Le radici culturali e iconografiche di Nino Franchina affondano
profondamente nel territorio siciliano. Lungo l’intero arco della sua
carriera si percepisce distintamente un continuo richiamo a valori
artistici influenzati dalla cultura siciliana che lo scultore rielabora
e che si manifestano come puro istinto cognitivo soprattutto nei suoi
ultimi esiti scultorei[1].
Nonostante il costante compimento del proprio destino di ‘emigrante’,
lontano dalla propria terra ma visceralmente legato ad essa, i primi e
più rilevanti riferimenti di Franchina all’arte siciliana si possono
cogliere soprattutto fra gli anni Trenta e Quaranta, durante la prima
fase del suo percorso artistico, quando dalla sua scultura, di impronta
realista, si percepisce un gusto dal forte sentore arcaico e primitivo.
Questo profondo legame di tipo iconografico con la Sicilia resta
constante nell’artista fino al momento della svolta definitiva della sua
carriera e dell’acquisizione di un linguaggio formale astratto.
All’inizio degli anni Trenta il giovane Franchina, ancora
allievo presso l’Accademia di Belle Arti di Palermo[2],
si confronta con l’opera dei coetanei e amici[3].
La sua indole profondamente curiosa lo spinge a osservare l’immenso
patrimonio artistico che la Sicilia offriva, determinando una ricerca di
modelli di riferimento nell’arte classica con lo scopo di consolidare le
nuove scelte formali. L’artista, che era membro e fondatore del Gruppo
dei Quattro, aveva difatti intrapreso un percorso stilistico nettamente
distinto negli esiti – ancora tendenzialmente ottocenteschi – da quelli
di buona parte dell’arte accademica palermitana[4].
Insieme a Guttuso, Barbera e alla Pasqualino Noto, con i quali
esporrà a Milano alla Galleria del Milione nel 1934[5],
Franchina cerca di distinguersi nel panorama artistico nazionale
dimostrando di conoscere le ricerche formali di altri artisti giovani
come Renato Birolli, il Gruppo dei Sei, Lucio Fontana, Mario Mafai e
Scipione. Egli si innesta in questo modo all’interno di un filone di
percorsi stilistici e formali che, pur non disdegnando la tradizione
classica italiana, osserva con grande ammirazione l’opera degli
espressionisti francesi e tedeschi, di Van Gogh e Guaguin, di Picasso e
Munch.
È partendo da questi presupposti che si può osservare con
adeguata cognizione la serie di disegni che Franchina esegue scegliendo
come soggetto il Grande Telamone della Valle dei Templi ad
Agrigento. Con pochi tratti d’inchiostro di china lo scultore delinea su
diversi fogli le forme maestose del Telamone lasciandone percepire a
pieno la grazia delle forme. Questa capacità di esprimere in pochi
tratti la possanza e la maestosità delle figure è una delle doti più
interessanti di Franchina scultore e disegnatore. Ad essa si accompagna
la ricerca di tematiche e soggetti che possano essere più volte ripetuti
e adattati a diverse esigenze stilistiche. I punti di riferimento dello
scultore non appartengono tuttavia unicamente al mondo dell’arte
classica. Le ricerche su differenti tipologie di figure lo vedono
impegnato, soprattutto nella prima parte della sua carriera, nel
tentativo di trovare un tema che possa fungere da comune denominatore
per i fattori precipui della sua espressività, e che gli permetta,
attraverso una ripetitività di elementi, lo studio delle forme. In un
primo momento Franchina cerca di individuare questo tipo/tema in figure
legate al mondo popolare e contadino. Moltissimi infatti sono i disegni
eseguiti fra il 1933 e il 1936 di boscaioli, contadine e pastori in cui
si percepisce una lontana memoria dell’opera di Millet.
La scultura Pastore che dorme del 1933, in cui si
possono leggere le influenze dell’opera di Martini e di Cuffaro, è una
delle sue prime opere di maggiore importanza. La scultura, che fu
esposta tra l’altro in occasione della mostra del 1934 presso la
galleria del Milione a Milano[6],
risulta emblematica di un accostamento di Franchina all’arte che, se da
un lato promuove decise novità stilistiche, rimane ancora legata ad una
scelta iconografica di stampo più tradizionale, intimamente connessa ad
una visione della realtà siciliana quasi idilliaca e sognante.
La ricerca del simbolo tipologico, della figura dai caratteri
ancestralmente connessi al mondo da cui lo scultore ambisce trarre
ispirazione, trova soluzione nel momento in cui Franchina disegna per la
prima volta la Sammarcota, ovvero la donna di San Marco d’Alunzio.
Da un punto di vista tipologico la figura, rappresentata dall’artista
con un sasso raccolto dal greto del fiume Furiano sulla testa,
costituisce la giusta occasione per indirizzare le proprie ricerche
formali verso un monumentalismo blando. Le Sammarcote, che
l’artista disegna e scolpisce a partire dagli anni Trenta fino alla fine
dei Quaranta, possiedono tutte una forte volumetria e presenza materica,
mostrando nel contempo un carattere di particolare intimità che non
esclude, ma incoraggia il confronto con le Pomone di Marino
Marini. La Sammarcota, la donna che trasporta i sassi che servono
per la costruzione degli edifici del paese siciliano, costituisce per
l’artista, a livello ideale, la Ποτνια Ματερ, il simbolo arcaico
dell’origine stessa della scultura. Piuttosto che scavare nella
mitologia greca Franchina mitizza una figura dai caratteri fortemente
antropologici per farne la madre della sua arte.
Tano Bonifacio, che ha studiato la
produzione grafica dell’artista, ha sostenuto che Franchina scelse
queste figure perché «esse esemplificano metaforicamente le condizioni
storiche della gente di Sicilia, una vita vissuta fra sofferenza e
fatica, eppure talmente piena di luce da risultare accattivante all’idea
di uno schizzo a penna»[7].
Da un punto di vista artistico, osservando l’evoluzione formale
della Sammarcota nella produzione grafica e scultorea
dell’artista, è chiaro come la figura rappresenti l’elemento di maggiore
importanza per individuare i passaggi fondamentali del suo percorso
stilistico. Franchina infatti disegna Sammarcote per tutto l’arco
della sua produzione figurativa. Lo studio delle forme di questa figura
lo accompagna persino nel passaggio chiave dal realismo all’astrattismo.
La prima testimonianza della presenza
della Sammarcota nella produzione dell’artista siciliano risale
al 1935, in uno dei disegni attualmente conservati presso l’Archivio
Severini-Franchina[8].
In quell’anno lo scultore, che aveva già avuto modo di esporre a Milano
con il Gruppo dei Quattro e aveva ‘assaggiato’ la vivacità artistica
della città lombarda e conosciuto i personaggi che gravitavano attorno
alla Galleria del Milione[9],
inizia a comprendere la necessità di un confronto più diretto con i
giovani ambienti artistici nazionali[10].
Il disegno, realizzato con inchiostro di china nero, medium
grafico particolarmente apprezzato da Franchina per tutti gli anni
Trenta, rivela, nelle forme, un forte gusto per l’arcaico e una decisa
predilezione per un tratto netto e ripetuto che consente di rimarcare
l’aspetto materico dell’opera. Lo scultore non tenta in alcun modo di
superare la bidimensionalità del foglio e non incornicia la figura, che
si staglia nettamente sul bianco dello sfondo, senza alcuna forma di
ambientazione paesaggistica. La presenza quasi monumentale della
Sammarcota lascia, tuttavia, individuare i primi tentativi, ancora
un po’ incerti, di mostrare anche nella grafica una ben precisa
consistenza materica e di dare uno spessore volumetrico alla figura. Ai
primordi della sua raffigurazione la Sammarcota appare
semi-vestita, entrambe le mani reggono la pietra sul capo ed il tratto
con cui è disegnata è marcato. Nessuna precisione anatomica è prevista
dall’artista, che sembra piuttosto cercare degli effetti
espressionistici, quasi astratti. La donna non mostra i segni di una
ricerca estetica volta al bello, ma piuttosto al grottesco, al primitivo
ed al caricaturale. La Sammarcota si innesta saldamente sul
foglio per mezzo delle gambe cortecciose che simulano la matericità del
legno.
Dal 1935 fino all’inizio dei Quaranta la figura della
Sammarcota è spesso riproposta come protagonista dei disegni dello
scultore, rappresentata interamente nuda o parzialmente vestita, con la
pietra poggiata sulla testa, retta da una o da entrambe le braccia. In
tutti i casi si nota la predilezione di Franchina per un tratto ripetuto
e dal carattere quasi serpentinato, oltreché per una resa fortemente
espressionistica dei dettagli.
La figura non è protagonista solo dei disegni che Franchina
esegue in questa fase iniziale della sua carriera, ma è anche soggetto
di alcune sculture, di cui sfortunatamente esistono oggi poche
testimonianze documentarie e fotografiche.
Al 1936 risale la prima scultura documentata di Sammarcota,
opera di cui non si conosce l’attuale ubicazione o sopravvivenza, ma
verosimilmente realizzata prima del trasferimento di Franchina a Milano,
avvenuto nell’ottobre dello stesso anno. Unica testimonianza della sua
esistenza è una fotografia conservata presso l’Archivio
Severini-Franchina; è di formato piccolo (cm 6x4) e, data la sua modesta
dimensione, lascia appena intuire i caratteri precipui dell’opera. Si
evince che Franchina realizzò la scultura in terracotta, adoperata e
prediletta sia per il suo costo contenuto, sia per la sua grande
malleabilità. Questo materiale consentiva inoltre un approccio al
medium scultoreo più vicino all’esperienza di Martini, modello e
punto di riferimento dello scultore siciliano, determinando nel contempo
un approccio per modellazione, con partecipazione gestuale al processo
artistico. La prima Sammarcota mostra già alcune differenze
rispetto alle sculture precedenti dell’artista. Se infatti le prime
opere di Franchina segnalavano ancora un forte legame con Martini, si
intravede adesso una maggiore vicinanza al carattere espressionistico
della pittura di Guttuso, Birolli o Mafai. Proseguendo con una
modellazione che riproduce un carattere serpentinato, Franchina propone
una scultura in cui la terracotta sembra essere stata lasciata
volutamente sbozzata, imperfetta, rugosa, come se il processo di
creazione fosse stato interrotto per αποσδόκετον. Una
incompiutezza che lascia tuttavia intuire una ricerca espressiva dai
caratteri forti ed emozionali e una conoscenza e riflessione sull’arte
di Van Gogh, Cézanne e degli espressionisti francesi.
Nonostante le numerose rielaborazioni di tipo formale lo studio
di Franchina trae origine dalla realtà. Poco tempo fa la scrivente ha
difatti trovato in archivio un piccolo album composto da poco meno di
una decina di foto in bianco e nero, scattate in data imprecisata che
riprendono, con prospettiva dall’alto, piccoli gruppi di donne che
trasportano sassi raccolti sul greto del fiume Furiano[11].
Le donne sono per lo più riprese di spalle, le foto sono un po’ sfocate
e di non particolare qualità artistica. Non è improbabile che questi
documenti siano stati realizzati dallo stesso artista in occasione di
una visita a San Marco d’Alunzio e in seguito adoperate come spunto
mnemonico per la rielaborazione del soggetto.
Dopo il ritorno dal soggiorno milanese, nei primi mesi del
1937, la permanenza di Franchina in Sicilia sarà piuttosto breve. Nel
1938 è già testimoniato il suo trasferimento a Roma e la sua conoscenza
con Gina Severini, figlia del pittore futurista, che diventerà, un anno
dopo, sua moglie. L’arrivo nella capitale costituirà per l’artista
l’approdo alla meta definitiva. Fatta eccezione per brevi periodi
trascorsi altrove, Franchina eleggerà Roma sua città ideale, sua patria.
La maggior parte della sua produzione artistica troverà maturazione e
compimento all’interno del suo studio-abitazione, in via Margutta[12].
Qui è conservata ancora l’ultima Sammarcota eseguita dall’artista
nel 1947-48, che è nel contempo l’ultima opera del percorso figurativo
dell’artista prima della totale adesione all’astrattismo.
Alla fine degli anni Trenta lo scultore
manteneva ancora forti legami stilistici e formali con l’ambiente
artistico milanese e con l’opera di Guttuso in particolare[13].
Tuttavia all’inizio dei Quaranta, con il trasferimento a Roma, si
profila per lui una fase di transizione e di profondi mutamenti dettati
anche da difficoltà lavorative e di salute che lo spingeranno a
trasferirsi per un breve periodo di tempo a Collalbo, in provincia di
Bolzano[14].
La solitudine e l’isolamento in Trentino spingono Franchina a
rielaborare ulteriormente il proprio concetto di arte, i modelli di
riferimento, e a riflettere sul percorso da intraprendere. Allontanatosi
dalle tendenze espressionistiche della sua arte precedente, lo scultore
volge adesso ad una figurazione più matura, ad un realismo di stampo più
tradizionalistico e ad un’osservazione più diretta dell’arte francese, e
di Maillol[15]
e Despiau in particolare. Non è da escludere che il motivo di questo,
seppur parziale, cambiamento di rotta sia dovuto ad una maggiore
frequentazione del suocero Severini, oltre che ai fitti contatti con lo
scultore Marino Mazzacurati.
Severini costituisce per Franchina il
legame con il mondo artistico francese a cui lo scultore guarda da
sempre con estremo interesse. La conoscenza del panorama artistico
parigino è in gran parte dovuta alle lunghe chiacchierate con il
suocero, con il quale Franchina aveva la consuetudine di lavorare in
occasione delle sue visite a Collalbo[16].
Il legame con Mazzacurati, che sembra
essere particolarmente vivo in questa fase della vita e della carriera
di Franchina, è piuttosto significativo. È infatti probabile che lo
scultore emiliano rappresenti la liaison con l’ambiente artistico
romano durante gli anni di Collalbo. I due artisti hanno in comune una
grande passione per l’opera di Maillol[17],
eppure differiscono nella produzione artistica. La scultura di
Mazzacurati è più espressiva, più partecipata; più forte è in lui il
legame con la statuaria classica, con Michelangelo[18].
Questo carattere invece tocca solo in parte Franchina. Lo scultore
siciliano, che sappiamo per certo, conosce e studia le opere d’arte del
passato, se ne lascia influenzare parzialmente. Le sue sculture di
questi anni rivelano la ricerca di pacatezza compositiva, di maturità,
elementi desiderati ardentemente e che, sino a quel momento, gli erano
sembrati sfuggirgli. Mazzacurati scolpisce ritratti, ma anche lottatori,
santi; Franchina invece si cimenta nel ritratto e nello studio di nudi
femminili, scelta che dimostra la volontà di sperimentare la scultura
nel segno di una morbidezza formale, e nel contempo l’incertezza di un
mezzo o di uno stile che non sentiva ancora completamente suoi.
Mazzacurati, con il quale Franchina mantiene un intenso rapporto
epistolare[19],
fornisce in questi anni all’artista siciliano il materiale con cui
scolpire[20]
e preziose indicazioni relative alla pratica della fusione del bronzo[21].
I disegni di Sammarcota che Franchina esegue in questo
periodo risentono notevolmente del nuovo clima artistico all’interno del
quale lo scultore sceglie di operare. Le sue figure sono disegnate con
più calibrata maestria. Il tratto non è più marcato, ma accompagna le
forme della Sammarcota mirando ad una definizione più precisa
dell’immagine. L’aspetto, quasi materico, che caratterizzava
l’esperienza grafica precedente, scompare del tutto per lasciare spazio
ad una nuova percezione del volume.
Sfortunatamente anche la Sammarcota del 1942, opera
eseguita in gesso, è andata perduta. Ne resta tuttavia testimonianza
fotografica[22].
Facendo un rapido raffronto con l’opera del 1936 si percepisce un totale
e netto distacco dalla produzione precedente. Se nella prima
Sammarcota Franchina aveva volutamente lasciato la superficie
sbozzata, in questo caso ci troviamo davanti ad un’opera dal carattere
decisamente più compiuto. Il gioco e la maestria dello scultore non si
basa più sulla sottrazione di superficie, ma sulla composizione di forme
dalla volumetria perfecta sovrapposte l’una sull’altra fino a
generare la figura. Ogni elemento della scultura, dal sasso alle singole
parti del corpo della figura femminile, possiedono una propria autonomia
formale e volumetrica. Ormai ben lontano da Martini, lo scultore
siciliano guarda adesso a nuovi modelli.
Ho cominciato a stringere di più la
superficie sebbene le forme fossero sempre agitate. Il mio credo era
allora che una scultura dovesse presentarsi alla luce aperta e immediata
nella sua superficie […] però sentivo che la mia natura ed il mio
istinto recalcitrava e fu questo che mi rimise su una linea se non altro
non rigidamente teorica. A ciò concorse un mio ritorno di innamoramento
per Donatello […]. In lui vedevo chiarificati tanti miei dubbi e leggevo
con animo di moderno. Comunque la mia scultura rimase ancora molto
incerta, dovevo ancora digerire quel che avevo in corpo e tritare bene
quel che avevo in bocca. […] Poi con l’aver guardato con occhi
improvvisamente attenti delle cose specie di Maillol cominciai a
sentirmi improvvisamente attratto verso quella scultura sebbene il tutto
ancora risiedesse su un piano di gusto e non ancora di esigenza o di
convinzione plastica. […] È singolare il processo per cui Maillol è
arrivato alla chiarezza delle sue forme. È partito senza dubbio dal
Renoir del nudo con pomo in mano […] svolgendo quel tema e investendolo
in modo così totale da dare la sua sigla alla scultura più valida del
nostro tempo[23].
Dopo il rientro a Roma, nel 1943, Franchina ha ormai maturato
un proprio linguaggio che costituirà il punto di partenza per le
ricerche artistiche che caratterizzeranno gli anni successivi e che
determineranno quel passaggio fondamentale per la sua carriera, da
figurativo ad astratto: le Sammarcote, mute compagne che
fedelmente seguono lo scultore nelle sue peregrinazioni stilistiche e
formali, ne rappresentano, nella seconda metà degli anni Quaranta, il
simbolo e la chiave interpretativa principale.
Il 1946 e gli anni del dopoguerra segnano in effetti la rottura
definitiva di Franchina con il passato che si sviluppa attraverso una
rimeditazione sull’arte cubista e costruttivista. Le sculture e i
disegni eseguiti dal 1946 fino alla fine degli anni Quaranta pur
mantenendo una propria figuratività si presentano, nella forma, più
pieni ed essenziali; i dettagli realistici scompaiono per lasciare
spazio ad una modellazione più calibrata e sintetica della materia.
Eseguite per lo più in gesso, le sculture che Franchina ci lascia di
questo periodo si presentano come volumi imponenti che occupano e
animano lo spazio. La stessa sintesi si riscontra nelle linee dei
disegni dai quali si riesce a percepire anche l’acquisizione di una
nuova e maggiore maturità espressiva, frutto di ulteriori meditazioni
stilistiche. A Picasso – la cui opera Franchina guarda già dall’inizio
degli anni Quaranta – si aggiungono come modelli di riferimento
Constantin Brancusi, Henry Moore, André Adam, Henri Laurens, Jacques
Lipschitz.
Fra gli avvenimenti che certamente
influenzano il modo di guardare e produrre arte di Franchina sono le
brevi ma continue residenze a Parigi fra il 1946 e il 1951. Il primo
soggiorno parigino avviene nel 1946, insieme alla moglie Gina. Lo
scultore, ospite presso la dimora di Madame Maritain a Meudon, è
chiamato a partecipare al Salon d’Automne[24].
Nello stesso anno Franchina recupera il tema ormai caro e
consueto della Sammarcota che conoscerà la sua evoluzione
definitiva nel periodo a cavallo fra 1946 e 1947.
Una delle principali caratteristiche delle
Sammarcote di questa fase è la tendenza verso una forma piena e
una linea continua, che Franchina sembra trarre soprattutto dall’opera
di Moore[25].
Le Sammarcote e le altre sculture di questo periodo si
presentano come rielaborazione di forme geometriche connesse tra loro ma
indipendenti l’una dall’altra. Gli studi grafici che accompagnano
l’esecuzione di queste opere ne costituiscono una valida documentazione.
Attraverso un insieme di cerchi, triangoli e ovali Franchina cerca di
raggiungere la purezza e la sintesi della forma. Il volume, ancora
nettamente protagonista della Sammarcota scultorea, tende nella
grafica a scomporsi definitivamente per lasciare spazio ad un gioco di
linee e contorni.
Pur restando ancorato alla realtà oggettiva, lo scultore
comincia a trasfigurare gli elementi che connettono le sue opere ad una
figurazione completa. Sia nei disegni che nelle sculture i dettagli
descrittivi scompaiono per lasciare spazio ad una nuova ricerca
espressiva. Nelle opere in gesso e in bronzo, in particolare, l’artista
sviluppa giochi volumetrici di materia secondo forme piene e linee che
si arcuano e che sdrammatizzano l’effetto statico della scultura.
Come espresso da Carandente nel 1968 lo scultore rivela in
questa fase della sua carriera:
un indirizzo preciso, diretto alla
conquista di un linguaggio autonomo e implicitamente controcorrente
rispetto al tradizionale plasticare o al far monumenti [corsivo
nel testo, ndr]. La ‘Sammarcota’, la ‘Figura sdraiata’, il ‘Busto
femminile’, del 1946-’47, furono le prime opere di quella serie
giovanile a rivelare, sia pure ancora timidamente, un’apertura verso una
nuova libertà espressiva
[26].
Le opere di questo periodo, esposte in occasione di una mostra
personale alla Galleria dello Zodiaco[27],
riscuotono un grande successo di critica[28]
e si collocano, in linea con la scultura di Moore o di Laurens, sulla
scia di una rivisitazione del postcubismo alla luce di una ricerca
espressiva nuova. La Sammarcota costituisce una delle sue prove
migliori: figura solida, non priva di una propria leggiadria, composta
da masse volumetriche connesse tra loro in un equilibrio compositivo
calibrato.
Con il bozzetto della Sammarcota
Franchina partecipa anche alla prima mostra del Fronte Nuovo delle Arti
alla Galleria della Spiga[29].
Nonostante lo scultore non sia uno dei firmatari del manifesto che aveva
sancito la nascita del gruppo – fra i quali figurano invece gli amici
Guttuso[30]
e Birolli – egli rivendica una comunanza d’intenti tale da essere
coinvolto ad esporre col Fronte anche in occasione della Biennale di
Venezia del 1948[31].
Evoluzione finale della Sammarcota e di questo processo
di inesorabile scomposizione delle forme e dei volumi in chiave
costruttivista sono le opere Immagine dell’uomo e Forma,
realizzate in pietra fluviale, in cui si coglie una forte vicinanza alle
ricerche formali brancusiane seppur riproposte attraverso l’uso di una
materia che non risulta mai, nella produzione di Franchina, totalmente
levigata. L’artista siciliano sembra adesso rimeditare sul concetto
stesso di scultura. Viene meno l’esigenza alla monumentalità che era
stata una delle caratteristiche delle opere eseguite fra il 1946 e il
1947, che lascia spazio ad una scultura dalla forte valenza simbolica.
In particolare Forma come dice bene Marchiori:
rappresenta una prima scelta, molto
importante per Franchina, lungo quel processo di eliminazione che ogni
artista compie per riconoscere e affermare la propria personalità.
L’idea di ridurre una pietra di fiume, levigata dal corso delle acque,
in una forma esteticamente valida è già ben lontana dalla riflessione
sull’antico, sull’insegnamento dei mezzi accademici di un nuovo
manierismo. […] La «Forma» di Franchina ha un precedente nelle proposte
brancusiane di un arcaismo senza particolari descrittivi, che ne
alterino il carattere elementare. La pietra ha un volume esatto, che
prepara ad altre soluzioni di transizione, fino a esaurire la fase
arcaico-primitiva, nella quale troppi scultori si sono attardati, senza
poter risolvere quei problemi spaziali, che assillano gli scultori
lontani dal ‘realismo’ di Picasso e dall’oggetto-trovato dei surrealisti
[32].
Nello stesso anno in cui esegue le sculture appena citate,
Franchina varca definitivamente la soglia dell’astrazione arrivando a
individuare alcuni motivi formali che, soprattutto nella produzione
grafica, si ripetono ossessivamente fino all’inizio degli anni
Cinquanta, e che trovano sublimazione esecutiva fra il 1948 e il 1950.
Il cambiamento di linguaggio è evidente e netto; anche da un punto di
vista materico si osserva un quasi totale abbandono del gesso e della
pietra che lasciano il posto al bronzo. Da questo momento in poi sarà il
metallo la materia prediletta dallo scultore.
Nello stesso anno in cui Franchina
concepisce il suo nuovo linguaggio scultoreo, egli conosce la
consacrazione internazionale mediante il coinvolgimento in esposizioni
di rilievo come il Salon de la Jeune Sculpture o al Salon des Réalités
Nouvelles[33]
e soprattutto grazie all’organizzazione della sua terza personale presso
la Galerie Pierre a Parigi. Nel 1949 e durante buona parte dell’anno
successivo l’artista siciliano lavora molto in Francia, grazie anche
all’ottenimento di una borsa di studio che gli consente di trascorrere
diversi mesi presso il capoluogo francese[34].
La mostra alla Galerie Pierre[35]
rappresenta un evento di grande importanza per la carriera e la vita
dell’artista che intravede per la prima volta la possibilità di far
conoscere la propria opera a Parigi e di entrare in contatto con il
circolo culturale e artistico all’interno del quale avrebbe voluto da
sempre inserirsi. In quest’occasione il giovane Franchina ha modo di
conoscere personalmente gli scultori Giacometti, Adam, Arp che, come
indicato in una lettera scritta a Marchiori qualche mese dopo la mostra,
apprezzeranno molto le sue opere[36].
Franchina stesso e la moglie Gina vivono l’evento con particolare gioia,
come il primo vero successo dell’artista[37].
La personale parigina è inaugurata il 20 aprile e resta aperta
fino al 5 maggio 1949. Nella scelta delle opere da esporre Franchina,
rifiutando totalmente gli esiti della produzione figurativa, propone un
nucleo di sculture eseguite fra il 1947 e il 1949 fra le quali la
Sammarcota accompagnata anche da un Telamone gigante in
gesso, Immagine dell’uomo, una Trinacria di cui non si
possiede ulteriore testimonianza e Vittoria avanzante, scultura
astratta dal forte impatto visivo che l’artista esporrà anche in
occasione delle altre due mostre a cui parteciperà a Parigi nel ’49[38].
Particolarmente bella, la presentazione in catalogo di Denys Chevalier
si sofferma in modo particolare sulle opere che, secondo il critico, più
chiaramente legano Franchina alla terra di origine: la Sammarcota,
il Telamone e naturalmente Immagine dell’uomo.
L’originalità dello scultore viene colta proprio in quella capacità che
il critico francese gli identificava di partire dalla conoscenza della
cultura classica che, privata di elementi arcaici, è rivisitata
attraverso un occhio e una mentalità moderni.
On ne peut séparer Nino
Franchina de sa Sicile natale. Ainsi à travers les influences que firent
naître chez le sculpteur, les contacts qu’il établit avec les artistes
romains et ceux de l’École de Paris, on perçoit constamment le souvenir
d’un folklore familier et la survivance d’une antiquité toujours
présente. Le thème de "Porteuses des pierres" [grassetto nel
testo, ndr], par exemple, est tiré de la plus quotidienne des réalités
siciliennes. […] Pendant quinze ans Nino Franchina s’est servi des ces
modèles bénévoles et s’est attaché à en tirer la signification plastique
en en éliminant de plus en plus la signification anecdotique. Dans sa
grande "Porteuse des pierres", l’artiste à réalisé le maximum des
possibilités que lui offraient ces conceptions. Cette sculpture, malgré
quelques réminiscences archaïque et grâce à son austère construction
architecturale, constitue dans production de Nino Franchina, un sommet,
une sorte de ligne de partage de chaque côté de laquelle deux tendances,
deux courants se dessinent et se manifestent. La "Porteuse des
pierres", marque à la fois un dénouement et un commencement, elle
est un point de rupture et un lien. C’est d’elle que descendent en
filiation directe ces "images de l’homme" qui sont chez Nino
Franchina, ses premières véritables tentatives vers la non-figuration.
[…] Dédaigneux des subterfuges et des compromis, Nino Franchina refuse
les facilités de l’imitation ou de la copie d’ancien. Conçues et
réalisées en plein air dans un respect quasi géologique de la matière et
de ses exigences, ces "images de l’homme", ne présentent rien de
gratuit ni de fortuit. […] A cette période que, dans l’œuvre de Nino
Franchina on pourrait qualifier de transitoire, succède par un processus
logique les dernières sculptures de l’artiste, concrètement non
figuratives mais conceptuellement proches de celles qui les ont
précédées, c’est-à-dire issues des mêmes mythes siciliens. Avec un sens
aigu des exigences de la sensibilité moderne et une claire conscience de
l’obéissance due aux lois éternelles de la plastique, Nino Franchina
s’est inspiré des gigantesques cariatides (télamoni) abattues parmi les
débris de l’immense temple de Giove dans la vallée des temples d’Agrigento.
Admirateur de la statuaire grecque, l’artiste n’a pas cherché dans
celle-ci un enseignement étroitement formel, il s’est acharné le sens
profond, le message, et à en comprendre la mission. C’est parce qu’il a
su remonter jusqu’aux premiers principes de la nature et de la fonction
de son art, que Nino Franchina n’à pas fait œuvre de restaurateur ou
d’amateur de reconstitution, et qu’il mérite d’être reconnu come un grec
selon l’esprit[39].
È dunque ancora una volta grazie alla Sammarcota che è
possibile cogliere in modo inequivocabile i passi compiuti dall’artista.
La donna portatrice di pietre, il simbolo stesso dell’origine della vita
e della scultura, veglia su Franchina costituendo la radice stessa
dell’arte e il mezzo attraverso cui sviluppare nuove tendenze formali.
Uno degli ultimi dichiarati riferimenti e omaggi alla figura
femminile e al suo simbolismo, un vero commiato, compare in uno scritto
del 1953 paradigmaticamente intitolato dallo stesso Franchina ‘Nascita
di una scultura’. Il brano è, a tutti gli effetti, il racconto
mitologico della genesi della sua arte. La narrazione dell’evento
poietico si traduce nel resoconto di quel processo di fusione fra pietra
e macchina che caratterizzerà la produzione futura dell’artista.
La Macchina era ferma e la Pietra
acquattata la guardava fissa. Quel lungo processo che aveva fatto
divenire funzionanti e lucide le parti metalliche prima inerti gliela
rendeva ancora più astrusa e incomprensibile. La Pietra era ancora là da
secoli, vicina al ciglio della strada che tagliava i margini del grande
estuario del Furiano – ancora non era stata strappata al greto dalle
possenti braccia delle Sammarcote e issata sui capitelli dorici
che sono le loro teste, per essere portata sino ai carri e divenire
anch’essa elemento funzionante di una casa, un muro, un ponte. La
Macchina era sempre ferma sul margine della strada, ma qualcosa avveniva
in essa. Cominciava lentamente a scomporsi – invisibili mani la
riordinavano in un disegno nuovo – lo spazio cominciava a intrecciarsi
con le sue parti metalliche – la luce batteva e penetrava in essa in
giochi fantasiosi. La Pietra cominciava a sentirsi attratta da questo
movimento, da questa rigenerazione. Ecco, adesso fra le due branche
metalliche che si erano fermate a sostegno di un’architettura armoniosa
di forme, librata nel cielo, si creava un vuoto, uno spazio. Questo
spazio a poco a poco prendeva la forma concava di un bacino materno e
tutta la Scultura vibrava e attendeva di essere compiaciuta. Le possenti
braccia della Sammarcota sollevarono la Pietra ma indugiarono a
mezz’aria: essa era troppo rotonda, remota, non era abbastanza squadrata
per essere utile al muro. E allora l’adagiarono dolcemente in quel cavo
materno che l’attendeva e l’Opera fu così compiuta[40].
[1]
L’appartenenza culturale di Franchina
alla terra siciliana è da considerarsi
sotto un duplice punto di vista:
tematico e visuale-iconografico.
Tematico perchè dal magma pulsante di
stimoli culturali lo scultore carpisce
continuamente soggetti e tradizioni da
rappresentare: ci si riferisce in
particolare alla serie di sculture dei
Paladini, opere eseguite
all’inizio degli anni Settanta che
ripercorrevano il tema della Chanson
des gestes e dell’interpretazione
che di essa veniva fatta attraverso gli
spettacoli dei pupi siciliani. Visuale e
iconografico è uno dei modi attraverso
cui è possibile comprendere il vero
rapporto che Franchina aveva con la sua
Sicilia: in opere come Pagina
sgualcita (1985) o Oro del ferro
(1986) nonostante il chiaro riferimento
al tema del libro e del foglio di carta,
l’aspetto dell’opera con la sua base
stretta che man mano salendo si
allarga proponendo un’esplosione di
metallo ricorda uno zampillo di lava. Lo
studio storico e scientifico del
percorso compiuto da Franchina durante
l’arco della sua carriera d’artista è
stato argomento della tesi di dottorato
della scrivente, discussa con il Prof.
Antonello Negri il 27 marzo 2012 presso
l’Università degli Studi di Milano,
consultabile online sul sito internet
dell’Ateneo a partire dal mese di aprile
2013. Per un ulteriore approfondimento
bibliografico della figura dello
scultore siciliano si veda: G. Marchiori,
Nino Franchina, De Luca Editore,
Roma 1954; G. Carandente, Nino
Franchina, Officina Edizioni, Roma
1968; Nino Franchina. Disegni
Sculture 1935-1987, catalogo della
mostra (Bolzano, Museo d’Arte Moderna 9
marzo – 28 aprile 1990), Mari Arti
Grafiche, Todi 1990; Nino Franchina
Antologica, catalogo della mostra
(Palermo, Chiesa di S. Maria dello
Spasimo 12 settembre – 12 ottobre 1997)
a cura di T. Bonifacio, A. Franchina,
Sellerio editore, Palermo 1997.
[2]
Nel 1930 Nino Franchina si iscrive alla
Regia Accademia di Belle Arti di Palermo
dove frequenta i corsi dello scultore
Antonio Ugo con il quale si diploma nel
1934. Cfr. Archivio Severini-Franchina,
sezione Franchina, fondo documenti,
Tessera della R. Accademia di Belle Arti
di Palermo di Nino Franchina, 1930, n.
0488; A. Franchina, Tutta la vita di
uno scultore, inNino Franchina...,
1997, pp. 99-130. Gli esordi della
carriera dell’artista, dalla sua
iscrizione all’Accademia fino al suo
soggiorno milanese (1936-37) sono stati
oggetto di tesi di specializzazione
della scrivente svolta presso
l’Università Cattolica del Sacro Cuore
di Milano sotto la guida del Prof.
Luciano Caramel e discussa nel 2005.
[3]
Gli amici a cui ci si riferisce sono
Renato Guttuso, Lia Pasqualino Noto e
Giovanni Barbera con cui lo scultore
aveva fondato il Gruppo dei Quattro nel
1932. A loro si aggiungono, fra gli
altri, Topazia Alliata e Basilio
Franchina, fratello dello scultore che
condivise con lui, in quegli anni,
l’amore per l’arte e soprattutto per il
cinema, la sua grande passione, che
sarebbe diventato presto la sua
professione. Non esistono studi sulla
sua attività di sceneggiatore, ma tra i
film a cui lavorò è certamente da
menzionare Riso amaro di Giuseppe
De Santis. Per un approfondimento
particolare sul Gruppo dei Quattro si
veda Il gruppo dei Quattro: Renato
Guttuso, Lia Pasqualino Noto, Nino
Franchina, Giovanni Barbera: una
situazione dell’arte italiana degli anni
’30, catalogo della mostra (Palermo,
Palazzo Ziino, 11 dicembre 1999 – 11
febbraio 2000) a cura di S. Troisi, ed.
Comune, Palermo 1999; Renato Guttuso.
Gli anni della formazione 1925-1940,
catalogo della mostra (Catania, Galleria
d’Arte Moderna “Le Ciminiere” 6 aprile –
27 maggio 2001) a cura di E. Crispolti,
A. M. Ruta, Silvana Editoriale,
Cinisello Balsamo 2001.
[4]
Per un’adeguata valutazione della
situazione artistica siciliana di questo
periodo si veda Arte in Sicilia negli
anni Trenta, catalogo della mostra
(Marsala, Ex Convento del Carmine 13
luglio – 15 settembre 1996) a cura di S.
Troisi, Electa, Napoli 1996;
Futurismo in Sicilia, catalogo della
mostra (Taormina, Chiesa del Carmine 27
maggio – 16 ottobre 2005) a cura di A.
M. Ruta, Silvana Editoriale, Cinisello
Balsamo 2005; G. De Marco, “L’Ora”.
La cultura in Italia dalle pagine del
quotidiano palermitano (1918-1930),
Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo
2007; Annti Trenta. Arti in Italia
oltre il fascismo, catalogo della
mostra (Firenze, Palazzo Strozzi 22
settembre 2012 – 27 gennaio 2013) a cura
di A. Negri, Giunti Editore, Firenze
2012.
[5] La
mostra presso la Galleria del Milione di
per sè è dimostrazione di uno
schieramento dei quattro nel gruppo di
coloro che, lontani da canonizzazioni
artistiche che non spiacevano al regime,
si muovevano su un terreno del tutto
nuovo in Italia cogliendo, ad esempio,
l’importanza dello sviluppo dell’arte
astratta. Cfr. P. Mignosi, 2 pittori
e 2 scultori siciliani, in
“Bollettino della Galleria del Milione”,
n. 29, 26 maggio – 12 giugno 1934. La
mostra fu inoltre recensita su alcuni
giornali: L. Sinisgalli, Mostre
milanesi. Quattro siciliani al “Milione”,
in “L’Italia Letteraria”, anno X n. 23,
9 giugno 1934; C. Carra’, Mostre
d’arte. I Siciliani (Galleria del
Milione), in “L’Ambrosiano”, 15
giugno 1934.
[6]
Ibidem.
[7] T.
Bonifacio, I segni della scultura,
in Nino Franchina…, 1997, p. 35.
[8]
L’archivio ha attualmente sede a Roma,
in via Margutta, presso il vecchio
atelier d’artista di Franchina. Lo
studio, dopo la morte dell’artista, è
stato conservato dagli eredi che lo
hanno adoperato come luogo atto a
conservare i materiali documentari
relativi a Nino Franchina e al suocero
Gino Severini. Attualmente la sede è
inagibile, in attesa dei restauri
necessari affinché possa diventare luogo
di studio e di valorizzazione dell’opera
dei due artisti. L’archivio è diretto da
Alessandra Franchina, nipote
dell’artista a cui vanno i
ringraziamenti della scrivente che da
molti anni prosegue, presso questa sede,
i propri studi sulla figura dello
scultore.
[9]
Come ebbe modo di raccontare Lia
Pasqualino Noto «Durante il periodo
della mostra parlammo lungamente di
pittura con i Ghiringhelli e con i loro
amici. La galleria aveva già preso
l’indirizzo astrattista che poi
mantenne. Gino Ghiringhelli era pittore
astratto e con lui abbiamo conosciuto
quelli del suo gruppo: Bogliardi e
Soldati. […] Vidi e trovai molto
interessanti le statue di ceramica di
Lucio Fontana che allora erano delle
figure di donne molto suggestive e
colorate. […] Il pittore Gabriele Mucchi
e la moglie Genni, scultrice, ci
invitarono a casa loro in via Rugabella,
[…] ebbi così l’occasione di incontrare
Cassinari e Birolli. […] Incontrammo
Ernesto Treccani, il poeta Alfonso
Gatto, lo scultore Martini, Fiorenzo
Tomea, Cantatore, Santomaso ed altri.
Fra i giovani scrittori, conobbi
Leonardo Sinisgalli e Beniamino Joppolo».
Cfr. L. Pasqualino Noto, Una
testimonianza autobiografica, in
Lia Pasqualino Noto: a Palermo dagli
anni ’30 a oggi, catalogo della
mostra (Palermo dicembre 1984 – gennaio
1985) a cura di E. Di Stefano, ed.
Mazzotta, Milano 1984, p. 40.
[10]
Tale necessità lo condurrà nel 1936 a
trasferirsi a Milano per un periodo di
sette mesi durante i quali sarà ospite
dapprima presso lo studio di Renato
Birolli, in seguito presso quello di
Aligi Sassu. Per una ricostruzione
puntuale della sua esperienza lombarda
si veda V. Raimondo, Nino Franchina a
Milano (1936-1937), in “L’Uomo
Nero”, a. V, n. 6, 2008 pp. 400-411.
[11]
L’album è composto da otto fotografie di
diverso formato, verosimilmente scattate
tutte nello stesso momento. L’oggetto
non è stato ancora catalogato e non
presenta pertanto ancora una numerazione
propria.
[12]
Vedi nota 7.
[13]
Il rapporto con Milano è attestato
soprattutto dalla partecipazione di
Franchina alla seconda mostra di
Corrente. Sebbene egli non sia da
annoverare fra gli artisti promotori del
movimento, lo scultore condivide alcune
delle istanze, fre le quali
l’espressionismo lirico, che
caratterizza l’opera di molti degli
autori che direttamente afferiscono a
Corrente. Per ulteriore approfondimento
si veda: R. Guttuso, Nino Franchina,
in “Corrente”, a. II, 15 dicembre 1939;
Nino Franchina. Disegni 1943-1945,
catalogo della mostra (Milano,
Fondazione Corrente 11 maggio – 24
giugno 2011) catalogo della mostra a
cura di V. Raimondo, Scalpendi Editore,
Milano 2011.
[14]
Nel 1940 Franchina si ammala di una
grave forma di pleurite in seguito alla
quale viene ricoverato presso l’Ospedale
Forlanini di Roma dove resta per alcuni
mesi. In seguito alla malattia i dottori
gli consiglieranno di trascorrere del
tempo presso località più salubri.
All’inizio del 1941 la famiglia
Franchina, composta da Nino, Gina e dal
piccolo Sandro nato nel 1939, si
trasferirà in Trentino, dove resterà
fino al 1943, anno in cui riuscirà a
ristabilirsi a Roma.
[15]
L’attenzione nei confronti della
scultura di Maillol, che caratterizza
l’opera di Franchina nella prima metà
degli anni Quaranta, dipende
probabilmente dalla capacità che lo
scultore siciliano riconosceva in quello
francese di trarre ispirazione dalla
tradizione artistica senza tuttavia
produrre alcuna forma di plagio.
«Cette vision lucide et
sensuelle des formes, guidée par une
tecnique parfaite dans la voie de la
tradition, tel est le Maillol de la
Nuit, de Pomone, de la Pensée, de la
Femme à l’Echarpe, de la Vénus au
Collier [corsivo nel testo, ndr].
[…] Ce qui fait de Maillol un trés grand
sculpteur, c’est qu’il a retrouvé dans
sa plastique le mystère de la
construction des belles proportions; et
par ce, ses créations ne sont pas un
démarquage de la statuaire antique, mais
un œuvre de solide architecture».
J. Girou, Sculpteurs du midi,
Librairie Floury, Parigi 1938, p. 51.
[16]
«Qui con Gino viviamo una armoniosa vita
di artisti. La mattina ci chiudiamo
ciascuno nel nostro studio e si lavora
forte. Gino ha già fatto tre quadri e io
accumulo nuove sculture», Archivio
Severini-Franchina, sezione Franchina,
lettera manoscritta di N. F. a Basilio
Franchina, 5 luglio 1942, il documento
non è stato catalogato, pertanto non
possiede ancora numerazione propria.
[17]
«J’ai toujours considéré
Maillol comme un patriarche». M.
Mazzacurati, Des jeunes sculteurs
parlent, in “Presence”, 26 novembre
1944.
[18]
Si veda a tal proposito: Marino
Mazzacurati. Mostra antologica,
catalogo della mostra (Bologna, Galleria
La Casa dell’Arte 16 marzo – 30 aprile
1978) a cura di G. C. Argan, Bologna
1978; R. Ruscio, L’archivio Renato
Marino Mazzacurati nei Musei Civici di
Reggio Emilia, Diabasis, Reggio
Emilia 1998.
[19]
Nonostante siano poche le lettere dello
scultore emiliano conservate presso
l’Archivio Severini-Franchina, si desume
una frequentazione piuttosto intensa fra
i due artisti da alcune indicazioni
trovate sulle lettere che Franchina
invia al fratello Basilio. Mazzacurati,
oltre che amico, fu un punto di
riferimento per lo scultore siciliano
per i suoi consigli e perché gli
procurava la materia (prevalentemente
cera) con cui lavorare. «Io sono
arrivato alla mia diciottesima scultura.
Le ultime tre le ho fatte con la cera di
Mazzacurati e questa materia mi ha dato
una grande voglia di farne altre
cosicché ho scritto a Mazzacurati di
farmene avere», Archivio
Severini-Franchina, sezione Franchina,
lettera manoscritta di Marino
Mazzacurati, 7 novembre 1941, il
documento non è stato catalogato,
pertanto non possiede ancora numerazione
propria. E ancora: «A Roma Mazzacurati
si sta occupando per la fusione in
bronzo (la prima a 30 anni!) di una
testina fatta a Sant’Agata. L’ho pregato
di farmela fotografare bene», Archivio
Severini-Franchina, sezione Franchina,
lettera manoscritta di N. F. a Basilio
Franchina, 5 luglio 1942, il documento
non è stato catalogato, pertanto non
possiede ancora numerazione propria.
[20] È
grazie a Mazzacurati che Franchina
inizia ad adoperare la cera, il gesso e
il bronzo per le sue sculture.
[21]
Per la prima volta, nel 1942, Franchina
eseguirà una piccola scultura in bronzo,
una Testa di ragazzo. Presso
l’Archivio Severini-Franchina è
conservata una lettera di Mazzacurati
con spiegazioni dettagliate sui modi con
cui eseguire la fusione del metallo.
Cfr. Archivio Severini-Franchina,
sezione Franchina, lettera manoscritta
di Marino Mazzacurati, 16 giugno 1942
[data timbro postale], il documento non
è stato catalogato, pertanto non
possiede ancora numerazione propria.
[22]
Anche questo documento (fotografia in
bianco e nero, formato 10x6 cm) è
conservato all’interno dell’Archivio
Severini Franchina, sebbene ancora non
catalogato e non dotato pertanto di
numerazione propria.
[23]
Archivio Severini-Franchina, sezione
Franchina, quaderno manoscritto di Nino
Franchina [Collalbo], 1942, n. 1244-45.
[24]
La notizia è desunta da un’indicazione
autografa di Franchina conservata in
archivio. Si tratta di un elenco delle
mostre a cui aveva partecipato nell’arco
della sua carriera redatto dallo
scultore intorno alla metà degli anni
Ottanta. ASF, sezione Franchina, doc
manoscritto “Autobiografia”, s.d., n.
1259.
[25]
Tra le diverse versioni della scultura
ve ne sono due in gesso (Testa di
Sammarcota, Busto di Sammarcota),
due in bronzo (Piccola Sammarcota,
Sammarcota). Le dimensioni
variano dai 47 cm della Piccola
Sammarcota (1947) conservata presso
la GNAM di Roma, ai 180 cm della
Sammarcota (1947) che lo scultore
aveva tenuto con sé, all’interno del suo
studio dove ancora oggi si trova la
scultura. La prima versione della
scultura grande era anch’essa modellata
in gesso ed era disposta nel giardino di
fronte allo studio di Franchina. Venne
fusa successivamente in bronzo quando, a
causa delle intemperie a cui l’opera era
sottoposta stando all’aperto, aveva
cominciato a deteriorarsi. Non sono
ancora stati trovati documenti che
attestino esattamente in che data
Franchina ordinò la fusione della
scultura.
[26]
G. Carandente, Nino... ,1968 pp.
6-7.
[27]
La mostra dal titolo Nino Franchina
ebbe luogo presso la Galleria dello
Zodiaco di Roma dal 19 aprile al mese di
maggio 1947.
[28]
L’esposizione ebbe diverse recensioni
positive comparse su alcuni dei
principali giornali italiani, cfr. R.
Musatti, Franchina allo «Zodiaco»,
in “La Repubblica”, 23 aprile 1947; N.
Ciarletta, Franchina allo “Zodiaco”,
in “L’Espresso”, 29 aprile 1947; E.
Galluppi, Franchina, in “Fiera
letteraria”, 1 maggio 1947; G. Peirce,
Lo scultore Franchina allo «Zodiaco»,
in “L’Unità”, 1 maggio 1947; V. Guzzi,
Neocubismo espressionismo ed altro,
in “L’Illustrazione italiana”, 25 maggio
1947. Particolarmente interessante,
l’articolo di Peirce, costituisce una
prova della chiarezza d’intenti che
l’opera di Franchina emanava: «Chi vuole
mantenersi attento alle manifestazioni
nuove, ai nuovi sintomi e alle nuove
strade dell’arte moderna romana deve
necessariamente considerare (a parte
ogni intrinseca valutazione artistica)
l’attuale Mostra delle sculture di Nino
Franchina (‘Galleria dello Zodiaco’)
forse come uno degli avvenimenti
artistici più importanti della presente
stagione. […] Le ricerche di Franchina
si realizzano sulla medesima linea che
in Francia perseguono Laurens ed altri
(che del resto Franchina conosce e
cita). Questo vuol dire che esiste oggi,
in Europa, uno sforzo comune e un fronte
comune: il fronte della poesia. In
questo fronte il nostro Franchina porta
il suo contributo di ricerche e di
coraggio, realizzando, a mio parere,
talune eccellenti cose».
[29]
La mostra, svoltasi fra il 12 giugno e
il 12 luglio del 1947, fu organizzata da
Stefano Cairola e da Giuseppe Marchiori
a cui si deve anche l’introduzione in
catalogo dove il critico definisce le
opere dello scultore «sensibili e colte
prove stilistiche», cfr. G. Marchiori,
Introduzione alla Mostra, in
Prima Mostra del Fronte Nuovo delle Arti
catalogo della mostra (Milano, Galleria
della Spiga 12 giugno – 12 luglio 1947)
a cura di G. Marchiori, Milano 1947, p.
10. La presentazione di Franchina in
catalogo è di Corrado Maltese che
ricostruisce il percorso artistico dello
scultore dagli inizi palermitani fino
alle ultime esperienze e definisce le
ultime sue opere come prodotto di
una intensa ricerca espressiva, «Il
mondo di travaglio che in esse è
racchiuso è veramente importante. In
esse è sintesi volumetrica, volontà di
chiarezza costruttiva e di precisione».
Maltese individua anche i limiti ancora
non superati dall’artista nella tendenza
ancora non sopita verso un arcaismo che
contrasta con la chiarezza ricercata
dallo scultore e conclude sostenendo «è
certo che le contraddizioni della sua
scultura saranno eliminate e ‘l’idea’
interiore portata a compimento». C.
Maltese, Nino Franchina, in
Prima Mostra… 1947, pp. 27-28. Per
un’ulteriore valutazione e analisi
bibliografica sul Fronte Nuovo delle
Arti e sulla partecipazione di Franchina
si veda: Fronte Nuovo delle Arti.
Nascita di un’avanguardia, catalogo
della mostra (Vicenza, Basilica
Palladiana, 13 settembre – 16 novembre
1997) a cura di L. M. Barbero, L.
Caramel, E. Crispolti, Neri Pozza
Editore, Vicenza 1997.
[30]
Come è affermato da Marchiori, fu
proprio Renato Guttuso a coinvolgere
Franchina nella mostra di Milano e
nell’attività del gruppo. Cfr. G.
Marchiori, Il Fronte Nuovo delle Arti,
Giorgio Tacchini Editore, Vercelli 1978,
p. 50.
[31]
C. Maltese, Nino Franchina...,
1947.
[32]
G. Marchiori, Nino..., 1954, p.
15.
[33]Premier
Salon de la Jeune Sculpture,
catalogo della mostra (Parigi, Museo
Rodin 14 maggio – 9 giugno 1949), Paris
1949; Salon des Réalités Nouvelles,
Paris 1949.
[34]
«Lavora dapprima nel garage della casa
che Gino Severini aveva preso in affitto
a Meudon e nella quale aveva abitato
Jacques Maritain, poi nello studio che
gli cede in Rue Rousselot Henriette
Nieps, la pittrice-gallerista che è
sposata con Gillo Pontecorvo ed è amica
di Simone de Beauvoir e Jean-Paul
Sartre. Conosce Arp, Zadkine, Lipchitz,
Magnelli, Fougeron, Jacobsen, Adam,
Giacometti, Picasso, Brancusi, di molti
dei quali frequenta lo studio». Cfr. C.
Costantini, E Guttuso si fece
prestare lo smoking, in “Il
Messaggero”, 15 aprile 1985.
[35]
La mostra, dal titolo Nino Franchina.
Sculptures ebbe luogo presso la
Galerie Pierre di Parigi dal 20 aprile
al 5 maggio 1949. Oltre ad una
recensione scritta dallo stesso
Chevalier e comparsa su “Arts” il 29
aprile 1949 si segnalano gli articoli:
J. Marabini, Nino Franchina homme de
la Sicile, in “Combat”, 9 maggio
1949; Sammaria, “Sculture e disegni”
di Nino Franchina, in “La voce
d’Italia”, 26 aprile 1949.
[36]
Scritta una volta tornato a Roma, la
lettera a Marchiori aveva lo scopo di
convincere il critico a perorare il
coinvolgimento di Franchina nella
Biennale di Venezia del 1950 all’interno
della sezione dedicata alla scultura
astratta italiana. «Tu non conosci il
mio lavoro di questi ultimi anni (le
opere della Biennale [si riferisce a
quella del 1948, ndr] erano del 46 e 47)
ma come avrai visto dal catalogo della
mia personale da Pierre a Parigi che ti
ho spedito e forse da quello del Salon
des Réalités Nuovelles la mia scultura
ha evoluto su posizioni astratte. Penso
che per i riconoscimenti e consensi che
ho avuto a Parigi (da Arp a Giacometti a
Adam) e per il lavoro accanito nel quale
mi sono tuffato dal mio ritorno a Roma
merito di non essere escluso da quella
rassegna». Archivio Giuseppe Marchiori,
lettera manoscritta, 8 novembre 1949,
pubblicata in Fronte Nuovo...
1997, p. 300.
[37] «Ninuzzo
caro uscendo per impostare la lettera ho
trovato la tua voglio subito dirti
quanto io sia felice della notizia della
tua mostra, è una cosa bellissima, da
Pierre, è quasi una garanzia di successo
se tu puoi lavorare bene. Sono certa che
una mostra con le sole cose che hai qua
e là sarebbe già a Parigi di grande
interesse, ma d’altra parte come fare
per il trasporto. E per te stare a
Parigi è già molto avere lo studio,
certo è un peccato che non ci siano i
miei, almeno con loro hai il vitto
assicurato. Ma basta, tanto riusciamo
sempre presso a poco a fare quello che
vogliamo ed è per questo d’altronde che
si continua a vivere anche se tante
volte è stancante. Ma questa è
un’occasione caro che non possiamo
perdere, crolli il mondo. Sono così
certa delle tue opere, anche se talvolta
dico il contrario, eppure quando lo dico
forse ho avuto ragione. Ho ugualmente
molta fiducia in te come scultore». ASF,
sezione Franchina, lettera manoscritta
di Gina Severini, s.d. [1949], n. 1241.
[38]
Vedi nota 31.
[39]
D. Chevalier, Nino Franchina.
Sculptures, brochure della mostra
Nino Franchina.
Sculptures
(Parigi, Galerie Pierre 20 aprile – 5
maggio 1949) a cura di D. Chevalier,
Imprimerie du Point-du-Jour, Auteuil
1949.
[40]
ASF, sezione Franchina, doc.
dattiloscritto di N. F., ottobre 1953,
n. 0099. Il testo fu scritto da
Franchina come corredo di un disegno
pubblicato su L. Sinisgalli, Pittori
che scrivono: antologia di scritti e
disegni, Edizioni della Meridiana,
Milano 1954, pp. 121-124.