Agata
Interlandi di Favarotta: un codicillo al
suo testamento del 1777 disponeva che
alla morte della nobildonna – poi
avvenuta nel 1783 – il quadro venisse
custodito nell’edificio sacro per essere
esposto alla pietà dei fedeli[2].
Si tratta di
un olio su tavola, il cui supporto è
costituito da quattro assi. Il dipinto
fino a poco tempo addietro era
incastrato entro un tabernacolo marmoreo
eretto su uno degli altari nel 1908
dagli amministratori della
Fidecommissaria Interlandi, fondata
dalla baronessa a fini di beneficenza[3].
Il quadro
rappresenta in effetti una particolare
raffigurazione della Trinità, quella
meglio nota come Trono della Grazia
(Gnadenstuhl,
Trône de Grâce, Throne of Grace;
cfr. Ebrei, 4, 16), ove siede Dio
padre che sorregge il Cristo morto, con
la colomba dello Spirito Santo tra i
volti del Padre e del Figlio. Inoltre
nel registro inferiore figurano lo
Svenimento della Vergine addolorata
sorretta da S. Giovanni evangelista –
nel ruolo consueto di intercessori – e
la Maddalena. Un registro intermedio è
riferibile all’iconografia del giudizio
universale: il globo su cui poggiano i
piedi del Cristo, la nube rossa che
separa il piano umano da quello divino,
i due angeli che reggono uno il manto
del Padre e l’altro un lembo del
baldacchino che sovrasta il trono:
Raffaele con il giglio che simboleggia
la purezza degli eletti e la
misericordia, alla destra della Trinità,
Gabriele con la spada, che rappresenta
la giustizia divina, alla sinistra del
trono, in corrispondenza delle analoghe
scene riferibili al Giudizio, dove i due
angeli sono comunemente rappresentati il
primo nell’atto di indicare la strada
del paradiso, il secondo nel respingere
i dannati all’inferno. Anche il fondale
del dipinto segue i tre registri: quello
superiore è oscuro, l’intermedio è
rappresentato dalla nube rossa,
l’inferiore presenta un fondo oro con in
basso la superficie terrestre su cui
poggiano i piedi della Madonna, di S.
Giovanni e della Maddalena.
Un’attribuzione confermata
Il dipinto
rappresenta la contaminazione di alcuni
temi spesso presenti nella pittura
fiamminga del Quattrocento. Si tratta,
per quel che riguarda il Trono della
Grazia, di una iconografia
ricorrente, a partire da quel Maestro di
Flemalle che Georges Hulin de Loo ha
riconosciuto in Robert Campin, che
possiamo ritenere uno dei precursori.
Proprio Campin infatti ha dipinto più
volte lo stesso soggetto: in una tavola
oggi al Museo di Leningrado, che ha
notevoli consonanze con il dipinto
siciliano, e in un’altra versione in
grisaille. Dopo Campin numerosi
altri maestri si sono cimentati sullo
stesso tema.
Riguardo
all’autore del dipinto di Caltagirone la
storiografia più accorta ha avanzato da
tempo l’ipotesi che si tratti dello
stesso che ha dipinto il Giudizio
universale dell’Ayuntamento di
Valencia (fig. 2) e il Trittico della
Redenzione del Museo del Prado
(fig. 3), artista che sempre Hulin de
Loo ha identificato con il pittore
fiammingo Vrancke van der Stockt.
Questi, figlio del pittore Jan, nato
probabilmente a Bruxelles prima del
1420, nel 1445 eredita la bottega del
padre, divenendo maestro della gilda di
San Luca di Bruxelles. Con molta
probabilità fu amico e forse anche
allievo di Rogier van der Weyden; alla
morte di questi, avvenuta nel 1464, gli
subentrò nella carica di pittore
ufficiale della città di Bruxelles. Nel
1468 Stockt lavorò a Bruges – era tra i
pittori meglio pagati – alle decorazioni
per le nozze di Margherita di York e
Carlo il Grosso[4].
Il pittore morì nel 1495[5].
Già nel 1968
Giovanni Carandente, dopo un accurato
studio della tavola e dei suoi temi
iconografici, proponeva di ascrivere il
dipinto di Caltagirone al pittore
identificato da Hulin de Loo, appunto il
presunto van der Stockt[6].
Sulle orme di Carandente si sono mossi i
successivi studiosi che hanno confermato
l’attribuzione al “Maestro della
Redenzione del Prado”: così Anna
Barricelli[7]
e Licia Ragghianti Collobi[8].
D’altro canto il dipinto siciliano è
naturalmente divenuto oggetto di studio
e di comparazione per la ricostruzione
dell’opera pittorica del maestro
fiammingo: così viene citato ad es. da
Micheline Comblen-Sonckes[9]
e da Elisa Bermejo Martinez[10].
L’attribuzione a Vrancke van der Stockt
mi convince appieno, e ritengo si possa
rafforzare grazie alle ulteriori
acquisizioni riguardanti il pittore
fiammingo. Infatti tra i dipinti
certamente riconosciuti come opera di
Vrancke ve n’è uno conservato al Museum
Mayer van den Bergh di Anversa: un olio
su tavola raffigurante il Compianto
sul Cristo morto (Lamentation),
proveniente dalla collezione Bligny di
Parigi, su cui si era già soffermata
l’attenzione di Carandente (fig. 4)[11].
La narrazione si svolge su due piani:
nel primo San Giovanni Evangelista e la
Madonna sorreggono il corpo esanime del
Cristo appena deposto dalla Croce, di
cui si intravede sul fondo il palo
verticale. In secondo piano le tre
Marie: la prima da sinistra, Maria di
Cleofa, piangente, che regge un’ampolla
con olii profumati, la seconda, Maria
Salome, raffigurata in atto di
lamentarsi a braccia aperte, infine la
Maddalena contrita a mani giunte.
Proprio la Maria Salome (fig. 5) ha un
viso senza dubbio della stessa mano che
ha dipinto il volto della Vergine della
tavola Interlandi (fig. 6). Altre forti
analogie si riscontrano nella
Deposizione dalla Croce custodita
alle Bayerische
Staatsgemäldesammlungen di München[12]:
anche qui il San Giovanni presenta forti
somiglianze con quello di Caltagirone;
la Madonna ha una posa simile – specie
le mani –, ed è stavolta il viso della
Maddalena a riprodurre le esatte
fattezze della Vergine calatina (fig.
7): con ogni probabilità la modella
utilizzata dal maestro fiammingo è stata
la medesima per la Maria di Caltagirone,
la Maddalena della Deposizione di
München e
la Maria Salome del Compianto di
Anversa: una giovane donna con una
distanza interpupillare particolarmente
accentuata.
Tale ultimo
dipinto presenta notevolissime analogie
con il Trono della Grazia di San
Giorgio, già parzialmente rilevate da
Giovanni Carandente. Anzitutto la figura
di S. Giovanni, e particolarmente il suo
viso (figg. 8-9), che esprime pienamente
il dolore, con occhi gonfi e
atteggiamento lamentoso, lontano dalle
corrispondenti figure dipinte dagli
altri maestri fiamminghi, e soprattutto
dall’espressione virile dei S. Giovanni
di van der Weyden. Gli elementi di
consonanza tra la Madonna di S. Giorgio
e i personaggi femminili della tavola di
Anversa sono ancora maggiori: il suo
viso è molto somigliante a quello di
Maria Salome; il panneggio del manto è
assai vicino a quello di Maria di
Cleofa, il colore bleu della
veste di questa è lo stesso della
Madonna di Caltagirone. Anche il fondo
del quadro olandese è dorato, con in
primo piano la nuda terra, qui con la
corona di spine e il teschio di Adamo,
ove crescono piccole piante ed erbe del
tutto simili a quelle che si vedono ai
piedi della Madonna e della Maddalena
nel quadro siciliano. Se poi, sulla
intuizione di Hulin de Loo, riconosciamo
nel Giudizio dell’Ayuntamiento di
Valencia[13]
un’altra opera di van der Stockt, le
analogie diventano ancora più
impressionanti: come la fibbia trilobata
che chiude il mantello dell’arcangelo
Michele di Valencia, uguale a quella sul
petto del Dio padre di Caltagirone[14];
o il globo su cui poggiano i piedi del
Cristo, in ambedue i dipinti di un
colore bleu trasparente, con due
pennellate bianche che donano luce alla
sfera, circondata da una fascia dorata
(figg. 10-11). Su uno dei portelli del
Giudizio Universale di Valencia,
oggi in una collezione privata di
Madrid, è inoltre raffigurato un angelo
con una spada identica a quella della
tavola calatina (figg. 12-13). Altro
dipinto utile a tal fine è la
Presentazione della Vergine al Tempio
custodito all’Escorial, e che si può
ammirare accanto alla porta della camera
da letto di re Filippo II – che
evidentemente non disdegnava affatto le
opere di Vrancke van der Stockt –.
Proprio questa tavola rappresenta un
importante ‘ponte’ per l’attribuzione,
perché, come ricorda la Bermejo
Martinez, è stata collegata da
Friedländer «con el llamado Retablo
de Cambrai del Prado» e da
«Carandente con el Trono de la Gracia,
que atribuye a Van der Stockt en
Caltagirone (Sicilia)»[15].
Ulteriori elementi per l’attribuzione
del Trono della Grazia calatino a
van der Stockt provengono dalla
Trinità custodita al Museo
Arqueológico Nacional di Madrid (fig.
14), attribuita dalla studiosa iberica
al pittore fiammingo[16].
Si tratta in effetti di un Trono
della Grazia, giustamente messo in
relazione con le opere di Campin.
Probabilmente costituiva uno sportello
di un dittico: secondo la Bermejo
Martinez l’altra tavola sarebbe quella
raffigurante – non a caso – la «Virgen
desfallecida en brazos de San Juan» del
Museo di Oldenburg. La colomba dello
Spirito santo della tavola di
Caltagirone ha notevolissime assonanze
con quella madrilena: le ali spiegate in
volo sono assolutamente corrispondenti.
La storica dell’arte attribuisce l’opera
a van der Stockt anche grazie ad un
dettaglio tipico delle opere del pittore
di Bruxelles: «la singular forma che
tiene el artista de tratar el espacio
que queda entra la nariz y el labio
superior, que forma una especie de
ligero abultamiento en el centro como
puede apreciarse, muy claramente, en el
rostro del Cristo»[17].
Il volto del Cristo di Caltagirone
presenta la stessa particolarità,
proprio quel «leggero avvallamento» tra
narice e labbro superiore rilevato con
tanta finezza dalla Bermejo. Importanti
elementi comparativi provengono inoltre
dal confronto con un’altra opera di van
der Stockt: il cartone preparatorio di
un piviale tessuto a Tournai nella
seconda metà del Quattrocento e
raffigurante il Trono della Grazia
su una nube in tutto simile a quella di
Caltagirone insieme al Mistero
dell’Eucarestia (fig. 15), nel quale
Luigi Belvedere ha riconosciuto la
medesima costruzione ‘pittorica’ del
Trono della Grazia Interlandi[18].
Riguardo alla
datazione della tavola sarei propenso a
considerarla frutto della maturità del
pittore, ricca di opere di impianto più
denso di simboli e meno descrittivo. Un
elemento utile in tal senso è secondo me
la corona che cinge il capo del Dio
padre in trono: non una tiara, come da
qualcuno sostenuto, ma una
raffigurazione particolareggiata della
corona imperiale, quella ritenuta nel
medioevo la corona di Carlo Magno (fig.
16). In effetti alcuni Troni della
Grazia, tra cui quello di
Caltagirone, databili tra fine
Quattrocento e prima metà del
Cinquecento, raffigurano Dio padre con
tale corona: ancora nelle opere
attribuite a Robert Campin la corona è
coperta, mentre gli autori successivi la
raffigurano realisticamente, aperta con
archetti che sorreggono la croce
sovrastante. Come conobbe van der Stockt
le reali fattezze della corona
imperiale? In effetti i ritratti di
Federico III e di suo figlio
Massimiliano I d’Asburgo raffigurano i
sovrani con la cosiddetta corona di
Carlo Magno; e tale particolare si
ricollega a un particolare momento
storico, che vede le Fiandre sfuggire
all’area di influenza del re di Francia
per entrare nell’orbita dell’impero:
questi mutamenti politici si rafforzano
grazie alle nozze tra Massimiliano I e
Maria di Borgogna, avvenute nel 1477.
Secondo la Cronaca di Jean
Molinet quando Federico e Massimiliano,
insieme al giovane Filippo il Bello,
entrarono a Bruxelles nel 1486, gli
abitanti della città affermarono
commossi: «Veéz-ci figure de la Trinité,
le Pére, le Fils et Sancte esprit»[19].
Un’immagine troppo potente per non
colpire gli astanti, una Trinità
imperiale! Il quadro potrebbe quindi
essere stato dipinto tra il 1486 e il
1495. Significativamente la Trinità
di Madrid invece raffigura ancora Dio
padre con una corona coperta, nello
stile di Campin, dettaglio spiegabile
considerando questo dipinto anteriore a
tale data.
Credo quindi
che l’attribuzione della tavola calatina
al pennello di van der Stockt operata da
Carandente sia da confermare appieno,
senza più attardarsi a considerare il
dipinto opera di van der Weyden – come
ho già avuto modo di affermare in una
conferenza del 5 novembre 2011 –[20].
Peraltro la storiografia ha riconosciuto
nel corpus di van der Stockt
l’uso di stili e motivi tipici di Roger
van der Weyden, di cui Stockt fu
seguace e il principale diffusore
dell’opera: tanto che la sorte del
Trono della Grazia di Caltagirone,
cioè l’essere stato attribuito a lungo a
Roger, è stata comune ad altre tavole di
Vrancke, come ad esempio il Retablo
di Cambrai, anch’esso assegnato
al maestro e non all’allievo, o, più di
recente, il Retablo di Ambierle[21].
Peraltro le opere di van der Stockt si
distinguono da quelle di van der Weyden
per la predilezione del primo per i
dettagli narrativi e per un pathos
meno accentuato: la drammatizzazione dei
dipinti di Weyden diventa di maniera nel
successore[22].
Dalle
Fiandre alla Sicilia
Dobbiamo
adesso rivolgere la nostra attenzione al
problema storico dell’arrivo della
tavola fiamminga a Caltagirone. Da più
di un secolo ci si interroga su questo
tema, senza venirne a capo; si è
avanzata l’ipotesi più comune, cioè che
il quadro costituisse una sorta di
controprestazione per uno dei frequenti
invii di grano siciliano in Fiandra;
fino a scomodare donna Giovanna
d’Austria, figlia dell’eroe di Lepanto
don Juan, che avrebbe ipoteticamente
ricevuto il dipinto dalla zia
Margherita, figlia di Carlo V e
governatrice dei Paesi Bassi: Giovanna,
di passaggio a Caltagirone nel 1604,
avrebbe in qualche modo lasciato il
quadro nella città erea[23].
Ma lasciamo
da parte le mere ipotesi e cerchiamo di
seguire i sentieri della storia.
Partiamo dall’unico dato certo finora a
nostra disposizione: il quadro venne
legato alla chiesa di S. Giorgio di
Caltagirone grazie alle disposizioni
testamentarie della baronessa di
Favarotta, Agata Interlandi Lorefice, in
un codicillo rogato dal notaro Avila nel
1777; il dipinto venne effettivamente
trasportato nell’edificio sacro
probabilmente alla morte della
nobildonna, avvenuta nel 1783. Da allora
il Trono della Grazia è rimasto
sempre a San Giorgio fino a tempi
recentissimi[24].
Il contesto
temporale entro cui muoverci, quindi,
spazia dalla metà del Quattrocento,
epoca in cui era attivo il maestro
fiammingo, e il 1777, data in cui il
dipinto è certamente in possesso di
Agata.
Le vie della
storia sono spesso più semplici di
quanto comunemente non si creda: il
quadro è probabilmente appartenuto alla
famiglia Interlandi da generazioni.
Agata deve avere ereditato il dipinto
dal padre Pietro Angelo Interlandi e
Santapau, figlio di Camilla Felice
Santapau, appartenente alla potente
famiglia dei feudatari di Licodia:
casata che aveva frequentato per diversi
motivi i Paesi Bassi all’epoca di Carlo
V. Questa costituisce la prima
possibilità da prendere in
considerazione: un esponente di casa
Santapau potrebbe aver acquistato la
tavola Interlandi proprio in Fiandra
durante il sec. XVI.
Un’altra
pista risale ancora, agli antenati più
remoti di donna Agata, fino a Pietro
Interlandi, morto nel 1554 e sepolto
entro un elegante monumento marmoreo
nella chiesa del Carmine di Licodia.
Pietro era figlio di Antonia Ottolini,
appartenente ad una antica e illustre
casata di mercanti originaria di Lucca[25].
Quella degli Ottolini rappresenta
un’altra via tramite cui il quadro può
essere giunto in Sicilia: i
nobili-mercanti di Lucca erano da tempo
presenti nelle piazze commerciali dei
Paesi Bassi, ed avevano gusti certo
raffinati: basti pensare al mirabile
ritratto dei coniugi Arnolfini, di Jan
van Eyck.
Ma
probabilmente la storia segue strade
ancora più lineari. Gli stessi antichi
alberi genealogici dell’archivio
Interlandi di Favarotta[26]
narrano che la famiglia, giungendo in
Sicilia dal regno di Napoli, mutò
cognome: quello originario era
Terlandi. Un cognome davvero
singolare, che evoca sonorità del Nord
Europa, der land, la terra…
esiste un’altra tradizione, secondo cui
il nome originale degli Interlandi era
ancora diverso: Clingeland o
Kinkerland, e che ricorda la loro
presenza in un centro sempre vicino a
Caltagirone, Vizzini[27].
Le nebbie del passato iniziano a
diradarsi: gli stessi Interlandi
dovevano essere originari delle Fiandre.
Probabilmente ricchi mercanti, cattolici
quando iniziava il fermento della
protesta religiosa, attivi e presenti –
insieme agli Ottolini – a Vizzini,
Licodia, Militello, dopo – forse – un
soggiorno nel regno di Napoli. Una
famiglia mercantile poteva certo
considerarsi parte di una élite
nel Quattrocento, ma alla metà del
Cinquecento la prospettiva aristocratica
muta rapidamente. Il secolo di ferro è
caratterizzato da un fenomeno di
rifeudalizzazione e di verticizzazione
degli ordinamenti in chiave nobiliare.
Anche la Sicilia non sfugge a questo
trend europeo: gli aristocratici
aspirano al monopolio delle cariche
pubbliche, chiudono l’accesso agli
ordini cavallereschi, ai gradi militari.
Requisito necessario per far parte della
nobiltà diviene ben presto non avere
antenati che abbiano esercitato arti
vili e meccaniche, come artigiani,
mercanti, cambiavalute, persino notai[28].
È così che tra il sec. XVI e il XVII i
baroni Interlandi devono ‘travestire’
gli antichi mercanti fiamminghi
Clingeland/Klinkerland cercando di far
dimenticare la loro estrazione e il
‘peccato originale’, la mercatura.
Tentiamo
allora di risalire ancora verso la vera
patria degli Interlandi. Il cognome
Klinkerland-Clingeland è un
nome composto, il suffisso –land
indica la terra, la provenienza. Quindi
una famiglia originaria di un luogo che
si chiamava Clinge o Klinge. Una
cittadina di tale nome esiste davvero,
nei pressi della città fortificata di
Hulst, e dal 1815 è attraversata dal
confine tra Belgio e Olanda – quindi
divisa in due comunità, Clinge/de Klinge
–, in posizione mediana tra Bruxelles,
Anversa, Bruges. Proprio nel nome della
cittadina si nasconde la soluzione del
nostro mistero. Infatti il significato
della parola Clinge/Klinge in
olandese è proprio ‘spada’: lo stemma
degli Interlandi/Clingeland di
Caltagirone è quindi in effetti un’arma
parlante, cioè un’insegna che
rappresenta anche visivamente il nome e
le virtù del casato: «palato d’oro e di
rosso, alla spada d’argento manicata
d’oro posta in banda» (fig. 17). La
spada ricordava il centro da cui aveva
avuto origine il nome, Clinge, cittadina
che ancora oggi inalbera come stemma
proprio una spada posta di traverso in
campo rosso (fig. 18), assolutamente
uguale a quella degli Interlandi, tranne
per il particolare dei tre pali che
attraversano perpendicolarmente lo scudo
calatino, ad indicare una distinzione,
un ramo diverso del casato originario,
pali forse aggiunti dal ramo siciliano,
che nell’Isola dovette abbandonare
l’originario cognome – van Clingelandt,
cioè colui che viene dalla terra di
Clinge – per la forma siciliana/italiana
Interlandi, più comprensibile nelle
cittadine ove il casato aveva costruito
la sua nuova fortuna. Quando i
Clingeland giunsero in Sicilia dovettero
recare insieme agli oggetti più cari
anche il Trono della grazia
dipinto da van der Stockt, e lo
custodirono nelle loro dimore fino al
1783, allorché, alla morte dell’ultima
erede del casato, la tavola venne
trasportata nella chiesa di S. Giorgio.
La Trinità calatina è infatti una
tipica opera devozionale dipinta per il
culto privato.
[1]
Cfr. S.
Leonardi,
Cenni
su la
Caltagirone
sacra,
F.
Napoli,
Caltagirone
1892, p.
32; V.
Dicara,
La
Tavola
della
Trinità
attribuita
a Rogier
van der
Weyden,
in
Per
omnia
saecula
saeculorum.
Tertio
millennio
adveniente.
Capolavori
siciliani
di arte
sacra,
a cura
di V.
Valenti,
Diocesi
di
Caltagirone,
Caltagirone
2001,
pp. 127
sgg.; G.
Federico,
Il
mistero
dell’amore
del
Padre –
Lettura
iconografica
della
tavola
della
Trinità,
ivi, pp.
131 sgg.
Voglio
qui
ricordare
il
compianto
parroco
di S.
Giorgio,
Padre
Vacirca,
per
avermi
consentito
uno
studio
accurato
del
dipinto
e averne
autorizzato
la
riproduzione.
[2]
Archivio
di Stato
di
Catania,
sez. di
Caltagirone,
not.
Ignazio
Avila,
vol.
67/4428,
fol. 60r
sgg.:
«Di più
lego
alla
venerabile
parochiale
basilica
chiesa
di San
Giorgio
il
quadro
della
Santissima
Trinità
per
esporsi
alla
pubblica
venerazione,
con
farsi
prima
dagli
illustrissimi
fidecommissarii
pulire
da
persona
prattica
la
pittura,
e
cornice,
e
nobilitarlo
con un
cristallo
innanzi.
Voglio,
ordino
et
comando,
che in
ogn’anno
li
sudetti
miei
fidecommissarii,
e loro
successori
in tal
carica,
facciano
celebrare
la festa
della
SS.ma
Trinità
nella
venerabile
chiesa…».
[3]
Sul
tabernacolo,
oltre
allo
stemma
Interlandi
(ma si
tratta
di
un’insegna
appartenente
al ramo
dei
principi
di
Bellaprima,
e
diversa
da
quella
utilizzata
dai
Favarotta)
è incisa
un’iscrizione
commemorativa.
Ringrazio
il
fidecommissario
Massimo
Porta
per
avere
agevolato
la
consultazione
dell’archivio
dell’istituzione.
[4]
Sulle
nozze
cfr. J.
Huizinga,
Herfsttij
der
Middeleeuwen.
Studie
over
levens –
en
gedachten
vormen
der
veertendie
en
vijftiende
eeuw in
Frankrijk
en de
Nederlanden,
Leiden
1919,
trad. it.
L’autunno
del
medioevo.
Studio
sulle
forme di
vita e
di
pensiero
del
quattordicesimo
e
quindicesimo
secolo
in
Francia
e nel
Paesi
Bassi:
ho
consultato
l’ed.
Newton,
Roma
2011,
con
intr. di
L.
Gatto,
trad. di
F. Paris,
p. 273.
[5]
Sull’artista
cfr. E.
Bermejo
Martinez,
La
pintura
de los
primitivos
flamencos
in
España,
Consejo
superior
de
investigaciones
cientificas,
Instituto
«Diego
Velasquez»,
Madrid
1980, p.
139; J.
Turner,
The
Dictionary
of Art,
vol.
XXIX,
ad vocem
a cura
di
C.
Périer-D' Ieteren,
McMillan,
London
and New
York,
1996,
pp.
691-693.
La
bibliografia
su van
der
Stockt è
ormai
cospicua:
gli
ultimi
contributi
in
D.
Deneffe,
B.
Fransen,
V.
Henderiks,
H. Mund,
Early
netherlandish
painting.
A
bibliography
(1999-2009),
Contributions
to the
Study of
the
Flemish
Primitives,
11,
Centre
for the
Study of
the
Flemish
Primitives,
Brussel
2011,
pp. 186
sgg., e
letteratura
ivi
citata.
[6]
G.
Carandente,
Collections
d’Italie,
I.
Sicile.
Les
Primitifs
Flamands,
II,
Répertoire
des
peintures
flamandes
du
Quinzième
siècle,
3,
Centre
national
de
recherches
«Primitifs
flamands»,
Bruxelles
1968,
pp. 7
sgg.
Carandente
ritornò
sull’attribuzione
più
tardi,
confermandola.
Cfr.
G.
Carandente,
G. Voza,
Arte
in
Sicilia,
Electa,
Milano 1974,
p. 234.
[7]
A.
Barricelli,
La
pittura
in
Sicilia
dalla
fine del
Quattrocento
alla
controriforma,
in
Storia
della
Sicilia,
vol. X,
Società
editrice
Storia
di
Napoli e
della
Sicilia,
Palermo
1981, p.
36.
[8] L. Ragghianti Collobi, Dipinti fiamminghi in Italia 1420-1570: catalogo, Calderini, Bologna 1990, p. 19.
[9]
M.
Comblen-Sonkes,
The
Collegiate
Church
of Saint
Peter,
Louvain,
Brepols,
Brussels
1996.
[10]
Bermejo
Martinez,
La
pintura
de los
primitivos
flamencos…,
pp. 137
ss.
[11]
Cfr. il
database
dell’opera
di van
der
Stockt
disponibile
presso
l’Institut
royal du
Patrimoine
artistique
del
Belgio,
con sede
a
Bruxelles,
al n.
90537
(www.kikirpa.be).
[12]
Ivi, n.
40004438.
[13]
Ivi, n.
40001709.
Sull’opera
cfr.
Bermejo
Martinez,
La
pintura
de los
primitivos
flamencos…,
141-142.
[14]
Ringrazio
Luigi
Belvedere,
che ha
stimolato
le
autorità
competenti
con
forte
impegno
per un
corretto
restauro
del
Trono
della
Grazia
Interlandi,
per
avermi
comunicato
questo
dato e
per le
stimolanti
discussioni
sull’opera
di van
der
Stockt.
[15]
Carandente,
Collections
d’Italie,
I.
Sicile…,
p. 7 n.
1;
Bermejo
Martinez,
La
pintura
de los
primitivos
flamencos…,
p.
143.
[16]
Tavola
di cm 56
x 39,
inv. n.
51.916,
su cui
Bermejo
Martinez,
La
pintura
de los
primitivos
flamencos…,
pp.
146-147.
[17]
Ivi, p.
147.
[18]
Cfr.
supra,
nota 14.
Il
piviale
è
custodito
a Bern,
Historisches
Museum,
Inv. n.
308; v.
anche
Carandente,
Collections
d’Italie,
I.
Sicile…,
p. 8.
[19]
Chroniques,
III, p.
99, cit.
da
Huizinga,
Herfsttij
der
Middeleeuwen…,
p. 184.
[20]
Tenuta
nel
Palazzo
municipale
di
Caltagirone;
cfr. M.
Messineo,
La
tavola
attribuita
a van
der
Stockt,
in La
Sicilia,
9
novembre
2011, p.
41; A.
Navanzino,
Quella
misteriosa
tavola a
San
Giorgio.
Il Trono
della
Grazia,
in
L’Obiettivo,
23
novembre
2011, p.
12.
[21]
Sul
quale
M.R. de
Vrij,
Vrancke
van der
Stockt
en het
retabel
van
Ambierle,
in “Koninklijk
Museum
voor
Schone
Kunsten”,
1998, p.
209-231.
[22]
Bermejo
Martinez,
La
pintura
de los
primitivos
flamencos…,
pp.
139.
[23]
Tale
ipotesi
è stata
avanzata
da
Dicara,
La
tavola
della
Trinità
attribuita
a Rogier
van der
Weyden…,
p. 127.
[24]
Il
dipinto
è
attualmente
esposto
nel
Museo
diocesano
di
Caltagirone,
all’interno
del
convento
di S.
Francesco
d’Assisi.
[25]
F.
Mugnos,
Teatro
genologico
delle
famiglie
nobili
titolate
feudatarie
ed
antiche
nobili
del
fidelissimo
Regno di
Sicilia,
viventi
ed
estinte,
D’Anselmo,
Palermo
1655,
III, pp.
67 sgg.
[26]
Cfr.
Caltagirone,
Archivio
della
Fideicommissaria
Interlandi,
vol.
Assetto
generale…,
1742.
[27]
Cfr. ad
es.
Archivio
di Stato
di
Catania,
sez. di
Caltagirone,
notarile
di
Vizzini,
not.
Giacomo
Fischetti,
reg.
121, fol.
219v, 24
luglio
1566,
ind. IX.
Don
Giovanni
Tiralosi,
colto
ecclesiastico
di
Vizzini,
al tempo
in cui
resse la
parrocchia
Matrice
di
quella
città –
durante
gli anni
settanta
del
Novecento,
e quindi
in
periodo
non
sospetto
riguardo
alla
attribuzione
della
tavola
fiamminga
– reperì
nell’archivio
parrocchiale
un
documento
attestante
che il
vero
capostipite
del
casato
era una
dama,
donna
Diana
Clingeland
o
Klinkerland,
i cui
discendenti
avrebbero
adottato
il
cognome
materno,
trattandosi
di
famiglia
illustre
e
cospicua,
e
‘italianizzato’
il nome
in
Interlandi.
Tale
documento
purtroppo,
nonostante
le mie
accurate
ricerche,
si è
rivelato
introvabile.
[28]
Sulle
aristocrazie
di
questa
parte di
Sicilia
cfr. G.
Pace,
Il
governo
dei
gentiluomini.
Ceti
dirigenti
e
magistrature
a
Caltagirone
tra
medioevo
ed età
moderna,
Il Cigno
Galileo
Galilei,
Roma
1996, e
letteratura
ivi
citata.
[29]
Huizinga,
Herfsttij
der
Middeleeuwen…,
p. 23.