Con il solito
sarcasmo, Giovanni
Morelli narra nel
capitolo
introduttivo delle
Kunstkritische
Studien (1890)
la preistoria d’una
connaisseurship
che egli stesso si
accinge a ridefinire
attraverso l’omonimo
metodo[1]:
Nell’anno 1840
[sic] qui a Firenze,
nell’ex chiostro di
S. Onofrio, fu
accidentalmente
scoperto un grande
affresco colla
Cena del Signore
e liberato dal
bianco intonaco che
lo copriva.
Sull’autore di
quell’affresco tanto
gli storici
dell’arte quanto i
conoscitori
d’allora, come anche
i pittori, tennero i
più svariati pareri.
Alcuni fanatici lo
volevano di
Raffaello
addirittura, e come
tale fu riprodotto
anche dal defunto
incisore Jesi; pochi
più ragionevoli lo
dichiaravano
semplicemente opera
della scuola di
Perugia. Quand’ecco
che un pittore trovò
un documento, se non
erro nella
biblioteca Strozzi,
dal quale risultava
che nell’anno 1461
l’abborracciatore di
quadri, il
fiorentino Neri di
Bicci, in quel
chiostro fu
incaricato di
dipingere una Cena.
Il buon uomo gridò
eureka e
pubblicò il suo
aureo documento.
Tutti i giudiziosi
amici dell’arte ne
risero. Anche ad uno
dei nostri più noti
archivisti, e assai
benemerito nel suo
ramo, parve quel
battesimo tanto
assurdo da tenersi
obbligato di dar
sulla voce
all’incauto pittore,
rinfacciandogli la
sua ignoranza, e dal
suo canto dichiarava
la Cena lavoro d’un
posteriore pittore
fiorentino, cioè di
Raffaellino del
Garbo, scolaro di
Filippino Lippi. Con
questo giudizio
mostrò l’ottimo
archivista di
trovarsi presso a
poco nella
conoscenza dell’arte
sullo stesso livello
del suo antagonista
pittore, il quale in
grazia del suo
documento aveva
giurato per Neri di
Bicci.
- E a quale
maestro è ora
attribuito
l’affresco ? -
chiesi io
- Il Passavant
lo attribuisce a
Giovanni Sapgna, e
il Cavalcaselle a
Gerino da Pistoia,
entrambi quindi ad
uno scolaro di
Pietro Perugino.
- E che ne
pensa lei di questo
battesimo ?
- Anch’io sono
del parere che sia
d’uno scolaro del
Perugino, che si
tenne ad
un’incisione
fiorentina del
secolo decimoquinto
e sul disegno del
suo maestro eseguì
la pittura. Forse è
Gian Nicola Manni,
il noto aiuto del
Perugino[2].
Scritta con il
senno di poi, la
narrazione della
vicenda
attribuzionistica ha
dei tratti un po’
grotteschi. In
realtà, quello di
Sant’Onofrio è uno
dei principali
cantieri nei quali
l’ancor giovane
scienza artistica
moderna affila i
propri strumenti
critici ed eruditi.
Al di là, poi, delle
questioni
prettamente erudite
– e lo dimostra la
vicenda analoga del
ritratto dantesco
nella Cappella del
fiorentino Palazzo
del Podestà[3]
– il rinvenimento
dell’affresco e le
polemiche successive
danno luogo ad una
vera e propria
spettacolarizzazione
del patrimonio
storico-artistico.
L’ultimo capitolo di
questa tendenza – il
caso del cosiddetto
Crocifisso di
Michelangelo (2004)
– ha rivelato quanti
e quali siano gli
interessi legati non
solo
all’attribuzione del
manufatto, ma anche
all’amplificazione
mediatica della sua
vicenda espositiva[4].
Se dunque il
Crocifisso
pseudo-michelangiolesco
può essere
considerato come
“una metafora
perfetta del destino
dell’arte del
passato nella
società italiana
contemporanea”,
allora il
Cenacolo di
Sant’Onofrio lo è di
quella
risorgimentale. Si
tratta, infatti, di
una fase nella quale
l’arte figurativa e
in particolare il
patrimonio
storico-artistico si
caricano di valori
patriottico-civili,
per non parlare dei
condizionamenti
estetici tesi sempre
a dare un volto
all’arte italiana
del presente. Siamo
dunque ben lontani
dalla desolante
attualità di una
storia dell’arte
degradata a “escort
di lusso della vita
pubblica”[5].
Il
raffaellismo purista
Davanti alla
parete raffaellesca
del Musée Napoléon,
Friedrich Schlegel
esprime per la prima
volta l’idea che di
fronte
all’innegabile
maturità artistica
della
Trasfigurazione,
è soprattutto nelle
Madonne (più o meno)
giovanili che emerge
l’autentico animo
raffaellesco
caratterizzato
dall’amabilità e
dalla gentilezza. Il
filosofo tedesco
vede l’importanza di
Raffaello nel suo
essere interprete
fedele delle
tradizioni
artistiche
quattrocentesche che
egli introduce
nell’estetica
rinascimentale tanto
da costituire una
specie di antidoto
alla presunta
corruzione degli
italiani “moderni”.
Per questa ragione
Schlegel invita gli
artisti moderni a
prediligere il primo
Raffaello delle
Madonne quale punto
di riferimento della
propria creatività[6].
Alexis-François Rio
riprende, nel suo
De la poésie
chrétienne
(1836), il filo
dell’argomentazione
schlegeliana. Egli
constata un palese
senso di
discontinuità tra il
primo e l’ultimo
Raffaello. Il punto
di rottura è
precisamente
individuabile
nell’ultima mano che
l’artista dette alla
Disputa[7].
Simili pensieri
sull’opera di
Raffaello sono
attribuiti in quel
periodo anche al
marchese Pietro
Selvatico Estense[8],
il primo dei
«fanatici» proseliti
di un’autografia
raffaellesca
dell’affresco di
Sant’Onofrio cui
accenna Morelli. Da
una lettera
all’amico Bernardi
(1840) conosciamo,
infatti, i commenti
sarcastici di
Giuseppe Jappelli,
il quale ironizza
contro il «delirio»
di un Selvatico
«giunto al segno di
non guardare, perché
cosa profana, la
Madonna di Foligno
capo d’opera di
Rafaello, e di
proclamare che nella
Madonna della
Seggiola il gran
Pittore fù al di
sotto di se stesso»[9].
In effetti, in
quegli anni,
Selvatico inizia uno
scambio d’idee
intenso con
l’ambiente purista
romano e fiorentino
grazie soprattutto
alla mediazione del
pittore Francesco
Salghetti-Drioli. Ed
è proprio in una
lettera a
quest’ultimo che il
marchese chiede
informazioni
all’amico Salghetti
dopo aver sentito
parlare, in uno
scritto sull’arte
moderna in Italia di
Fréderic Mercey
(1840), del conte
Carlo della Porta e
di altri giovani
artisti fiorentini i
quali sembrerebbero
mettersi sulle orme
dei primitivi tre e
quattrocenteschi[10]:
Chi è questo
della Porta? Io nol
conosco. È veramente
fra i riformatori?
Lascia sperare di
uscir dal
convenzionale che
infanga l’arte? In
somma è luce o
tenebre, secondo il
concetto che si
facciamo noi due
della vera luce e
della oscurità vera?
Ditemene, se non vi
spiace, qualche
cosa, e ditemelo
presto che mi
obbligherete
sommamente[11].
Durante un
soggiorno fiorentino
nel febbraio del
1843, Selvatico ha
poi modo di
incontrare il conte
della Porta (da lui
definito come
«paziente
osservatore dei
trecentisti,
studioso de’
quattrocentisti, ed
amoroso ricercatore
della verità»[12])
e in genere di
approfondire la
conoscenza
dell’ambiente
artistico toscano
risvegliatosi grazie
all’insegnamento
accademico di
Bartolini, per non
parlare della scuola
pratese dell’ingresiano
Franz Adolf von
Stürler. Sempre a
Firenze,
all’esposizione
accademica,
Selvatico accoglie
con grande
entusiasmo la
sintesi creativa di
questi fermenti
puristi in Toscana:
la Musica
Sacra di Luigi
Mussini è, secondo
le parole del
marchese padovano,
«una delle più belle
opere contemporanee»[13].
Resta a vedere in
che maniera il
raffaellismo purista
dei giovani toscani
abbia condizionato
le attitudini visive
degli amatori e
conoscitori giunti
nel capoluogo
toscano per ammirare
un ‘capolavoro
ritrovato’.
La scoperta
dell’affresco e la
questione
dell’autografia:
l’esame stilistica,
la paleografia, i
documenti d’archivio
Proprio il
della Porta e suo
amico Ignazio Zotti
si rivelano in
effetti degli ottimi
osservatori e
conoscitori dei
maestri antichi
visto che ad essi si
deve, nel 1843, la
scoperta
dell’affresco di
Sant’Onofrio.
Passando davanti
all’ex-educatorio
femminile detto “di
Fuligno” in via
Faenza, lo Zotti
scorge per primo che
nell’allora bottega
di un carozziere vi
sono delle tracce di
pittura. Insieme a
della Porta nel
luglio dello stesso
anno scoprono
l’affresco del
Cenacolo, lo
puliscono e dopo
averlo confrontato
con l’affresco di S.
Severo essi non
indugiano a
pronunciare il nome
di Raffaello quale
autore[14].
È evidente che
l’attribuzione a
Raffaello di un
affresco d’elevata
qualità artistica e
di chiara matrice
quattrocentesca
comporta una
rilettu-ra
significativa del
curriculum formativo
e dell’estetica
raffaellesca in
chiave schlegeliana.
Tale aspetto non
sfugge affatto a
Jacob Burckhardt,
quando sottolinea,
nella seconda
edizione del manuale
di Kugler, la
centralità del
problema attributivo
di S. Onofrio,
perché «l’immagine
dell’intero sviluppo
raffaellesco dipende
troppo da esso»[15].
L’ipotesi
dell’autografia
raffaellesca
rivendicata dagli
scopritori viene poi
avvalorata dal
rinvenimento di una
presunta epigrafe
sull’orlo della
tunica di S.
Tommaso, dove
appunto alcuni
osservatori pensano
di individuare le
lettere «R.S.V.P.P.E.S.17.A.1500»
e di interpretarle
come Raphael
Sanctius Urbinas
pinxit Perusiae
aetatis suae 17 anno
1500. Ma ci sono
anche altri
materiali di
confronto, in
particolare due
disegni – uno di
collezione
Santarelli, l’altro
di collezione Piatti
– i quali
sembrerebbero
confermare quanto è
stato detto dagli
autori precedenti.
È soprattutto
l’esame dei disegni
ad incuriosire
Selvatico che visita
Firenze di nuovo nel
1845. Sulla
“Rivista” di Firenze
e su altri periodici
come il “Giornale
Euganeo”, il
marchese esprime,
infatti, il proprio
parere favorevole
all’attribuzione
raffaellesca del
dipinto.
Ma trattandosi
di un autore così
celebre viene
naturalmente a
chiedersi il perché
l’affresco non
venisse nominato da
nessuna delle fonti
scritte.Ben presto,
però, sembra essersi
individuato il
guastafeste
nell’esperto di
paleografia Gargano
Gargani Garganetti,
il quale studiando
il libro delle
Ricordanze di
Neri di Bicci
(1453-75) vi trova
l’accenno alla
commissione di un’Ultima
Cena all’omonimo
pittore fiorentino[16].
A quest’ultimo
si associano
Missirini e Rosini,
tutti uniti nella
convinzione che
l’opera sia quella
documentata da Neri
di Bicci e quindi
databile agli anni
1461 e 1462, vale a
dire vent’anni prima
della nascita di
Raffaello[17].
Ne consegue
automaticamente una
domanda: quanto sono
affidabili le
testimonianze
scritte, quali sono
le potenzialità
della storia dello
stile? Ben informato
dai periodici
stranieri sugli
ultimi risvolti,
Selvatico appena
tornato dal suo
viaggio a Dresda e
Vienna scrive
nell’ottobre 1846
all’amico Milanesi:
Or vengo alla
notizia che mi date
sul fresco di S.
Onofrio di cui avevo
sentito già parlare
a Vienna, ed avevo
letto un cenno nella
Gazzetta d’Augusta.
Sarei curiosissimo
di vedere questo
benedetto documento
del 1461 il quale,
intanto che descrive
l’opera esattamente,
è contraddetto dal
fatto più
essenziale, la
dissomiglianza cioè
fra le opere vere di
Neri di Bicci,
e questa che gli
vien ora attribuita!
Come va dunque la
faccenda? O il
documento fu
artatamente falsato,
o piuttosto è da
credere che
dipintosi in
quell’anno dal
ricordato scrittore
un Cenacolo a S.
Onofrio, siasi da
poi da questo guasti
così, da mettere
nelle monache la
necessità di farlo
rinnovare da altro
pennello. Per certo
nel 1461 nessuno
dipingeva così,
neppure lo stesso
Gozzoli ch’è sì
valente ne’ suoi
freschi non parliamo
poi del disegno che
allora non toccava
sì alta perfezione
sicuramente. Se il
Bicci fosse stato
abile a sì prezioso
lavoro, bisognerebbe
dire che prima ancor
che nascesse
Raffaello il disegno
avea tocco il suo
apogeo. Mi si
risponderà che
allora fiorirono e
Luca della Robbia ed
il Lippi, e il
Mantegna e Giovanni
Bellini ed altri: ma
con buona pace dei
lor lodatori,
nessuno per certo
poteva giungere a
tanta sapienza di
contorno come vedesi
in alcune figure di
questo Cenacolo.
Basta, son
curiosissimo di
vedere appurata
questa torbida
fanghiglia dalla
giudiziosa e
veggente critica
vostra; ed intanto
mi sarebbe
carissimo, se fosse
possibile avere il
libretto per veder
anch’io gli
strambotti di questo
vostro bell’imbusto.
Nulla me ne
scrissero né il
Della Porta né lo
Zotti; voi che
potete avere
occasione di
vederli, dite loro
che me ne dicano
qualche cosa, e che
se hanno una copia
del libro, come
probabilmente
l’avranno, ma la
mandino, che a me
non mancheranno
occasioni di
ritornarla loro,
caso non si possa
acquistare[18].
Ringraziando,
poi, del libro di
Garganetti e della
rispettiva
confutazione di
Tommaso Masi,
Selvatico aggiunge
circa un mese dopo:
Lessi il
libretto del Gargani,
e potete credere che
abbia riso a
crepapelle per que’
suoi strambotti di
tutte le razze.
Povero diavolo!
faceste a dovere ad
inserir quelle
parole di
Michelangelo Ms.te;
son proprio la più
degna risposta a
quella goffa
fanfaluca.
Lessi pure
oggi, subito che mi
giunse, la
Confutazione; e la
mi parve giudiziosa
e temperatamente
stringente; sebbene
l’Opuscolo del
Garganetti potesse
dar luogo a qualche
maggiore
punzecchiatura che
il buon uomo avea
meritato per certo.
– Ora che la
polemica è
incominciata e i
campioni verranno
sul serio alle mani,
penso di tacermi;
tanto più che i
migliori argomenti
di opposizione mi
pajono esposti di
quel, così detto,
verniciajo[19].
Tommaso Masi,
lo scopritore
dell’affresco,
controbatte infatti
all’argomentazione
del paleografo
fiorentino che ai
tempi di Raffaello
il convento di S.
Onofrio comprendeva
ben due refettori; è
dunque probabile che
Neri di Bicci ne
abbia decorato
quello più vecchio,
mentre l’altro
spetterebbe al
giovane Raffaello[20]:
le argomentazioni
contrarie
all’autografia
raffaellesca
sembrerebbero
reggersi dunque «su
gambe sottili», come
sottolinea Alfred
Reumont sul “Kunstblatt”[21].
La stessa
convinzione emerge
anche qualche anno
più tardi in un
ampio articolo di
Ludovic Vitet, il
quale informa i
lettori della “Revue
des deux mondes”
(1850) dello stato
delle indagini
constatando appunto
la difficile
interpretabilità
delle fonti
documentarie per lo
studio delle arti
figurative. Vitet,
le cui ricerche di
quegli anni vertono
soprattutto sui
problemi di critica
architettonica, come
nel caso del suo
studio su Notre-Dame
de Noyon, insiste
dunque sull’esame
ravvicinato d’un
manufatto:
Certes, l’érudition
est une belle chose,
et les preuves
écrites sont le
fondement de toute
certitude historique,
mais à la condition
que l’esprit les
vivifie. Quand il
s’agit surtout des
arts et de leur
histoire, les doctes,
qui n’ont vu que
leurs livres, ne
valent pas le plus
mince écolier, s’il
a vu des monumens,
s’il les a comparés
et s’il les a
compris. Par malheur,
les écoliers de
cette sorte ne
laissent pas que
d’être assez rares,
et le public, encore
un coup, n’a de foi
que pour ce qui est
écrit[22].
Ecco dunque lo
spirito della
“critica oculare”,
come direbbe Rumohr,
che «ravviva» ed
interpreta il dato
positivo dei
documenti[23].
La questione che
rimane è quella dei
criteri dell’analisi
figurativa. Qui,
infatti, sta il
problema
attribuzionistico:
l’opera, a causa
dell’elevata qualità
sua, non può che
essere frutto di un
pennello celebre per
molti degli artisti
e critici coinvolti.
Invece d’esporre
tutto il materiale
disponibile ed
analizzarlo in un
secondo momento,
sembra che il punto
d’arrivo sia ben
noto a tutti i
conoscitori
coinvolti: la
questione non sembra
“chi è l’autore
dell’affresco?”,
bensì “è di
Raffaello o no
quest’opera?”.
Selvatico stesso pur
scostandosi
dall’ormai abituale
confronto con gli
affreschi
raffaelleschi di S.
Severo (da lui
rivisti in quel
periodo) non pensa
però di mettere in
dubbio l’autografia
raffaellesca: semmai
egli corregge le
possibili coordinate
culturali dell’opera
sottolineando
piuttosto delle
somiglianze spiccate
con alcune parti
della Libreria
Piccolomini[24].
Il fatto poi che
l’opera sia stata
ignorata a lungo può
avere – secondo il
marchese – una
plausibile ragione
biografica, data la
ben nota anzi
l’«eccessiva
modestia di lui»[25]:
sta infatti, in
questa
considerazione degli
aspetti biografici e
psicologici che
accomuna i
“professori” e
puristi come
Selvatico, Vitet,
Jesi e Minardi.
Ad ogni modo,
data la qualità del
partito
pro-raffaellesco
formato da critici
ed artisti tutti più
o meno impegnati sul
fronte del Purismo
figurativo, emerge
infatti lo sfondo
culturale della
vicenda: l’identikit
dell’ignoto maestro
proposto rispecchia
infatti
perfettamente l’idea
raffaellesca dei
puristi. Lo stesso
Vitet sottolinea che
l’artista in
questione –
sicuramente giovane
e libero da vincoli
esterni – pur
conoscendo il
contemporaneo
Cenacolo
leonardesco di S.
Maria delle Grazie a
Milano dimostrerebbe
però d’essere
insensibile alle
mode prediligendo
anzi un linguaggio
tendenzialmente
arcaizzante, come
emerge dall’analisi
dell’iconografia,
dal trattamento
delle fisionomie e
dai drappeggi:
Replaçons-nous
devant cette
Sainte-Cène, si naïf
et si savante à la
fois, devant cette
oeuvre pleine de
contrastes et
vraiment
inexplicable, si
nous ne savions qu’à
Florence, en 1505,
il y avait un homme
qui, par un
privilège unique,
était en même temps
le plus soumis
disciple de l’école
traditionelle et
l’esprit le plus
libre, le plus
ouvert à tous les
progrès de son art;
également apte à
comprendre l’idéal
et à étudier la
nature; en un mot
Masaccio et Angelico
tout ensemble[26].
Il mito
purista del giovane
Raffaello assume,
però, uno specifico
sapore locale
nell’ambiente
fiorentino di quegli
anni.
Quello delle
scoperte clamorose
di capolavori
dimenticati è uno
dei temi più cari
alla storiografia
artistica di tutti i
tempi, una delle
rarissime occasioni,
in cui la
connoisseurship
sfonda i margini
ristretti dello
specialismo
attribuzionistico
tanto da raggiungere
un pubblico più
ampio di non soli
addetti ai lavori[27].
Nello specifico
contesto
risorgimentale,
alcuni rinvenimenti
si trasformano in
campagne
pubblicistiche ad
ampio raggio; come
se gli affreschi
liberati ormai dallo
strato di polvere
che li nascondeva
per secoli interi
fossero metafore
dell’Italia
dormiente che
riscopre le proprie
radici culturali
liberandosi,
appunto, del peso
della dominazione
straniera e
dell’omologazione
culturale che
avrebbero oscurato
le sue glorie
passate. Peccato
solo che il più noto
caso del genere, la
scoperta (1840) del
celebre ritratto di
Dante
nell’ex-Palazzo del
Podestà – opera che
il Vasari
attribuisce a Giotto
– spetti ad un
gruppo di studiosi
anglo-americani![28]
Quando nel
1846 si presenta
l’ipotesi
dell’acquisto
dell’affresco da
parte di un noto
mercante d’arte
inglese interviene
il granduca Leopoldo
II il quale acquista
l’immobile lo stesso
anno con l’intento
di trasformare la
sala dell’affresco
in museo pubblico
(come infatti
avverrà a partire
dal 1855, quando vi
saranno sistemate le
collezioni
egittologiche)[29]:
la stessa sala
accoglie, sulla
parete adiacente, un
busto di Raffaello e
di fronte
all’affresco sono
esposti disegni ed
incisioni per
confermare
l’attribuzione ed
abituare
l’osservatore al
confronto visivo. Il
monumento d’arte si
trasforma, del tutto
in linea con la
cultura
commemorativa
dell’epoca, in
monumento o meglio
“santuario”
d’artista (L. Vitet)[30].
I modelli che
ispirano questa
riqualificazione
sui generis sono
le statue di Arnolfo
di Cambio e Filippo
Brunelleschi di
fronte a S. Maria
del Fiore oppure il
cortile degli Uffizi
con la serie dei
toscani illustri.
Altri clamorosi
rinvenimenti, in
primis il
ritratto di Dante
nell’ex-Palazzo del
Podestà, mostrano
simili risvolti sul
piano istituzionale:
attraverso
l’altrettanto
controversa scoperta
dell’affresco
trecentesco, il
palazzo
semiabbandonato,
privo ormai della
sua funzione
originaria, rivive
una stagione di
centralità nella
cultura cittadina e
la successiva
fondazione del Museo
Nazionale sarà
l’ultima tappa di
questa
riqualificazione[31].
«L’importante
è che quell’opera
sia bella, e degna
di studio»: dubbi ed
insistenze nel
dibattito
attribuzionistico
Dopo
l’entusiasmo degli
anni Quaranta, molti
esperti rivedono
l’attribuzione
raffaellesca fatta
‘a caldo’: nel
frattempo, infatti,
l’immagine
dell’Urbinate ha
guadagnato di
complessità grazie
all’avanzamento
delle tecniche
riproduttive, per
non parlare del
moltiplicarsi di
indagini
monografiche.
Tornando dunque nel
1862 ad occuparsi
dell’affresco di
Perugino, Ludovic
Vitet cerca di
rispondere a chi fra
i conoscitori
europei mostra ormai
forti dubbi
circa l’ipotesi
dell’autografia
raffaellesca
dell’affresco:Jacob
Burckhardt, nelle
note alla seconda
edizione del manuale
storico della
pittura di Franz
Kugler, dubita
dell’autografia
raffaellesca per
ragioni soprattutto
stilistiche, ma
anche storiche[32];
Carlo e Gaetano
Milanesi e Carlo
Pini, nel commento
alla rispettiva vita
vasariane,
considerano
l’autografia
raffaellesca della
pittura «quasi
incredibile»[33];
Johann David
Passavant,
nell’edizione
francese della sua
monografia su
Raffaello (1860)
pensa allo Spagna
che avrebbe
realizzato
l’affresco su
disegno del Perugino[34].
Selvatico, venuto a
sapere che anche gli
amici senesi stanno
abbandonando
l’iniziale
propensione
all’autografia
raffaellesca, non
riesce a
risparmiarsi un
accenno alla
questione
dell’affresco di S.
Onofrio in una
lettera del 1852
all’amico Carlo
Milanesi: «non
parlar poi nulla […]
del Cenacolo di
Fuligno, la mi par
troppo magro,
giacché, si dica
quel che si vuole,
Raffaello c’entrato
di certo»[35].
Fermamente convinto
dell’autografia
raffaellesca,
Selvatico ripubblica
il proprio saggio
del 1845 negli
Scritti d’arte
(1859) e in nota
accenna al commento
di Milanesi e Pini i
quali avrebbero
declinato l’ipotesi
raffaellesca per
«induzioni storiche»[36].
Nel secondo volume
delle sue lezioni
accademiche egli
sottolinea, per
altro, che le voci
rilevanti non sono,
dunque, quelle degli
«amatori», ma quelle
dei «professori» del
disegno – nomi
appunto come Mengs,
Cornelius, Minardi e
Jesi[37]
– che conoscono la
grammatica del
disegno
dall’imitazione ed
emulazione del
linguaggio
raffaellesco[38].
Nell’ottica
selvatichiana le
competenze del
conoscitore sono
direttamente
proporzionali alla
sua abilità
disegnativa ed è
questo uno dei temi
più frequenti nella
letteratura
artistica
settecentesca,
quando appunto il
«professore» del
disegno era
necessariamente un
gran conoscitore
d’arte.
In una lettera
all’amico e
confidente Pietro
Mugna, Selvatico
commenta nel
febbraio 1862 le
recenti discussioni
sull’autografia
dell’affresco e il
distacco dai recenti
sviluppi
dell’erudizione
artistica emerge con
molta chiarezza:
Non vidi
l’art.° del Vitet di
cui mi parli, ma mi
figuro che sarà
consentaneo
all’opinione ch’egli
espresse, me’
presente, in
Firenze, nel 1845.
Egli venne anzi
allora, più volte,
in mia compagnia ad
ammirare quella
stupenda opera, e
credo anche ne
scrivesse qualche
cosa su pei
giornali. L’opinione
del Passavant è di
quelle che non
possono fare né
freddo, né caldo
nella quistione:
prima di tutto
perché credo egli
non vedesse mai quel
fresco, poi, se
anche lo avesse
veduto, non era in
grado di riconoscere
se fosse proprio
della mano del
Sanzio. Erudito e
non altro che
erudito; in fatto di
giudizii artistici
valeva poco – Del
resto io credo che
su questa disputa di
lana caprina,
nessuno abbia voluto
procedere, come si
doveva, vale a dire
facendo raffronti
fra quell’opera e le
pitture del
Pinturicchio a
Spello, e dello
Spagna ad Assisi; i
due soli artisti a
cui era possibile
attribuire il
dipinto di Perugino,
quando non lo si
voglia del Sanzio. –
Io consigliai tali
confronti;
ripubblicando a
Firenze pel Barbèra
il mio scritto su
quel fresco – Ma gli
eruditi, se pur
fecero tali
confronti; non erano
in grado di cavarne
un criterio
acconcio; e gli
artisti, quando pure
l’avessero fatto,
non si sarebbero
uniti di schiarire i
dubbi degli eruditi.
L’importante è che
quell’opera sia
bella, e degna di
studio, e tale è
senza dubbio. Pel
resto ci pensino i
disputatori di date
che all’arte come
alla scienza, non
portano mai un
centellino di
vantaggio[39]..
La reazioni di
Selvatico ricorda
nei toni l’ironia di
Burckhardt, secondo
il quale
l’ossessione
morelliana di
individuare
l’autografia fa
perdere qualsiasi
gusto per il bello
nella pittura: «Das
Beste, was in
Bildern steckt, /
Ist doch am Ende:
was uns schmeckt»[40].
Il modo in cui
i conoscitori
tendono ad
affrontare la
questione
dell’autografia
risulta poco più
d’una «disputa di
lana caprina» a chi,
come Selvatico, vede
nella tradizione
pittorica innanzi
tutto un oggetto di
fruizione tecnica e
creativa, una fonte
d’insegnamento per
l’osservatore. Il
disegno raffaellesco
consiste, a suo
parere, nella
rappresentazione
della «natura
imparata a leggere
colle norme della
scienza geometrica»:
una lettura che
coincide palesemente
con il suo progetto
didattico incentrato
sull’insegnamento
del disegno
geometrico.
Lo sguardo poi
sulla pittura è
focalizzato sugli
elementi espressivi
dell’istoria,
ossia sulla mimica e
gestualità dei
caratteri
rappresentati:
infatti, i
personaggi
particolarmente
interessanti sono
Gesù e il traditore
Giuda, perché
incarnano con
particolare
chiarezza «l’altezza
del concetto», vale
a dire la
contrapposizione tra
l’amore divino e la
debolezza umana.
Caratterizzando
l’espressione di
Giuda, Selvatico si
sofferma sulle mani,
«l’una rabbiosamente
stringendo il prezzo
infame del delitto,
l’altra posando
quasi convulsa sulla
tavola, dicono
l’agitazione che
dentro lo cruccia»
ed è evidente che
l’analisi formale
sia funzionale ad
una lettura
psicologica dei
personaggi
rappresentati[41].
Questa maniera
d’osservare i
pittori antichi
facendo particolare
attenzione alle
fisionomie ed alle
mani, Selvatico la
espone anche nel
Pittore storico,
quando cerca di
sensibilizzare la
vista dei giovani
nell’osservazione
degli antichi
maestri:
[…] non
solamente nella
fisonomia o negli
atti generali del
corpo sta chiusa
l’espressione degli
intimi moti
dell’animo; essa si
raccoglie talvolta
nelle estremità,
parti che, come ho
già detto, i pittori
moderni studiano
troppo poco. Le mani
ed i piedi sono
organi di
espressione che, ben
accordati con quelli
del viso,
contribuiscono
infinitamente a
caratterizzare ed a
render più vere le
figure che il
pittore si sforza di
presentarci come
viventi[42].
A proposito di
Raffaello, sempre
nel Pittore
storico egli
aggiunge:
[…] poiché ho
nominato qui
Rafaello, quale è il
quadro di questo
insigne ove le
estremità non sieno
grande, anzi
precipuo mezzo a
rivelare l’affetto
che egli vuol far
esprimere alle sue
figure? Non conosco
altri artisti che
possano essergli in
questo paragonati, e
meno ancor fra i
moderni, se ne
escludiamo però il
francese Delaroche
le cui estremità
presentano sempre
una vita e, per così
dire, un linguaggio
che parla al cuore
sentimenti o di
pietà o di terrore o
di amore[43].
L’insistenza
del marchese
sull’esame
ravvicinato delle
estremità e
fisionomie nei
pittori antichi
trova, in effetti,
un’analogia puntuale
nell’album
litografico che lo
Zotti pubblica nel
1854 e che sembra in
primo luogo una
raccolta di specimen
da sottoporre agli
alunni accademici
ancora alle prime
armi: i ritratti, le
mani e i piedi di
grandezza naturale
sono i segni d’una
grammatica
dell’espressione,
che coincidono in
parte con gli indizi
morelliani, ma la
consapevolezza della
comunicazione
istoriata non ha
nulla a che vedere
con gli indizi
lasciati
inconsapevolmente
sul ‘luogo del
delitto’[44].
I taccuini di
Giovanni Battista
Cavalcaselle
dimostrano quanto
l’attenzione
dell’esperto
conoscitore sia
ancora fortemente
condizionata dalla
prospettiva
normativa del
Pittore storico
che passa le opere
dei maestri antichi
attraverso il
setaccio
dell’estetica
pittorica (disegno,
chiaroscuro,
composizione,
colorito, panneggio)
e che analizza le
opere in funzione
spesso documentaria
per derivarvi
ritratti e costumi
coevi. Cavalcaselle
sembra, in effetti,
il lettore ideale
del Pittore
storico,
l’interprete più
fedele dell’auspicio
di condurre
ricognizioni visive
davanti
all’originale, di
crearsi un archivio
visivo[45].
Nei suoi disegni,
com’è stato
recentemente
osservato, prevale
un’attenzione
necessariamente
selettiva per le
figure umane, i
panneggi, le
architetture, le
fisionomie ed
estremità che
comunicano
all’osservatore gli
stati d’animo e le
interrelazioni dei
personaggi[46].
Quest’attenzione
selettiva dettata
dal mezzo grafico e
dall’immediatezza
della visione
ravvicinata riflette
senz’altro i criteri
visivi teorizzati
nel Pittore
storico ed è
quindi opportuno
tenere presente dei
libri, come quello
selvatichiano, il
cui carattere è
apparentemente
normativo e
didattico, ma che
coincidono
pesantemente sulle
attitudini
percettive di un
pubblico ancora in
bilico tra
«professore»,
«amatore» e
conoscitore.
Conclusione
__________________________________
[1] Per la figura e il metodo di Morelli, cfr. J. Anderson, Collecting connoisseurship and the art market in Risorgimento Italy: Giovanni Morelli’s letters to Giovanni Melli and Pietro Zavaritt (1866-1872), Venezia, Ist. Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 1999 (con bibliografia precedente).
[2] G. Morelli, Kunstkritische Studien über italienische Malerei . – Die Galerien Borghese und Doria Panfili in Rom, Brockhaus, Leipzig 1890, pp. 36-37. Cit. dall’ed. ital. Della pittura italiana, studii storico-critici. Le Gallerie Borghese e Doria-Pamphili in Roma, a cura di J. Anderson, Adelphi, Milano 1991, p. 47.
[3] Cfr. a questo proposito P. Barocchi, La scoperta del ritratto di Dante nel Palazzo del Podestà: dantismo letterario e figurativo, in Studi e ricerche di collezionismo e museografia, Firenze 1820-1920, Scuola Normale Superiore, Pisa 1985, pp. 151-178.
[4] Cfr. a questo proposito l’analisi lucida di T. Montanari, A cosa serve Michelangelo?, Einaudi, Torino 2011.
[5] Ibidem, testo di copertina.
[6] F. Schlegel, Vom Raphael, in “Europa”, vol. 1, 1803, n. 2, pp. 12-13. Sulla prospettiva estetica di Schlegel e le sue visite ai musei di Dresda e Parigi, cfr. H. Locher, «Construction des Ganzen»: Friedrich Schlegels kritische Gänge durch das Museum, in Der Körper der Kunst: Konstruktionen der Totalität im Kunstdiskurs um 1800, a cura di J. Grave, H. Locher, R. Wegner, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2007, pp. 99-131. Per la fortuna storiografica di Raffaello nel secolo XIX, cfr. l’efficace sintesi di M. Cardelli, I due purismi: la polemica sulla pittura religiosa in Italia 1836-1844, tip. Capponi, Firenze 2005, pp. 41-44, ma anche pp. 198-206 (con bibliografia precedente).
[7] A-F. Rio, De la poésie chrétienne dans son principe, dans sa matière et dans ses formes: forme de l’art; peinture, Debécourt Librairie Editrice, Paris 1836, pp. 297-303.
[8] Per il quale cfr. F Bernabei, Pietro Selvatico nella critica e nella storia delle arti figurative dell’Ottocento, Neri Pozza, Vicenza 1974; A. Auf der Heyde, L’apprendista stregone: Pietro Selvatico tra opinionismo pubblico e storiografia specializzata nell’Italia pre-quarantottesca, in “Annali di critica d’arte”, V, 2009, pp. 153-203.
[9] Lettera di Giuseppe Jappelli a Bernardi (Roma, 10 aprile 1840), cit. in M.F. Apolloni, Lettere da Roma di Giuseppe Jappelli, in “Ricerche di Storia dell’arte”, 28-29, 1986, p. 146.
[10] F. Mercey, La Peinture et la Sculpture en Italie, in “Revue des deux mondes”, 1840, 3, pp. 259-260.
[11] Lettera di P. Selvatico Estense a Francesco Salghetti-Drioli (Padova, 25 maggio [1841]). Biblioteca del Senato “Giovanni Spadolini”, Roma / Fondo dalmata Cippico-Bacotich, cassetta 6 (Corrispondenza F. Salghetti-Drioli, O-S).
[12] «Il Della Porta è uno di quei pochissimi disegnatori a cui la preziosa finitezza nulla nuoce né all’effetto del chiaroscuro, né alla vigoria del segno. Egli è una prova di più di un vero su cui molti inetti artisti per loro mala sorte sogghignano; che a bene intendere Raffaello è bisogno di aver la mente educata a forti, lunghi e coscienziosi studi sulla sola grande arti italiana, l’arte del trecento e del quattrocento». P. Selvatico Estense, Sull’arte moderna in Firenze, in “Rivista Europea”, 1843, III, pp. 139-140.
[13] Ibidem, pp. 141-142. L’unica pecca del quadro è, secondo Selvatico, il suo colorito poco «succoso» e vero. Per una lettura del quadro e della sua ricezione critica, cfr. G. Capitelli in Nel segno di Ingres: Luigi Mussini e l’Accademia in Europa nell’Ottocento, catalogo della mostra a cura di C. Sisi, E. Spalletti, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo (Mi) 2007, pp. 86-87 (con bibliografia precedente).
[14] Cfr. S. Padovani, Il Cenacolo di Sant’Onofrio detto «del Fuligno», in Pietro Vannucci, il Perugino, atti del convegno internazionale di studio (Perugia 25-28 ottobre 2000) a cura di L. Teza, con la collaborazione di Mirko Santanicchia, Volumnia, Perugia 2004, pp. 49-63.
[15] J. Burckhardt in D. Franz Kugler’s Handbuch der Geschichte der Malerei seit Constantin dem Grossen. – Zweite Auflage unter Mitwirkung des Verfassers umgearbeitet und vermehrt von Dr. Jacob Burckhardt, 2 voll., Duncker & Humblot, Berlin 1847, p. 567.
[16] G. Gargani Garganetti, Della ultima cena di Cristo con gli Apostoli: pittura a fresco nel refettorio del Monastero di Sant’Onofrio detto di Fuligno attribuita a Raffaello d’Urbino, Campolmi, Firenze 1846; Manuelli, Firenze 18472.
[17] Cfr. anche il commento sul “Kunstblatt” (1846): «Giambattista Rossini [sic], Professor an der Universität von Pisa, hat in der Bibliothek des hiesigen Palastes Strozzi ein Dokument aufgefunden, woraus erhellt, daß das große Gemälde mit der Darstellung des heil. Abendmahls, das im vorigen Jahre im Kloster St. Onofrio zu Florenz entdeckt worden ist, und das man allgemein dem Raffael zugeschrieben hatte, nicht von diesem Meister, sondern von Neri di Bicci herrührt, einem Florentinischen Maler, der das Werk in den Jahren 1461 bis 1462, somit 22 Jahre vor der Geburt Raffaels gefertigt hat». Nachrichten vom September. – Malerei. – Florenz, in “Kunstblatt”, 58, 24 novembre 1846, p. 235.
[18] Lettera di P. Selvatico Estense a Carlo Milanesi (Padova, 9 ottobre 1846). Biblioteca Comunale degli Intronati, Siena: ms. A.V.37. Infatti, assai simile a questa valutazione risulta il giudizio di Alfred Reumont, che scrive sul “Kunstblatt”: «Non mi sembra del tutto plausibile come un pittore, le cui opere venivano attribuite a Giotto e Spinello […] e che appartiene agli ultimissimi imitatori dei trecentisti, dopo tutte queste opere possa aver improvvisamente creato un dipinto grande, nel quale i più esercitati conoscitori riconoscono tutta la bellezza e particolarità del giovane Raffaello. La distanza è troppo grande, l’abisso troppo largo da far pensare che persone, come i soprannominati, si siano potute ingannare così clamorosamente. La commissione di rappresentare un Cenacolo venne senz’altro data a Neri di Bicci; ma se l’opera presente sia attribuibile alla mano di un imitatore dei trecentisti oppure alla gioventù di Raffaello, questo, mi pare, debba dirci il carattere del dipinto». A. Reumont, Das Cenacolo in St. Onofrio zu Florenz: 1) Di un nuovo dipinto a fresco di Raffaello in Firenze. Cenni di Pietro Selvatico. – 2) Della ultima Cena di Cristo cogli Apostoli. Illustrazione di G. Gargani Gargaretti. – 3) Sul Cenacolo del già Convento di St. Onofrio etc. Confutazione di Tommaso Masi, in “Kunstblatt”, 7, 11 febbraio 1847, p. 25.
[19] Lettera di P. Selvatico Estense a Carlo Milanesi (Padova, 3 novembre 1846). Biblioteca Comunale degli Intronati, Siena: ms. A.V.37.
[20] T. Masi, Sul Cenacolo del già convento di Sant’Onofrio delle monache di Fuligno confutazione di Tommaso Masi allo scritto del sig. G. Gargani Garganetti, Le Monnier, Firenze 1846; ma vedasi anche la risposta di G. Gargani Garganetti, Sul Cenacolo del già Monastero di Sant’Onofrio detto di Fuligno in via Faenza di Firenze: lettera seconda al Signor Abate Luigi Razzolini, Campolmi, Firenze 1848.
[21] «Attraverso la semplice esposizione dei fatti spero d’aver dimostrato almeno che le ragioni, con le quali si cerca di confutare l’autografia raffaellesca dell’opera, si reggano su gambe sottili. Se tutte le argomentazione dell’altra parte siano attendibili, non oserei decidere nemmeno. Purtroppo entrambi gli scritti polemici sono opera di persone che non sembrano capire un gran che di storia dell’arte e di critica». A. Reumont, Das Cenacolo in St. Onofrio zu Florenz: 1) Di un nuovo dipinto a fresco di Raffaello in Firenze. Cenni di Pietro Selvatico. – 2) Della ultima Cena di Cristo cogli Apostoli. Illustrazione di G. Gargani Gargaretti. – 3) Sul Cenacolo del già Convento di St. Onofrio etc. Confutazione di Tommaso Masi, in “Kunstblatt”, 7, 11 febbraio 1847, p. 26. A questi scritti s’aggiunge poi l’intervento G. Rosini, Sul cenacolo di S. Onofrio: risposta di Gio. Rosini all’articolo del sig. cav. Samuele Iesi posto nel N. 166 della Gazzetta di Firenze, Capurro, Pisa 1848.
[22] L. Vitet, La fresque de S. Onofrio, in “Revue des deux mondes”, ottobre-dicembre 1850, p. 594. Per la biografia e l’opera dello studioso francese, cfr. la voce di A. Bonnet in Dictionnaire critique des historiens de l’art actifs en France de la Révolution à la Première Guerre mondiale, a cura di P. Sénéchal, C. Barbillon, Paris, sito web dell’INHA, 2009, http://www.inha.fr/spip.php?article2566 (consultato il 3/10/2011).
[23] Il termine «critica oculare» emerge in una lettera importante resa nota e adeguatamente commentata da E. Parlato, Carl Friedrich von Rumohr e Tommaso Minardi in una lettera del 1820: storiografia e vita artistica nell’Umbria di primo Ottocento, in Arte in Umbria nell’Ottocento, catalogo della mostra a cura di F.F. Mancini, C. Zappia, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo (Mi) 2006, pp. 83-87.
[24] P. Selvatico Estense, Qualche altra osservazione sul fresco di Raffaello scoperto a Firenze, in “Il Caffè Pedrocchi: foglio settimanale”, a. I, n. 3, 18 gennaio 1846, p. 23.
[25] Id, Di un nuovo dipinto a fresco di Raffaello a Firenze, in “Giornale Euganeo”, a. II, semestre II (1845), p. 436.
[26] L. Vitet, La fresque de S. Onofrio..., p. 612.
[27] La rilevanza pubblica della scoperta e delle vicende attributive emerge anche dall’articolo riccamente illustrato: Sur la fresque de la rue Faenza, a Florence, in “Le Magasin Pittoresque”, V (1847), pp. 107-110.
[28] Infatti, nell’ambito della campagna pubblicistica a seguito del rinvenimento si tende a sminuire o addirittura a cancellare il ruolo centrale avuto dal gruppo di studiosi inglesi ed americani capeggiati da Seymour Kirkup e Richard Henry Wilde. Cfr. a questo proposito P. Barocchi, La scoperta del ritratto…, pp. 151-178.
[29] «Il fut en même temps décidé qu’on ferait de cette salle une sorte de sanctuaire en l’honneur de Raphaël, qu’on y placerait son buste et les dessins provenant de la collection Michelozzi, comme des témoins bons à consulter en face même du tableaux». L. Vitet, La fresque…, p. 616. Infatti, parlando ai lettori del “Kunstblatt” del rinvenimento Ernst Förster auspica similmente l’acquisto da parte del Comune di Firenze: «Hiebei gedenk ich mit besonderem Danke der zuvorkommenden Güte, mit welcher sowohl mein Freund, der Marchese Selvatico, den ich in Florenz traf, mich von sämmtlichen erfreulichen Entdeckungen sogleich in Kenntniß setzte, als mit welcher auch die Herren Zotti, Piatti, u.s.w. meine Studien unterstützten. Möge nun bald eine treue und schöne Nachbildung in Kupferstich die entfernten Kunstfreunde in Stand setzen, unsere Freude wenigstens einigermaßen zu theilen. Möge aber auch, und mit diesem Wunsche beschließe ich meinen Bericht, ein so außerordentliches Werk aus dem Privatbesitz in den einer Regierung übergehen, welche sich als den Erben einer großen Vergangenheit betrachtet, wo es gilt sie zu wahren und zu schützen, die die Welt aber auf das freigebigste zum Miterben macht, wo es gilt, daran sich zu erfreuen und zu erheben». E. Förster, Das Abendmahl in S. Onofrio delle Monache zu Florenz, ein neuaufgefundenes Werk Rafaels, in “Kunstblatt”, 93, 20 novembre 1845, pp. 385-386.
[30] «L’installation en est parfaitement entendue, sans luxe et sans mesquinerie. Quelques bons sièges, bien placés, où l’on peut admirer à son aise, composent tout l’ameublement; ajoutez-y pourtant un buste de Raphaël, placé au milieu de la salle et les dessins de l’ancienne collection Michelozzi, exposés sous verre comme pièces du procès. Le meilleur de tous les dossiers, c’est la fresque elle-même, ainsi mise à son jour. Quand on a passé là quelques instans, toute intention de controverse expire; on sent dans cette salle, devant cette muraille, comme un parfum raphaélesque qui dissipe le doute. Cette impression, depuis quelques années, s’est peu à peu répandue par la ville, parmi les guides, parmi les étrangers, dans le gros de la population, si bien qu’à l’heure qu’il est toute contestation semble d’abord absolument éteinte». L. Vitet, Encore un mot sur la fresque de S. Onofrio, in “Revue des deux mondes”, luglio-agosto 1862, pp. 187-188.
[31] Cfr. Dal ritratto di Dante alla Mostra del Medio Evo 1840-1865, catalogo della mostra a cura di P. Barocchi, G. Gaeta Bertelà, Museo Nazionale del Bargello, Firenze 1985, pp. 14-38 (con bibliografia precedente).
[32] J. Burckhardt, in D. Franz Kugler’s Handbuch der Geschichte der Malerei seit Constantin dem Grossen. – Zweite Auflage unter Mitwirkung des Verfassers umgearbeitet und vermehrt von Dr. Jacob Burckhardt, 2 voll., Duncker & Humblot, Berlin 1847, pp. 567-568.
[33] G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti. Pubblicate per cura di una Società di Amatori delle Arti Belle, 14 voll., Le Monnier, Firenze 1846-1870, VIII (1852), pp. I-IV.
[34] L. Vitet, Encore un mot..., pp. 197-198. Passavant sostiene, infatti, in base ad alcuni disegni dello Spagna visti a Londra che l’opera fiorentina, pur recando dei tratti raffaelleschi, è di fatto attribuibile allo Spagna che l’avrebbe eseguita su disegno del Perugino. Cfr. J.D. Passavant, Raphael d’Urbin et son père Giovanni Santi [...]. Ed. française refaite, corrigée et considérablement augmentée par l’auteur sur la traduction de Jules Lunteschutz. Revue et annotée par Paul Lacroix, 2 voll., Renouard, Paris 1860, II, pp. 320-323.
[35] Lettera di P. Selvatico Estense a Carlo Milanesi (Venezia, 11 maggio 1852). Biblioteca Comunale degli Intronati, Siena: ms. A.V.37.
[36] «Essi epilogando le varie opinioni emesse sul nostro fresco, non inclinano a ritenerlo del Sanzio, appoggiandosi ad induzioni storiche sull’opere ch’egli condusse nel 1505. – Ma dato che queste prove avessero veramente la forza di togliere quest’opera all’Urbinate, di chi dunque dovrebbe essere? Chi valse a far tanto, non può avere maniera ignota. Perciò conviene portare gli studi sui due soli artisti che (a parere mio) sieno stati in grado di raggiungere sì grande eccellenza di forma, il Pinturicchio cioè, e lo Spagna: e il primo, infatti, negli affreschi di Spello, manifesta uno stile che di molto si accosta a quello del nostro fresco. Il secondo, nella tavola in particolare di Assisi, ha certo modo di piegare, che rassomiglia a quello usato nel Cenacolo nostro. Desidero quindi che, a meglio chiarire l’ardua quistione, gli artisti e i conoscitori spassionati istituiscano accurati confronti fra questo Cenacolo e le opere surriferite; potranno forse da simile esame comparativo cavare criteri che tolgano ogni dubbiezza». P. Selvatico Estense, Scritti d’arte, Barbèra, Bianchi e Comp., Firenze 1859, p. 61.
[37] Cfr. L. Giannocolo, Samuele Jesi (1788-1853) incisore, Franchini, Correggio 2007, pp. 245-247.
[38] Cfr. P. Selvatico Estense, Storia estetico-critica delle Arti del Disegno, ovver l’Architettura, la Pittura e la Statuaria considerate nelle correlazioni fra loro e negli svolgimenti storici, estetici e tecnici; lezioni dette nella I. R. Accademia di Belle Arti in Venezia, 2 voll., Naratovitch, Venezia 1852-1856, II, p. 657.
[39] Lettera di P. Selvatico Estense a Pietro Mugna (Veggiano 1 febbraio 1862). Biblioteca Civica Bertoliana, Vicenza: epistolario Mugna, E.78.
[40] Cit. da W. Schlink, Giovanni Morelli und Jacob Burckhardt, in Giovanni Morelli e la cultura dei conoscitori, a cura di G. Agosti, M.E. Manca, M. Panzeri, coordinamento scientifico di M. Dalai Emiliani, 3 voll., Lubrica, Bergamo 1993, II, pp. 73-75.
[41] P. Selvatico Estense, Storia estetico-critica delle arti del disegno, 2 voll., Naratovitch, Venezia 1852-1856, II (1856), p. 658.
[42] Id., Sull’educazione del pittore storico italiano. Pensieri, Tip. del Seminario, Padova 1842, p. 390.
[43] Ibidem, p. 391.
[44] Per la questione del paradigma indiziario in Morelli e l’accostamento a Freud, cfr. C. Ginzburg, Spie. Radici di un paradigma indiziario, in Crisi della ragione, a cura di A. Gargani, Einaudi, Torino 1979, pp. 57-106. Cit. dall’edizione tedesca Spurensicherung. Die Wissenschaft auf der Suche nach sich selbst, Wagenbach, Berlin 2002, pp. 7-57.
[45] P. Selvatico Estense, Sull’educazione del pittore storico italiano. Pensieri, Tip. del Seminario, Padova 1842, pp. 455-457 («De’ viaggi come elemento di artistica educazione»).
[46] S. Müller-Bechtel, Die Zeichnung als Forschungsinstrument: Giovanni Battista Cavalcaselle und seine Zeichnungen zur Wandmalerei in Italien vor 1550, Deutscher Kunstverlag, München-Berlin 2004, pp. 166-175. Si vedano anche D. Levi, Cavalcaselle. Il pioniere della conservazione dell’arte italiana, Einaudi, Torino 1988; Giovanni Battista Cavalcaselle conoscitore e conservatore, Atti del Convegno internazionale di studi (Legnago-Verona 28-29 novembre 1997), a cura di A.C. Tommasi, Marsilio, Venezia 1998.