teCLa :: Rivista #4

in questo numero contributi di Stefano Colonna, Edoardo Dotto, Giuseppe Pucci, Gabriele Scaramuzza, Alexander Auf Der Heyde Stefano Valeri Michele Dantini Clarissa Ricci.

codice DOI:10.4413/RIVISTA - codice ISSN: 2038-6133
numero di ruolo generale di iscrizione al Registro Stampa: 2583/2010 del 27/07/2010

«…Si dica quel che si vuole, Raffaello c’entrato di certo»: Il cenacolo di S. Onofrio, un cantiere per la connaisseurship ottocentesca di Alexander Auf Der Heyde

Con il solito sarcasmo, Giovanni Morelli narra nel capitolo introduttivo delle Kunstkritische Studien (1890) la preistoria d’una connaisseurship che egli stesso si accinge a ridefinire attraverso l’omonimo metodo[1]:

 

Nell’anno 1840 [sic] qui a Firenze, nell’ex chiostro di S. Onofrio, fu accidentalmente scoperto un grande affresco colla Cena del Signore e liberato dal bianco intonaco che lo copriva. Sull’autore di quell’affresco tanto gli storici dell’arte quanto i conoscitori d’allora, come anche i pittori, tennero i più svariati pareri. Alcuni fanatici lo volevano di Raffaello addirittura, e come tale fu riprodotto anche dal defunto incisore Jesi; pochi più ragionevoli lo dichiaravano semplicemente opera della scuola di Perugia. Quand’ecco che un pittore trovò un documento, se non erro nella biblioteca Strozzi, dal quale risultava che nell’anno 1461 l’abborracciatore di quadri, il fiorentino Neri di Bicci, in quel chiostro fu incaricato di dipingere una Cena. Il buon uomo gridò eureka e pubblicò il suo aureo documento. Tutti i giudiziosi amici dell’arte ne risero. Anche ad uno dei nostri più noti archivisti, e assai benemerito nel suo ramo, parve quel battesimo tanto assurdo da tenersi obbligato di dar sulla voce all’incauto pittore, rinfacciandogli la sua ignoranza, e dal suo canto dichiarava la Cena lavoro d’un posteriore pittore fiorentino, cioè di Raffaellino del Garbo, scolaro di Filippino Lippi. Con questo giudizio mostrò l’ottimo archivista di trovarsi presso a poco nella conoscenza dell’arte sullo stesso livello del suo antagonista pittore, il quale in grazia del suo documento aveva giurato per Neri di Bicci.

- E a quale maestro è ora attribuito l’affresco ? - chiesi io

- Il Passavant lo attribuisce a Giovanni Sapgna, e il Cavalcaselle a Gerino da Pistoia, entrambi quindi ad uno scolaro di Pietro Perugino.

- E che ne pensa lei di questo battesimo ?

- Anch’io sono del parere che sia d’uno scolaro del Perugino, che si tenne ad un’incisione fiorentina del secolo decimoquinto e sul disegno del suo maestro eseguì la pittura. Forse è Gian Nicola Manni, il noto aiuto del Perugino[2].

 

Scritta con il senno di poi, la narrazione della vicenda attribuzionistica ha dei tratti un po’ grotteschi. In realtà, quello di Sant’Onofrio è uno dei principali cantieri nei quali l’ancor giovane scienza artistica moderna affila i propri strumenti critici ed eruditi. Al di là, poi, delle questioni prettamente erudite – e lo dimostra la vicenda analoga del ritratto dantesco nella Cappella del fiorentino Palazzo del Podestà[3] – il rinvenimento dell’affresco e le polemiche successive danno luogo ad una vera e propria spettacolarizzazione del patrimonio storico-artistico. L’ultimo capitolo di questa tendenza – il caso del cosiddetto Crocifisso di Michelangelo (2004) – ha rivelato quanti e quali siano gli interessi legati non solo all’attribuzione del manufatto, ma anche all’amplificazione mediatica della sua vicenda espositiva[4]. Se dunque il Crocifisso pseudo-michelangiolesco può essere considerato come “una metafora perfetta del destino dell’arte del passato nella società italiana contemporanea”, allora il Cenacolo di Sant’Onofrio lo è di quella risorgimentale. Si tratta, infatti, di una fase nella quale l’arte figurativa e in particolare il patrimonio storico-artistico si caricano di valori patriottico-civili, per non parlare dei condizionamenti estetici tesi sempre a dare un volto all’arte italiana del presente. Siamo dunque ben lontani dalla desolante attualità di una storia dell’arte degradata a “escort di lusso della vita pubblica”[5]

 

Il raffaellismo purista

Davanti alla parete raffaellesca del Musée Napoléon, Friedrich Schlegel esprime per la prima volta l’idea che di fronte all’innegabile maturità artistica della Trasfigurazione, è soprattutto nelle Madonne (più o meno) giovanili che emerge l’autentico animo raffaellesco caratterizzato dall’amabilità e dalla gentilezza. Il filosofo tedesco vede l’importanza di Raffaello nel suo essere interprete fedele delle tradizioni artistiche quattrocentesche che egli introduce nell’estetica rinascimentale tanto da costituire una specie di antidoto alla presunta corruzione degli italiani “moderni”. Per questa ragione Schlegel invita gli artisti moderni a prediligere il primo Raffaello delle Madonne quale punto di riferimento della propria creatività[6]. Alexis-François Rio riprende, nel suo De la poésie chrétienne (1836), il filo dell’argomentazione schlegeliana. Egli constata un palese senso di discontinuità tra il primo e l’ultimo Raffaello. Il punto di rottura è precisamente individuabile nell’ultima mano che l’artista dette alla Disputa[7]. Simili pensieri sull’opera di Raffaello sono attribuiti in quel periodo anche al marchese Pietro Selvatico Estense[8], il primo dei «fanatici» proseliti di un’autografia raffaellesca dell’affresco di Sant’Onofrio cui accenna Morelli. Da una lettera all’amico Bernardi (1840) conosciamo, infatti, i commenti sarcastici di Giuseppe Jappelli, il quale ironizza contro il «delirio» di un Selvatico «giunto al segno di non guardare, perché cosa profana, la Madonna di Foligno capo d’opera di Rafaello, e di proclamare che nella Madonna della Seggiola il gran Pittore fù al di sotto di se stesso»[9]. In effetti, in quegli anni, Selvatico inizia uno scambio d’idee intenso con l’ambiente purista romano e fiorentino grazie soprattutto alla mediazione del pittore Francesco Salghetti-Drioli. Ed è proprio in una lettera a quest’ultimo che il marchese chiede informazioni all’amico Salghetti dopo aver sentito parlare, in uno scritto sull’arte moderna in Italia di Fréderic Mercey (1840), del conte Carlo della Porta e di altri giovani artisti fiorentini i quali sembrerebbero mettersi sulle orme dei primitivi tre e quattrocenteschi[10]:

 

Chi è questo della Porta? Io nol conosco. È veramente fra i riformatori? Lascia sperare di uscir dal convenzionale che infanga l’arte? In somma è luce o tenebre, secondo il concetto che si facciamo noi due della vera luce e della oscurità vera? Ditemene, se non vi spiace, qualche cosa, e ditemelo presto che mi obbligherete sommamente[11].

 

Durante un soggiorno fiorentino nel febbraio del 1843, Selvatico ha poi modo di incontrare il conte della Porta (da lui definito come «paziente osservatore dei trecentisti, studioso de’ quattrocentisti, ed amoroso ricercatore della verità»[12]) e in genere di approfondire la conoscenza dell’ambiente artistico toscano risvegliatosi grazie all’insegnamento accademico di Bartolini, per non parlare della scuola pratese dell’ingresiano Franz Adolf von Stürler. Sempre a Firenze, all’esposizione accademica, Selvatico accoglie con grande entusiasmo la sintesi creativa di questi fermenti puristi in Toscana: la Musica Sacra di Luigi Mussini è, secondo le parole del marchese padovano, «una delle più belle opere contemporanee»[13]. Resta a vedere in che maniera il raffaellismo purista dei giovani toscani abbia condizionato le attitudini visive degli amatori e conoscitori giunti nel capoluogo toscano per ammirare un ‘capolavoro ritrovato’.

 

La scoperta dell’affresco e la questione dell’autografia: l’esame stilistica, la paleografia, i documenti d’archivio

 

Proprio il della Porta e suo amico Ignazio Zotti si rivelano in effetti degli ottimi osservatori e conoscitori dei maestri antichi visto che ad essi si deve, nel 1843, la scoperta dell’affresco di Sant’Onofrio. Passando davanti all’ex-educatorio femminile detto “di Fuligno” in via Faenza, lo Zotti scorge per primo che nell’allora bottega di un carozziere vi sono delle tracce di pittura. Insieme a della Porta nel luglio dello stesso anno scoprono l’affresco del Cenacolo, lo puliscono e dopo averlo confrontato con l’affresco di S. Severo essi non indugiano a pronunciare il nome di Raffaello quale autore[14].

È evidente che l’attribuzione a Raffaello di un affresco d’elevata qualità artistica e di chiara matrice quattrocentesca comporta una rilettu-ra significativa del curriculum formativo e dell’estetica raffaellesca in chiave schlegeliana. Tale aspetto non sfugge affatto a Jacob Burckhardt, quando sottolinea, nella seconda edizione del manuale di Kugler, la centralità del problema attributivo di S. Onofrio, perché «l’immagine dell’intero sviluppo raffaellesco dipende troppo da esso»[15].

L’ipotesi dell’autografia raffaellesca rivendicata dagli scopritori viene poi avvalorata dal rinvenimento di una presunta epigrafe sull’orlo della tunica di S. Tommaso, dove appunto alcuni osservatori pensano di individuare le lettere «R.S.V.P.P.E.S.17.A.1500» e di interpretarle come Raphael Sanctius Urbinas pinxit Perusiae aetatis suae 17 anno 1500. Ma ci sono anche altri materiali di confronto, in particolare due disegni – uno di collezione Santarelli, l’altro di collezione Piatti – i quali sembrerebbero confermare quanto è stato detto dagli autori precedenti.

È soprattutto l’esame dei disegni ad incuriosire Selvatico che visita Firenze di nuovo nel 1845. Sulla “Rivista” di Firenze e su altri periodici come il “Giornale Euganeo”, il marchese esprime, infatti, il proprio parere favorevole all’attribuzione raffaellesca del dipinto.

Ma trattandosi di un autore così celebre viene naturalmente a chiedersi il perché l’affresco non venisse nominato da nessuna delle fonti scritte.Ben presto, però, sembra essersi individuato il guastafeste nell’esperto di paleografia Gargano Gargani Garganetti, il quale studiando il libro delle Ricordanze di Neri di Bicci (1453-75) vi trova l’accenno alla commissione di un’Ultima Cena all’omonimo pittore fiorentino[16].

A quest’ultimo si associano Missirini e Rosini, tutti uniti nella convinzione che l’opera sia quella documentata da Neri di Bicci e quindi databile agli anni 1461 e 1462, vale a dire vent’anni prima della nascita di Raffaello[17]. Ne consegue automaticamente una domanda: quanto sono affidabili le testimonianze scritte, quali sono le potenzialità della storia dello stile? Ben informato dai periodici stranieri sugli ultimi risvolti, Selvatico appena tornato dal suo viaggio a Dresda e Vienna scrive nell’ottobre 1846 all’amico Milanesi:

 

Or vengo alla notizia che mi date sul fresco di S. Onofrio di cui avevo sentito già parlare a Vienna, ed avevo letto un cenno nella Gazzetta d’Augusta. Sarei curiosissimo di vedere questo benedetto documento del 1461 il quale, intanto che descrive l’opera esattamente, è contraddetto dal fatto più essenziale, la dissomiglianza cioè fra le opere vere di Neri di Bicci, e questa che gli vien ora attribuita! Come va dunque la faccenda? O il documento fu artatamente falsato, o piuttosto è da credere che dipintosi in quell’anno dal ricordato scrittore un Cenacolo a S. Onofrio, siasi da poi da questo guasti così, da mettere nelle monache la necessità di farlo rinnovare da altro pennello. Per certo nel 1461 nessuno dipingeva così, neppure lo stesso Gozzoli ch’è sì valente ne’ suoi freschi non parliamo poi del disegno che allora non toccava sì alta perfezione sicuramente. Se il Bicci fosse stato abile a sì prezioso lavoro, bisognerebbe dire che prima ancor che nascesse Raffaello il disegno avea tocco il suo apogeo. Mi si risponderà che allora fiorirono e Luca della Robbia ed il Lippi, e il Mantegna e Giovanni Bellini ed altri: ma con buona pace dei lor lodatori, nessuno per certo poteva giungere a tanta sapienza di contorno come vedesi in alcune figure di questo Cenacolo. Basta, son curiosissimo di vedere appurata questa torbida fanghiglia dalla giudiziosa e veggente critica vostra; ed intanto mi sarebbe carissimo, se fosse possibile avere il libretto per veder anch’io gli strambotti di questo vostro bell’imbusto.

Nulla me ne scrissero né il Della Porta né lo Zotti; voi che potete avere occasione di vederli, dite loro che me ne dicano qualche cosa, e che se hanno una copia del libro, come probabilmente l’avranno, ma la mandino, che a me non mancheranno occasioni di ritornarla loro, caso non si possa acquistare[18].

 

Ringraziando, poi, del libro di Garganetti e della rispettiva confutazione di Tommaso Masi, Selvatico aggiunge circa un mese dopo:

 

Lessi il libretto del Gargani, e potete credere che abbia riso a crepapelle per que’ suoi strambotti di tutte le razze. Povero diavolo! faceste a dovere ad inserir quelle parole di Michelangelo Ms.te; son proprio la più degna risposta a quella goffa fanfaluca.

Lessi pure oggi, subito che mi giunse, la Confutazione; e la mi parve giudiziosa e temperatamente stringente; sebbene l’Opuscolo del Garganetti potesse dar luogo a qualche maggiore punzecchiatura che il buon uomo avea meritato per certo. – Ora che la polemica è incominciata e i campioni verranno sul serio alle mani, penso di tacermi; tanto più che i migliori argomenti di opposizione mi pajono esposti di quel, così detto, verniciajo[19].

Tommaso Masi, lo scopritore dell’affresco, controbatte infatti all’argomentazione del paleografo fiorentino che ai tempi di Raffaello il convento di S. Onofrio comprendeva ben due refettori; è dunque probabile che Neri di Bicci ne abbia decorato quello più vecchio, mentre l’altro spetterebbe al giovane Raffaello[20]: le argomentazioni contrarie all’autografia raffaellesca sembrerebbero reggersi dunque «su gambe sottili», come sottolinea Alfred Reumont sul “Kunstblatt”[21]. La stessa convinzione emerge anche qualche anno più tardi in un ampio articolo di Ludovic Vitet, il quale informa i lettori della “Revue des deux mondes” (1850) dello stato delle indagini constatando appunto la difficile interpretabilità delle fonti documentarie per lo studio delle arti figurative. Vitet, le cui ricerche di quegli anni vertono soprattutto sui problemi di critica architettonica, come nel caso del suo studio su Notre-Dame de Noyon, insiste dunque sull’esame ravvicinato d’un manufatto:

 

Certes, l’érudition est une belle chose, et les preuves écrites sont le fondement de toute certitude historique, mais à la condition que l’esprit les vivifie. Quand il s’agit surtout des arts et de leur histoire, les doctes, qui n’ont vu que leurs livres, ne valent pas le plus mince écolier, s’il a vu des monumens, s’il les a comparés et s’il les a compris. Par malheur, les écoliers de cette sorte ne laissent pas que d’être assez rares, et le public, encore un coup, n’a de foi que pour ce qui est écrit[22].

 

Ecco dunque lo spirito della “critica oculare”, come direbbe Rumohr, che «ravviva» ed interpreta il dato positivo dei documenti[23]. La questione che rimane è quella dei criteri dell’analisi figurativa. Qui, infatti, sta il problema attribuzionistico: l’opera, a causa dell’elevata qualità sua, non può che essere frutto di un pennello celebre per molti degli artisti e critici coinvolti. Invece d’esporre tutto il materiale disponibile ed analizzarlo in un secondo momento, sembra che il punto d’arrivo sia ben noto a tutti i conoscitori coinvolti: la questione non sembra “chi è l’autore dell’affresco?”, bensì “è di Raffaello o no quest’opera?”. Selvatico stesso pur scostandosi dall’ormai abituale confronto con gli affreschi raffaelleschi di S. Severo (da lui rivisti in quel periodo) non pensa però di mettere in dubbio l’autografia raffaellesca: semmai egli corregge le possibili coordinate culturali dell’opera sottolineando piuttosto delle somiglianze spiccate con alcune parti della Libreria Piccolomini[24]. Il fatto poi che l’opera sia stata ignorata a lungo può avere – secondo il marchese – una plausibile ragione biografica, data la ben nota anzi l’«eccessiva modestia di lui»[25]: sta infatti, in questa considerazione degli aspetti biografici e psicologici che accomuna i “professori” e puristi come Selvatico, Vitet, Jesi e Minardi.

Ad ogni modo, data la qualità del partito pro-raffaellesco formato da critici ed artisti tutti più o meno impegnati sul fronte del Purismo figurativo, emerge infatti lo sfondo culturale della vicenda: l’identikit dell’ignoto maestro proposto rispecchia infatti perfettamente l’idea raffaellesca dei puristi. Lo stesso Vitet sottolinea che l’artista in questione – sicuramente giovane e libero da vincoli esterni – pur conoscendo il contemporaneo Cenacolo leonardesco di S. Maria delle Grazie a Milano dimostrerebbe però d’essere insensibile alle mode prediligendo anzi un linguaggio tendenzialmente arcaizzante, come emerge dall’analisi dell’iconografia, dal trattamento delle fisionomie e dai drappeggi:

 

Replaçons-nous devant cette Sainte-Cène, si naïf et si savante à la fois, devant cette oeuvre pleine de contrastes et vraiment inexplicable, si nous ne savions qu’à Florence, en 1505, il y avait un homme qui, par un privilège unique, était en même temps le plus soumis disciple de l’école traditionelle et l’esprit le plus libre, le plus ouvert à tous les progrès de son art; également apte à comprendre l’idéal et à étudier la nature; en un mot Masaccio et Angelico tout ensemble[26].

 

Il mito purista del giovane Raffaello assume, però, uno specifico sapore locale nell’ambiente fiorentino di quegli anni.

Quello delle scoperte clamorose di capolavori dimenticati è uno dei temi più cari alla storiografia artistica di tutti i tempi, una delle rarissime occasioni, in cui la connoisseurship sfonda i margini ristretti dello specialismo attribuzionistico tanto da raggiungere un pubblico più ampio di non soli addetti ai lavori[27]. Nello specifico contesto risorgimentale, alcuni rinvenimenti si trasformano in campagne pubblicistiche ad ampio raggio; come se gli affreschi liberati ormai dallo strato di polvere che li nascondeva per secoli interi fossero metafore dell’Italia dormiente che riscopre le proprie radici culturali liberandosi, appunto, del peso della dominazione straniera e dell’omologazione culturale che avrebbero oscurato le sue glorie passate. Peccato solo che il più noto caso del genere, la scoperta (1840) del celebre ritratto di Dante nell’ex-Palazzo del Podestà – opera che il Vasari attribuisce a Giotto – spetti ad un gruppo di studiosi anglo-americani![28]

Quando nel 1846 si presenta l’ipotesi dell’acquisto dell’affresco da parte di un noto mercante d’arte inglese interviene il granduca Leopoldo II il quale acquista l’immobile lo stesso anno con l’intento di trasformare la sala dell’affresco in museo pubblico (come infatti avverrà a partire dal 1855, quando vi saranno sistemate le collezioni egittologiche)[29]: la stessa sala accoglie, sulla parete adiacente, un busto di Raffaello e di fronte all’affresco sono esposti disegni ed incisioni per confermare l’attribuzione ed abituare l’osservatore al confronto visivo. Il monumento d’arte si trasforma, del tutto in linea con la cultura commemorativa dell’epoca, in monumento o meglio “santuario” d’artista (L. Vitet)[30]. I modelli che ispirano questa riqualificazione sui generis sono le statue di Arnolfo di Cambio e Filippo Brunelleschi di fronte a S. Maria del Fiore oppure il cortile degli Uffizi con la serie dei toscani illustri. Altri clamorosi rinvenimenti, in primis il ritratto di Dante nell’ex-Palazzo del Podestà, mostrano simili risvolti sul piano istituzionale: attraverso l’altrettanto controversa scoperta dell’affresco trecentesco, il palazzo semiabbandonato, privo ormai della sua funzione originaria, rivive una stagione di centralità nella cultura cittadina e la successiva fondazione del Museo Nazionale sarà l’ultima tappa di questa riqualificazione[31].

 

«L’importante è che quell’opera sia bella, e degna di studio»: dubbi ed insistenze nel dibattito attribuzionistico

 

Dopo l’entusiasmo degli anni Quaranta, molti esperti rivedono l’attribuzione raffaellesca fatta ‘a caldo’: nel frattempo, infatti, l’immagine dell’Urbinate ha guadagnato di complessità grazie all’avanzamento delle tecniche riproduttive, per non parlare del moltiplicarsi di indagini monografiche. Tornando dunque nel 1862 ad occuparsi dell’affresco di Perugino, Ludovic Vitet cerca di rispondere a chi fra i conoscitori europei mostra ormai

forti dubbi circa l’ipotesi dell’autografia raffaellesca dell’affresco:Jacob Burckhardt, nelle note alla seconda edizione del manuale storico della pittura di Franz Kugler, dubita dell’autografia raffaellesca per ragioni soprattutto stilistiche, ma anche storiche[32]; Carlo e Gaetano Milanesi e Carlo Pini, nel commento alla rispettiva vita vasariane, considerano l’autografia raffaellesca della pittura «quasi incredibile»[33]; Johann David Passavant, nell’edizione francese della sua monografia su Raffaello (1860) pensa allo Spagna che avrebbe realizzato l’affresco su disegno del Perugino[34]. Selvatico, venuto a sapere che anche gli amici senesi stanno abbandonando l’iniziale propensione all’autografia raffaellesca, non riesce a risparmiarsi un accenno alla questione dell’affresco di S. Onofrio in una lettera del 1852 all’amico Carlo Milanesi: «non parlar poi nulla […] del Cenacolo di Fuligno, la mi par troppo magro, giacché, si dica quel che si vuole, Raffaello c’entrato di certo»[35]. Fermamente convinto dell’autografia raffaellesca, Selvatico ripubblica il proprio saggio del 1845 negli Scritti d’arte (1859) e in nota accenna al commento di Milanesi e Pini i quali avrebbero declinato l’ipotesi raffaellesca per «induzioni storiche»[36]. Nel secondo volume delle sue lezioni accademiche egli sottolinea, per altro, che le voci rilevanti non sono, dunque, quelle degli «amatori», ma quelle dei «professori» del disegno – nomi appunto come Mengs, Cornelius, Minardi e Jesi[37] – che conoscono la grammatica del disegno dall’imitazione ed emulazione del linguaggio raffaellesco[38]. Nell’ottica selvatichiana le competenze del conoscitore sono direttamente proporzionali alla sua abilità disegnativa ed è questo uno dei temi più frequenti nella letteratura artistica settecentesca, quando appunto il «professore» del disegno era necessariamente un gran conoscitore d’arte.

In una lettera all’amico e confidente Pietro Mugna, Selvatico commenta nel febbraio 1862 le recenti discussioni sull’autografia dell’affresco e il distacco dai recenti sviluppi dell’erudizione artistica emerge con molta chiarezza:

 

Non vidi l’art.° del Vitet di cui mi parli, ma mi figuro che sarà consentaneo all’opinione ch’egli espresse, me’ presente, in Firenze, nel 1845. Egli venne anzi allora, più volte, in mia compagnia ad ammirare quella stupenda opera, e credo anche ne scrivesse qualche cosa su pei giornali. L’opinione del Passavant è di quelle che non possono fare né freddo, né caldo nella quistione: prima di tutto perché credo egli non vedesse mai quel fresco, poi, se anche lo avesse veduto, non era in grado di riconoscere se fosse proprio della mano del Sanzio. Erudito e non altro che erudito; in fatto di giudizii artistici valeva poco – Del resto io credo che su questa disputa di lana caprina, nessuno abbia voluto procedere, come si doveva, vale a dire facendo raffronti fra quell’opera e le pitture del Pinturicchio a Spello, e dello Spagna ad Assisi; i due soli artisti a cui era possibile attribuire il dipinto di Perugino, quando non lo si voglia del Sanzio. – Io consigliai tali confronti; ripubblicando a Firenze pel Barbèra il mio scritto su quel fresco – Ma gli eruditi, se pur fecero tali confronti; non erano in grado di cavarne un criterio acconcio; e gli artisti, quando pure l’avessero fatto, non si sarebbero uniti di schiarire i dubbi degli eruditi. L’importante è che quell’opera sia bella, e degna di studio, e tale è senza dubbio. Pel resto ci pensino i disputatori di date che all’arte come alla scienza, non portano mai un centellino di vantaggio[39]..

 

La reazioni di Selvatico ricorda nei toni l’ironia di Burckhardt, secondo il quale l’ossessione morelliana di individuare l’autografia fa perdere qualsiasi gusto per il bello nella pittura: «Das Beste, was in Bildern steckt, / Ist doch am Ende: was uns schmeckt»[40].

Il modo in cui i conoscitori tendono ad affrontare la questione dell’autografia risulta poco più d’una «disputa di lana caprina» a chi, come Selvatico, vede nella tradizione pittorica innanzi tutto un oggetto di fruizione tecnica e creativa, una fonte d’insegnamento per l’osservatore. Il disegno raffaellesco consiste, a suo parere, nella rappresentazione della «natura imparata a leggere colle norme della scienza geometrica»: una lettura che coincide palesemente con il suo progetto didattico incentrato sull’insegnamento del disegno geometrico.

Lo sguardo poi sulla pittura è focalizzato sugli elementi espressivi dell’istoria, ossia sulla mimica e gestualità dei caratteri rappresentati: infatti, i personaggi particolarmente interessanti sono Gesù e il traditore Giuda, perché incarnano con particolare chiarezza «l’altezza del concetto», vale a dire la contrapposizione tra l’amore divino e la debolezza umana. Caratterizzando l’espressione di Giuda, Selvatico si sofferma sulle mani, «l’una rabbiosamente stringendo il prezzo infame del delitto, l’altra posando quasi convulsa sulla tavola, dicono l’agitazione che dentro lo cruccia» ed è evidente che l’analisi formale sia funzionale ad una lettura psicologica dei personaggi rappresentati[41].

Questa maniera d’osservare i pittori antichi facendo particolare attenzione alle fisionomie ed alle mani, Selvatico la espone anche nel Pittore storico, quando cerca di sensibilizzare la vista dei giovani nell’osservazione degli antichi maestri:

 

[…] non solamente nella fisonomia o negli atti generali del corpo sta chiusa l’espressione degli intimi moti dell’animo; essa si raccoglie talvolta nelle estremità, parti che, come ho già detto, i pittori moderni studiano troppo poco. Le mani ed i piedi sono organi di espressione che, ben accordati con quelli del viso, contribuiscono infinitamente a caratterizzare ed a render più vere le figure che il pittore si sforza di presentarci come viventi[42].

 

A proposito di Raffaello, sempre nel Pittore storico egli aggiunge:

 

[…] poiché ho nominato qui Rafaello, quale è il quadro di questo insigne ove le estremità non sieno grande, anzi precipuo mezzo a rivelare l’affetto che egli vuol far esprimere alle sue figure? Non conosco altri artisti che possano essergli in questo paragonati, e meno ancor fra i moderni, se ne escludiamo però il francese Delaroche le cui estremità presentano sempre una vita e, per così dire, un linguaggio che parla al cuore sentimenti o di pietà o di terrore o di amore[43].

 

L’insistenza del marchese sull’esame ravvicinato delle estremità e fisionomie nei pittori antichi trova, in effetti, un’analogia puntuale nell’album litografico che lo Zotti pubblica nel 1854 e che sembra in primo luogo una raccolta di specimen da sottoporre agli alunni accademici ancora alle prime armi: i ritratti, le mani e i piedi di grandezza naturale sono i segni d’una grammatica dell’espressione, che coincidono in parte con gli indizi morelliani, ma la consapevolezza della comunicazione istoriata non ha nulla a che vedere con gli indizi lasciati inconsapevolmente sul ‘luogo del delitto’[44].

I taccuini di Giovanni Battista Cavalcaselle dimostrano quanto l’attenzione dell’esperto conoscitore sia ancora fortemente condizionata dalla prospettiva normativa del Pittore storico che passa le opere dei maestri antichi attraverso il setaccio dell’estetica pittorica (disegno, chiaroscuro, composizione, colorito, panneggio) e che analizza le opere in funzione spesso documentaria per derivarvi ritratti e costumi coevi. Cavalcaselle sembra, in effetti, il lettore ideale del Pittore storico, l’interprete più fedele dell’auspicio di condurre ricognizioni visive davanti all’originale, di crearsi un archivio visivo[45]. Nei suoi disegni, com’è stato recentemente osservato, prevale un’attenzione necessariamente selettiva per le figure umane, i panneggi, le architetture, le fisionomie ed estremità che comunicano all’osservatore gli stati d’animo e le interrelazioni dei personaggi[46]. Quest’attenzione selettiva dettata dal mezzo grafico e dall’immediatezza della visione ravvicinata riflette senz’altro i criteri visivi teorizzati nel Pittore storico ed è quindi opportuno tenere presente dei libri, come quello selvatichiano, il cui carattere è apparentemente normativo e didattico, ma che coincidono pesantemente sulle attitudini percettive di un pubblico ancora in bilico tra «professore», «amatore» e conoscitore.

 

Conclusione

Il Cenacolo di Sant’Onofrio, opera ormai unanimemente data al Perugino, è un cantiere di sperimentazione della connaisseurship moderna: nell’opinione pubblica di quel periodo il metodo della critica stilistica attraverso il confronto con materiali grafici è ancora considerato fragile. Non a caso si aprono spazi ad ipotesi, spesso avventurose, basate, però, sui consueti strumenti ausiliari della scienza antiquaria (epigrafia, diplomatica). Il contesto estetico, in primo luogo il contemporaneo dibattito sulla pittura religiosa e sulla centralità del giovane Raffaello, costituisce dunque uno straordinario ‘puntello’ a favore dell’autografia raffaellesca. Si tratta, però, di una sorta di ‘patto con il diavolo’ e lo dimostra il mancato interesse pubblico dopo il tramonto dell’estetica purista: la disputa, tendenzialmente de-estetizzata, produce autografie sempre meno accattivanti, tuttavia con i nuovi paradigmi indiziari (Morelli) non scompare del tutto il punto di vista dei «professori del disegno» e lo testimoniano i taccuini di Cavalcaselle

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[1]  Per la figura e il metodo di Morelli, cfr. J. Anderson, Collecting connoisseurship and the art market in Risorgimento Italy: Giovanni Morelli’s letters to Giovanni Melli and Pietro Zavaritt (1866-1872), Venezia, Ist. Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 1999 (con bibliografia precedente).

[2]  G. Morelli, Kunstkritische Studien über italienische Malerei . – Die Galerien Borghese und Doria Panfili in Rom, Brockhaus, Leipzig 1890, pp. 36-37. Cit. dall’ed. ital. Della pittura italiana, studii storico-critici. Le Gallerie Borghese e Doria-Pamphili in Roma, a cura di J. Anderson, Adelphi, Milano 1991, p. 47.

[3]  Cfr. a questo proposito P. Barocchi, La scoperta del ritratto di Dante nel Palazzo del Podestà: dantismo letterario e figurativo, in Studi e ricerche di collezionismo e museografia, Firenze 1820-1920, Scuola Normale Superiore, Pisa 1985, pp. 151-178.

[4]  Cfr. a questo proposito l’analisi lucida di T. Montanari, A cosa serve Michelangelo?, Einaudi, Torino 2011.

[5]  Ibidem, testo di copertina.

[6]  F. Schlegel, Vom Raphael, in “Europa”, vol. 1, 1803, n. 2, pp. 12-13. Sulla prospettiva estetica di Schlegel e le sue visite ai musei di Dresda e Parigi, cfr. H. Locher, «Construction des Ganzen»: Friedrich Schlegels kritische Gänge durch das Museum, in Der Körper der Kunst: Konstruktionen der Totalität im Kunstdiskurs um 1800, a cura di J. Grave, H. Locher, R. Wegner, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2007, pp. 99-131. Per la fortuna storiografica di Raffaello nel secolo XIX, cfr. l’efficace sintesi di M. Cardelli, I due purismi: la polemica sulla pittura religiosa in Italia 1836-1844, tip. Capponi, Firenze 2005, pp. 41-44, ma anche pp. 198-206 (con bibliografia precedente).

[7]  A-F. Rio, De la poésie chrétienne dans son principe, dans sa matière et dans ses formes: forme de l’art; peinture, Debécourt Librairie Editrice, Paris 1836, pp. 297-303.

[8]  Per il quale cfr. F Bernabei, Pietro Selvatico nella critica e nella storia delle arti figurative dell’Ottocento, Neri Pozza, Vicenza 1974; A. Auf der Heyde, L’apprendista stregone: Pietro Selvatico tra opinionismo pubblico e storiografia specializzata nell’Italia pre-quarantottesca, in “Annali di critica d’arte”, V, 2009, pp. 153-203.

[9]  Lettera di Giuseppe Jappelli a Bernardi (Roma, 10 aprile 1840), cit. in M.F. Apolloni, Lettere da Roma di Giuseppe Jappelli, in “Ricerche di Storia dell’arte”, 28-29, 1986, p. 146.

[10]  F. Mercey, La Peinture et la Sculpture en Italie, in “Revue des deux mondes”, 1840, 3, pp. 259-260.

[11]  Lettera di P. Selvatico Estense a Francesco Salghetti-Drioli (Padova, 25 maggio [1841]). Biblioteca del Senato “Giovanni Spadolini”, Roma / Fondo dalmata Cippico-Bacotich, cassetta 6 (Corrispondenza F. Salghetti-Drioli, O-S).

[12]  «Il Della Porta è uno di quei pochissimi disegnatori a cui la preziosa finitezza nulla nuoce né all’effetto del chiaroscuro, né alla vigoria del segno. Egli è una prova di più di un vero su cui molti inetti artisti per loro mala sorte sogghignano; che a bene intendere Raffaello è bisogno di aver la mente educata a forti, lunghi e coscienziosi studi sulla sola grande arti italiana, l’arte del trecento e del quattrocento». P. Selvatico Estense, Sull’arte moderna in Firenze, in “Rivista Europea”, 1843, III, pp. 139-140.

[13]  Ibidem, pp. 141-142. L’unica pecca del quadro è, secondo Selvatico, il suo colorito poco «succoso» e vero. Per una lettura del quadro e della sua ricezione critica, cfr. G. Capitelli in Nel segno di Ingres: Luigi Mussini e l’Accademia in Europa nell’Ottocento, catalogo della mostra a cura di C. Sisi, E. Spalletti, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo (Mi) 2007, pp. 86-87 (con bibliografia precedente).

[14]  Cfr. S. Padovani, Il Cenacolo di Sant’Onofrio detto «del Fuligno», in Pietro Vannucci, il Perugino, atti del convegno internazionale di studio (Perugia 25-28 ottobre 2000) a cura di L. Teza, con la collaborazione di Mirko Santanicchia, Volumnia, Perugia 2004, pp. 49-63.

[15]  J. Burckhardt in D. Franz Kugler’s Handbuch der Geschichte der Malerei seit Constantin dem Grossen. – Zweite Auflage unter Mitwirkung des Verfassers umgearbeitet und vermehrt von Dr. Jacob Burckhardt, 2 voll., Duncker & Humblot, Berlin 1847, p. 567.

[16]  G. Gargani Garganetti, Della ultima cena di Cristo con gli Apostoli: pittura a fresco nel refettorio del Monastero di Sant’Onofrio detto di Fuligno attribuita a Raffaello d’Urbino, Campolmi, Firenze 1846; Manuelli, Firenze 18472.

[17]  Cfr. anche il commento sul “Kunstblatt” (1846): «Giambattista Rossini [sic], Professor an der Universität von Pisa, hat in der Bibliothek des hiesigen Palastes Strozzi ein Dokument aufgefunden, woraus erhellt, daß das große Gemälde mit der Darstellung des heil. Abendmahls, das im vorigen Jahre im Kloster St. Onofrio zu Florenz entdeckt worden ist, und das man allgemein dem Raffael zugeschrieben hatte, nicht von diesem Meister, sondern von Neri di Bicci herrührt, einem Florentinischen Maler, der das Werk in den Jahren 1461 bis 1462, somit 22 Jahre vor der Geburt Raffaels gefertigt hat». Nachrichten vom September. – Malerei. – Florenz, in “Kunstblatt”, 58, 24 novembre 1846, p. 235.

[18]  Lettera di P. Selvatico Estense a Carlo Milanesi (Padova, 9 ottobre 1846). Biblioteca Comunale degli Intronati, Siena: ms. A.V.37. Infatti, assai simile a questa valutazione risulta il giudizio di Alfred Reumont, che scrive sul “Kunstblatt”: «Non mi sembra del tutto plausibile come un pittore, le cui opere venivano attribuite a Giotto e Spinello […] e che appartiene agli ultimissimi imitatori dei trecentisti, dopo tutte queste opere possa aver improvvisamente creato un dipinto grande, nel quale i più esercitati conoscitori riconoscono tutta la bellezza e particolarità del giovane Raffaello. La distanza è troppo grande, l’abisso troppo largo da far pensare che persone, come i soprannominati, si siano potute ingannare così clamorosamente. La commissione di rappresentare un Cenacolo venne senz’altro data a Neri di Bicci; ma se l’opera presente sia attribuibile alla mano di un imitatore dei trecentisti oppure alla gioventù di Raffaello, questo, mi pare, debba dirci il carattere del dipinto». A. Reumont, Das Cenacolo in St. Onofrio zu Florenz: 1) Di un nuovo dipinto a fresco di Raffaello in Firenze. Cenni di Pietro Selvatico. – 2) Della ultima Cena di Cristo cogli Apostoli. Illustrazione di G. Gargani Gargaretti. – 3) Sul Cenacolo del già Convento di St. Onofrio etc. Confutazione di Tommaso Masi, in “Kunstblatt”, 7, 11 febbraio 1847, p. 25.

[19]  Lettera di P. Selvatico Estense a Carlo Milanesi (Padova, 3 novembre 1846). Biblioteca Comunale degli Intronati, Siena: ms. A.V.37.

[20]  T. Masi, Sul Cenacolo del già convento di Sant’Onofrio delle monache di Fuligno confutazione di Tommaso Masi allo scritto del sig. G. Gargani Garganetti, Le Monnier, Firenze 1846; ma vedasi anche la risposta di G. Gargani Garganetti, Sul Cenacolo del già Monastero di Sant’Onofrio detto di Fuligno in via Faenza di Firenze: lettera seconda al Signor Abate Luigi Razzolini, Campolmi, Firenze 1848.

[21]  «Attraverso la semplice esposizione dei fatti spero d’aver dimostrato almeno che le ragioni, con le quali si cerca di confutare l’autografia raffaellesca dell’opera, si reggano su gambe sottili. Se tutte le argomentazione dell’altra parte siano attendibili, non oserei decidere nemmeno. Purtroppo entrambi gli scritti polemici sono opera di persone che non sembrano capire un gran che di storia dell’arte e di critica». A. Reumont, Das Cenacolo in St. Onofrio zu Florenz: 1) Di un nuovo dipinto a fresco di Raffaello in Firenze. Cenni di Pietro Selvatico. – 2) Della ultima Cena di Cristo cogli Apostoli. Illustrazione di G. Gargani Gargaretti. – 3) Sul Cenacolo del già Convento di St. Onofrio etc. Confutazione di Tommaso Masi, in “Kunstblatt”, 7, 11 febbraio 1847, p. 26. A questi scritti s’aggiunge poi l’intervento G. Rosini, Sul cenacolo di S. Onofrio: risposta di Gio. Rosini all’articolo del sig. cav. Samuele Iesi posto nel N. 166 della Gazzetta di Firenze, Capurro, Pisa 1848.

[22]  L. Vitet, La fresque de S. Onofrio, in “Revue des deux mondes”, ottobre-dicembre 1850, p. 594. Per la biografia e l’opera dello studioso francese, cfr. la voce di A. Bonnet in Dictionnaire critique des historiens de l’art actifs en France de la Révolution à la Première Guerre mondiale, a cura di P. Sénéchal, C. Barbillon, Paris, sito web dell’INHA, 2009, http://www.inha.fr/spip.php?article2566 (consultato il 3/10/2011).

[23]  Il termine «critica oculare» emerge in una lettera importante resa nota e adeguatamente commentata da E. Parlato, Carl Friedrich von Rumohr e Tommaso Minardi in una lettera del 1820: storiografia e vita artistica nell’Umbria di primo Ottocento, in Arte in Umbria nell’Ottocento, catalogo della mostra a cura di F.F. Mancini, C. Zappia, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo (Mi) 2006, pp. 83-87.

 

[24]  P. Selvatico Estense, Qualche altra osservazione sul fresco di Raffaello scoperto a Firenze, in “Il Caffè Pedrocchi: foglio settimanale”, a. I, n. 3, 18 gennaio 1846, p. 23.

[25]  Id, Di un nuovo dipinto a fresco di Raffaello a Firenze, in “Giornale Euganeo”, a. II, semestre II (1845), p. 436.

[26]  L. Vitet, La fresque de S. Onofrio..., p. 612.

[27]  La rilevanza pubblica della scoperta e delle vicende attributive emerge anche dall’articolo riccamente illustrato: Sur la fresque de la rue Faenza, a Florence, in “Le Magasin Pittoresque”, V (1847), pp. 107-110.

[28]  Infatti, nell’ambito della campagna pubblicistica a seguito del rinvenimento si tende a sminuire o addirittura a cancellare il ruolo centrale avuto dal gruppo di studiosi inglesi ed americani capeggiati da Seymour Kirkup e Richard Henry Wilde. Cfr. a questo proposito P. Barocchi, La scoperta del ritratto…, pp. 151-178.

[29]  «Il fut en même temps décidé qu’on ferait de cette salle une sorte de sanctuaire en l’honneur de Raphaël, qu’on y placerait son buste et les dessins provenant de la collection Michelozzi, comme des témoins bons à consulter en face même du tableaux». L. Vitet, La fresque…, p. 616. Infatti, parlando ai lettori del “Kunstblatt” del rinvenimento Ernst Förster auspica similmente l’acquisto da parte del Comune di Firenze: «Hiebei gedenk ich mit besonderem Danke der zuvorkommenden Güte, mit welcher sowohl mein Freund, der Marchese Selvatico, den ich in Florenz traf, mich von sämmtlichen erfreulichen Entdeckungen sogleich in Kenntniß setzte, als mit welcher auch die Herren Zotti, Piatti, u.s.w. meine Studien unterstützten. Möge nun bald eine treue und schöne Nachbildung in Kupferstich die entfernten Kunstfreunde in Stand setzen, unsere Freude wenigstens einigermaßen zu theilen. Möge aber auch, und mit diesem Wunsche beschließe ich meinen Bericht, ein so außerordentliches Werk aus dem Privatbesitz in den einer Regierung übergehen, welche sich als den Erben einer großen Vergangenheit betrachtet, wo es gilt sie zu wahren und zu schützen, die die Welt aber auf das freigebigste zum Miterben macht, wo es gilt, daran sich zu erfreuen und zu erheben». E. Förster, Das Abendmahl in S. Onofrio delle Monache zu Florenz, ein neuaufgefundenes Werk Rafaels, in “Kunstblatt”, 93, 20 novembre 1845, pp. 385-386.

[30]  «L’installation en est parfaitement entendue, sans luxe et sans mesquinerie. Quelques bons sièges, bien placés, où l’on peut admirer à son aise, composent tout l’ameublement; ajoutez-y pourtant un buste de Raphaël, placé au milieu de la salle et les dessins de l’ancienne collection Michelozzi, exposés sous verre comme pièces du procès. Le meilleur de tous les dossiers, c’est la fresque elle-même, ainsi mise à son jour. Quand on a passé là quelques instans, toute intention de controverse expire; on sent dans cette salle, devant cette muraille, comme un parfum raphaélesque qui dissipe le doute. Cette impression, depuis quelques années, s’est peu à peu répandue par la ville, parmi les guides, parmi les étrangers, dans le gros de la population, si bien qu’à l’heure qu’il est toute contestation semble d’abord absolument éteinte». L. Vitet, Encore un mot sur la fresque de S. Onofrio, in “Revue des deux mondes”, luglio-agosto 1862, pp. 187-188.

[31]  Cfr. Dal ritratto di Dante alla Mostra del Medio Evo 1840-1865, catalogo della mostra a cura di P. Barocchi, G. Gaeta Bertelà, Museo Nazionale del Bargello, Firenze 1985, pp. 14-38 (con bibliografia precedente).

[32]  J. Burckhardt, in D. Franz Kugler’s Handbuch der Geschichte der Malerei seit Constantin dem Grossen. – Zweite Auflage unter Mitwirkung des Verfassers umgearbeitet und vermehrt von Dr. Jacob Burckhardt, 2 voll., Duncker & Humblot, Berlin 1847, pp. 567-568.

 

[33]  G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti. Pubblicate per cura di una Società di Amatori delle Arti Belle, 14 voll., Le Monnier, Firenze 1846-1870, VIII (1852), pp. I-IV.

[34]  L. Vitet, Encore un mot..., pp. 197-198. Passavant sostiene, infatti, in base ad alcuni disegni dello Spagna visti a Londra che l’opera fiorentina, pur recando dei tratti raffaelleschi, è di fatto attribuibile allo Spagna che l’avrebbe eseguita su disegno del Perugino. Cfr. J.D. Passavant, Raphael d’Urbin et son père Giovanni Santi [...]. Ed. française refaite, corrigée et considérablement augmentée par l’auteur sur la traduction de Jules Lunteschutz. Revue et annotée par Paul Lacroix, 2 voll., Renouard, Paris 1860, II, pp. 320-323.

[35]  Lettera di P. Selvatico Estense a Carlo Milanesi (Venezia, 11 maggio 1852). Biblioteca Comunale degli Intronati, Siena: ms. A.V.37.

[36]  «Essi epilogando le varie opinioni emesse sul nostro fresco, non inclinano a ritenerlo del Sanzio, appoggiandosi ad induzioni storiche sull’opere ch’egli condusse nel 1505. – Ma dato che queste prove avessero veramente la forza di togliere quest’opera all’Urbinate, di chi dunque dovrebbe essere? Chi valse a far tanto, non può avere maniera ignota. Perciò conviene portare gli studi sui due soli artisti che (a parere mio) sieno stati in grado di raggiungere sì grande eccellenza di forma, il Pinturicchio cioè, e lo Spagna: e il primo, infatti, negli affreschi di Spello, manifesta uno stile che di molto si accosta a quello del nostro fresco. Il secondo, nella tavola in particolare di Assisi, ha certo modo di piegare, che rassomiglia a quello usato nel Cenacolo nostro. Desidero quindi che, a meglio chiarire l’ardua quistione, gli artisti e i conoscitori spassionati istituiscano accurati confronti fra questo Cenacolo e le opere surriferite; potranno forse da simile esame comparativo cavare criteri che tolgano ogni dubbiezza». P. Selvatico Estense, Scritti d’arte, Barbèra, Bianchi e Comp., Firenze 1859, p. 61.

[37]  Cfr. L. Giannocolo, Samuele Jesi (1788-1853) incisore, Franchini, Correggio 2007, pp. 245-247.

[38]  Cfr. P. Selvatico Estense, Storia estetico-critica delle Arti del Disegno, ovver l’Architettura, la Pittura e la Statuaria considerate nelle correlazioni fra loro e negli svolgimenti storici, estetici e tecnici; lezioni dette nella I. R. Accademia di Belle Arti in Venezia, 2 voll., Naratovitch, Venezia 1852-1856, II, p. 657.

[39]  Lettera di P. Selvatico Estense a Pietro Mugna (Veggiano 1 febbraio 1862). Biblioteca Civica Bertoliana, Vicenza: epistolario Mugna, E.78.

[40]  Cit. da W. Schlink, Giovanni Morelli und Jacob Burckhardt, in Giovanni Morelli e la cultura dei conoscitori, a cura di G. Agosti, M.E. Manca, M. Panzeri, coordinamento scientifico di M. Dalai Emiliani, 3 voll., Lubrica, Bergamo 1993, II, pp. 73-75.

[41]  P. Selvatico Estense, Storia estetico-critica delle arti del disegno, 2 voll., Naratovitch, Venezia 1852-1856, II (1856), p. 658.

[42]  Id., Sull’educazione del pittore storico italiano. Pensieri, Tip. del Seminario, Padova 1842, p. 390.

[43]  Ibidem, p. 391.

[44]  Per la questione del paradigma indiziario in Morelli e l’accostamento a Freud, cfr. C. Ginzburg, Spie. Radici di un paradigma indiziario, in Crisi della ragione, a cura di A. Gargani, Einaudi, Torino 1979, pp. 57-106. Cit. dall’edizione tedesca Spurensicherung. Die Wissenschaft auf der Suche nach sich selbst, Wagenbach, Berlin 2002, pp. 7-57.

[45]  P. Selvatico Estense, Sull’educazione del pittore storico italiano. Pensieri, Tip. del Seminario, Padova 1842, pp. 455-457 («De’ viaggi come elemento di artistica educazione»).

[46]  S. Müller-Bechtel, Die Zeichnung als Forschungsinstrument: Giovanni Battista Cavalcaselle und seine Zeichnungen zur Wandmalerei in Italien vor 1550, Deutscher Kunstverlag, München-Berlin 2004, pp. 166-175. Si vedano anche D. Levi, Cavalcaselle. Il pioniere della conservazione dell’arte italiana, Einaudi, Torino 1988; Giovanni Battista Cavalcaselle conoscitore e conservatore, Atti del Convegno internazionale di studi (Legnago-Verona 28-29 novembre 1997), a cura di A.C. Tommasi, Marsilio, Venezia 1998.



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Temi di Critica - numero 4

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