Nel prendere parte a un’inchiesta sulla “crisi” della critica sollecitata da Francesco Vincitorio per Notiziario di arte contemporanea, rivista di cui il critico romano è direttore, Germano Celant formula nel novembre 1970 alcune tesi sulla “critica acritica” destinate a suscitare ampia eco[1]. Impegnato nel processo di internazionalizzazione del movimento cui ha dato nome e recente curatore della mostra Conceptual Art, Arte Povera, Land Art alla Galleria civica d’arte moderna di Torino, Celant prende posizione contro la proliferazione di punti di vista e si pronuncia a favore di una critica che, deposta la pratica dell’interpretazione, sia «raccolta», «archiviazione», «registrazione».
Trae spunto dal recente saggio di Susan Sontag, Against Interpretation, e invoca silenzio. «L’arte contemporanea», scrive, «in questo momento chiede di essere lasciata in pace, non vuole essere ridotta a parole..., non vuole intervenire o offrire una lettura del mondo, non si pone in chiave moralistica»[2]. Pedagogia e “mediazione” culturale sono obiettivi polemici, come in Arte povera o Appunti per una guerrilla, entrambi del 1967. Se considerato sullo sfondo dei precedenti testi “politici”, tuttavia, Per una critica acritica propone un’immagine deconflittuale dei nuovi orientamenti e contribuisce al restyling “magico-naturalistico” già caratterizzante il volume Arte povera, apparso nel 1969[3]. Vale la pena tornare oggi a considerare l’intervento di Celant e ancor più l’intera discussione per cogliere un raro momento collegiale nella storia della critica d’arte italiana, decisivo eppure poco frequentato. Critici di differente generazione e orientamento ideologico, da Carla Lonzi a Marisa Volpi e Tommaso Trini, da Augusto Natali a Piero Raffa, da Luciano Caramel a Vittorio Fagone e Italo Tomassoni, prendono parte a un tentativo di elaborazione e messa a fuoco. Emergono tuttavia, anzi per più versi si impongono punti di vista non riconducibili alle ragioni di un’appartenenza comune. L’intreccio tra critica d’arte e mobilitazione civile che caratterizza storicamente il modernismo italiano – la tradizione del «laicismo liberale», per citare Giulio Carlo Argan – si dissolve per la difficoltà dei partecipanti di accordarsi in merito a un progetto storico, politico, sociale condiviso, in definitiva un’idea di «paese». A professare le ragioni civili della critica restano, sulle pagine del “Notiziario”, l’anziano e compostissimo Ragghianti e il giovane Fossati, pure attestati su posizioni ideologicamente divergenti[4]. Non è chiaro quale debba essere il contesto di «legittimazione» né se sussistano necessità di «mediazione»[5]. Per di più, osserva Trini, sbrigative liquidazioni dell’avversario prevalgono su argomentazioni controllate e riflessive[6]. Perfino i dizionari urtano l’uno contro l’altro scoprendo divisioni profonde, che travalicano ambiti professionali e discussioni di metodo. L’intervento di Lonzi, La critica è potere, desta particolare sconcerto[7]. Orientato in senso antiteorico, insiste sul primato dell’«intuizione» e oppone «una condizione di autenticità» alla «ricerca di potere, di persuasione»[8]. In polemica con politiche culturali dettate da segreterie di partito e «stupidità del critico»[9], apre una falla nel fronte “progressista” e mostra incipienti lacerazioni storiche, ideologiche, di gender.
Sontag?
Datato 1964, Against Interpretation confluisce nella raccolta di saggi dallo stesso titolo apparsa nel 1966 e destinata a un’ampia circolazione internazionale. Sontag scrive il breve testo di getto, in un periodo di intensa sperimentazione e scoperta di sé, caratterizzato, come provano annotazioni pressoché quotidiane in taccuini e diari, dal costante riferimento alle arti figurative contemporanee, alle arti del corpo, al cinema e al romanzo sperimentale francese. È soprattutto Jasper Johns, con il ricorso a immagini preesistenti, bandiere, bersagli, mappe o alfabeti, a dischiuderle la comprensione dei nuovi orientamenti, «freddi, ... disumanizzati», e a iniziarla a quelle che lei stessa chiamerà le «estetiche del silenzio». Dedica a Johns osservazioni brillanti, segretamente tentate dal sublime. «Ogni epoca», scrive nel 1965 in un appunto privato, «ha la sua fascia anagrafica rappresentativa – per noi è la giovinezza. Lo spirito del tempo è essere distaccati. Gioco ... sensazioni ... apoliticità». E ancora: «ciò che si prova davanti a un quadro o a un oggetto di Johns potrebbe assomigliare a ciò che si prova per le Supremes ... Duchamp dipinto da Monet». Pittura e scultura, agli occhi di Johns, esistono per se stesse e a partire da se stesse. Sontag apprezza l’atteggiamento ironico del pittore, il suo orientamento a immagini elusive malgrado l’apparente quotidianità dei motivi, l’avversione a critici modernisti della precedente generazione, come Clement Greenberg, sentenziosi e pedagogici, fortemente politicizzati, di cui Johns si fa esplicite beffe almeno in un’occasione.
La polemica «contro l’interpretazione» diviene meglio comprensibile se collocata sullo sfondo appena considerato, e ha delicati caratteri propedeutici. L’autrice non intende in nessun modo portare obiezioni distruttive, piuttosto scoraggiare l’eccesso di commento e discorso secondario. «Oggi decisamente non abbiamo bisogno di assimilare l’arte al pensiero né (ancor meno) alla cultura ... È invece importante ritrovare i sensi. Dobbiamo imparare a vedere di più, ascoltare di più, sentire di più»[10]. Il saggio si conclude in maniera propositiva, con l’impostazione di nuovi compiti critici (Sontag si pronuncia a favore di una critica antidottrinaria, che preservi «trasparenza» e produca «riduzione») e l’abbozzo di un indirizzo interpretativo che trova applicazione già nel volume successivo, Styles of Radical Will, pubblicato nel 1969[11].
Nel richiamare Against Interpretation in epigrafe, Celant privilegia l’argomento distruttivo, solo preliminare in Sontag, e ne fa il senso esclusivo del testo[12]. In nessun’altra parte di Per una critica acritica corregge la distorsione, né riporta i contributi più recenti della critica americana a una teoria (che potremmo chiamare deculturale) dell’interpretazione. Agli occhi del critico genovese occorre senz’altro rigettare «giudizio» e «pettegolezzo» per affiancare l’attività degli artisti in modi «complici»: iniziative curatoriali, documentarie e archivistiche, afferma con qualche enfasi, trasformano l’attività critica in «azione» e «evento». Non mancano argomenti a favore della posizione, offerti in primo luogo da artisti cui molti, al tempo, guardano o possono guardare. Duchamp, Johns e Beuys, ipotizziamo, orientano Celant almeno quanto Sontag. Sono note le performance fotografiche duchampiane con tonsura in forma di stella cometa, ed è probabile che le bandiere americane di Johns si riferiscano ad esse molto più che a un’“icona” patriottica della cultura di massa (o a circostanze autobiografiche cui Johns si è sempre riferito vagamente)[13]. Nell’uno e nell’altro caso l’artista dichiara l’esigenza di raccoglimento, pausa o silenzio e mostra di affidare la propria attività a un ritmo mai predeterminato, intermittente. Alla svolta in senso magico-ritualistico di Celant contribuisce in misura decisiva, tra 1969 e 1970, la conoscenza di Beuys, artista la cui affermazione in ambito internazionale matura tra le due Dokumenta del 1964 e del 1968 ed è legata a performance (o “azioni”) volte a produrre la crisi del linguaggio. Il tema del “silenzio” introduce l’altro dell’“ascolto”, preliminare a ogni salda conoscenza: se Duchamp si distacca ironicamente da attitudini egodirette in arte, Johns e Beuys sfidano la presunzione di onniscienza pur senza avocare a sé in modo esclusivo i compiti dell’interpretazione.
Le esortazioni al “silenzio” Dada, New Dada o Fluxus si rivolgono virtualmente a tutti quanti detengono posizioni di autorità e facoltà di “parola”, dunque di selezione. Valgono per il critico istituzionale tanto quanto per il curatore, il poeta o l’archivista militante. Celant appare tuttavia singolarmente parziale quanto al punto. Coglie al volo, è evidente, l’opportunità offertagli dalle proteste di Sontag per sbalzare in chiave eroica l’attività del critico-curatore a tutto svantaggio di professionalità e competenze di altro genere. La crescente impopolarità della critica accademica in Italia favorisce il proposito, ma la contesa ha costi culturali rilevanti[14]. L’interpretazione è sacrificata a una competizione tra ruoli che non conosce equivalenti altrove, e l’esperienza estetica si ritrae dalla sfera pubblica[15]. Vengono meno gli scambi di ruolo avviati, sul finire degli anni Cinquanta, da artisti come Manzoni e Castellani con la creazione di riviste e l’apertura di gallerie e si torna a stabilire una rigida gerarchia di compiti e attribuzioni. Eccettuati Fabro in un’intervista rilasciata a Lonzi nel 1966 (prima dunque del varo di Arte povera)[16] e Paolini in una serie di disegni dei primi anni Settanta sul tema della “descrizione”[17], ben pochi tra gli artisti dell’Arte povera mostrano interesse a prendere parte al discorso critico o contribuire a una sua maggiore efficacia. Il “silenzio” sembra essere in questo caso una clausola sistemica piuttosto che un atto di autodeterminazione.
Nelle vicinanze
L’appropriazione di Sontag in Per una critica acritica è strumentale e sommaria, resa fallace da attitudini autocelebrative e dal generico estremismo moralistico. Manca per di più il corretto riconoscimento di tradizioni interpretative avverse alla riduzione della critica d’arte a “ideologia” o storia della cultura, anche se proprio in Italia esistono esempi eccellenti in tal senso[18]. Appare tuttavia inopportuno, a distanza di decenni, ridursi all’indignata riprovazione di quanti, al tempo, liquidano la «boutade da cui ha preso avvio la discussione»[19]. La questione non è filologica: la citazione esterofila interessa al più sotto profili di sociologia della cultura (o di storia del packaging culturale) e attesta un’opportunistica subalternità alla cultura americana contemporanea. Vale però la pena staccarsi da considerazioni di merito, provarsi a collocare Per una critica acritica nel contesto italiano del tempo e formulare congetture sulle strategie cui risponde.
Lonzi e Maurizio Calvesi sono riferimenti importanti per Celant, entrambi peraltro riconosciuti – la prima esplicitamente in Per una critica acritica[20]. Occorre tuttavia delimitare e stabilire specificità delle relazioni. L’interesse di Celant per l’attività di ricerca e documentazione di Lonzi è indubitabile: le interviste pubblicate dalla giovane critica su “Marcatré”, rivista di cui Celant è segretario di redazione, e confluite in Autoritratto sono modello deautoriale e di «critica acritica». L’attività critica e ricognitiva si accompagna, in Lonzi, alla convinzione circa l’esistenza di un’«affinità» tra giovani, donne e artisti[21]. Il tema della “differenza” si ripresenta nell’esaltazione celantiana dell’«artista-sciamano», ma è giocato stavolta in chiave egemonica. L’eroe culturale si caratterizza per il ricorso alla violenza simbolica, non per una qualche vulnerabilità. Comune a Lonzi e Celant l’obiettivo polemico: tanto il profilo professionale della critica d’arte quanto le retoriche guevaristiche e macho-marxiste22[22] che accompagnano il lancio dell’Arte povera si consolidano nel riferimento negativo a Argan critico e “ideologo”. Riconosciute le contiguità, sembra però opportuno misurare le distanze. L’attività di Lonzi, pure segnata dalla profonda cesura che si produce con l’abbandono della critica d’arte, è caratterizzata dal costante rifiuto del mito culturale, inteso come merce dequalificata di un’industria culturale posta al servizio dell’egotismo patriarcale[23]. Con determinazione, invece, Celant interpreta il proprio ruolo critico-curatoriale alla stregua di produttore di miti – i miti dell’«artista-sciamano», ad esempio, del «curatore-eroe» o del «nodo Arte povera»[24]. La strategia mitografica è deliberata, consegue a scelte accorte e ripetute nel tempo, ha interlocutori nazionali e internazionali riconoscibili e per più versi costituisce la cifra distintiva di un’attività influente e longeva[25]. Celant non desiste dall’epos neppure quando, o tantomeno quando, si professa storico del movimento Arte povera, dopo il 1971, dichiarando conclusa in perdita l’epoca delle «guerrillas»: manca una riflessione specifica sul ruolo di artisti e curatori nella costruzione del «mito culturale», pure denunciato[26]. Le retoriche controculturali si accompagnano invariabilmente a identificazioni narcisistiche e proiettive dei responsabili della «reificazione», di volta in volta il critico accademico, la società, il «sistema»: l’«altro»[27].
Meno conclamato è il contributo che Calvesi sembra avere dato a opzioni di metodo e narrazioni eroicizzanti o regressive: eppure temi e preferenze di una mostra come Fuoco, Immagine, Acqua, Terra, tenutasi alla galleria L’Attico di Roma nel giugno 1967 e co-curata da Calvesi, confluiscono nella pubblicistica celantiana successiva[28]. Allievo di Venturi all’università La Sapienza di Roma, Calvesi è interprete di un rinnovamento critico e metodologico che si compie, nella cultura italiana, tra 1964 e 1965, accompagnato dalla pubblicazione di Le due avanguardie[29]. Tra i testi critici più importanti della seconda metà del decennio assieme a Autoritratto di Lonzi, Le due avanguardie è dedicato alla ricostruzione della vicenda futurista e al tempo stesso alla trattazione dei rapporti tra prima e seconda avanguardia. «Ciò che fondamentalmente diversifica la seconda [avanguardia] dalla prima», afferma Calvesi, «è il fatto di avere alle spalle l’esperienza multiforme e in qualche caso già esauriente della prima; onde la finalità della provocazione, della sorpresa, dello scandalo, o infine la polemica contro le presunte finalità costituite dell’arte tradizionale sono o dovrebbero essere assenti»[30]. I riferimenti contemporanei di Calvesi sono, con New Dada e Pop, di cui è estimatore (in chiave sociologica), Schifano e Pascali, cui il critico rimanda nel sostegno accordato a un’arte deculturale, che torni a congiungersi alla «vita». Schifano in particolare, per Calvesi, riattiva l’eredità futurista intrecciandola alla contemporaneità Pop, che Calvesi definisce «di reportage», tornando a interpretare una specificità (se non un primato artistico) italiano in anni di veementi polemiche sull’affermazione internazionale dell’arte americana. «Il quadro [Pop] comunica liberamente con la vita, interferisce nel suo flusso», scrive Calvesi nell’introduzione alle Due avanguardie. «Tutto ciò porta la pittura sull’orlo di una dissoluzione ... Al tempo stesso la pittura ne riceve nuovo ossigeno»[31]. Le connessioni esistenti tra Schifano e Pascali sono sottostimate nella storiografia poveristica, sin troppo impegnata a stabilire demarcazioni meramente tecniche o di pratica espositiva tra prima e seconda metà del decennio. Eppure, per Calvesi, già nel 1963 Schifano è l’artista che ritrova l’istanza primaria, la «vita», cui accostarsi al di là e contro «programmi ideologici o vagheggiamenti puro-visibilistici»[32].
La polemica contro Argan, appena dissimulata nel passaggio citato, orienta Le due avanguardie e risulta influente sulla critica d’arte italiana successiva. È portata in modo sommesso, anche se fermo: prevalgono, in Calvesi, ragioni che possiamo considerare affettive, di deferenza e stima personali per il critico più anziano. Sotto il profilo del metodo Le due avanguardie prefigura l’attività di Celant e le tesi di Per una critica acritica: se ne distanzia tuttavia per i requisiti di memoria storiografica e cura espositiva, se non di brillantezza. In nessun caso è considerata, da parte di Calvesi, l’eventualità di una soppressione tout court dell’interpretazione o dei criteri storico-filologici ad essa connessi. «è il corpo elastico dell’esperienza estetica», leggiamo nell’introduzione, «a comportare oscillazioni a prima vista anche sconcertanti ... è vano opporre il veto di scelte ideologiche preconcette. È anche per questo che io mi pronuncio per una critica che segua l’arte, che dei suoi sviluppi se ne stia in vigile attesa, per coglierli con lo scatto e la tempestività di cui può disporre, senza intenzione, a nessun livello, di dirigerla; ed è ancora per questo che ... è da condividere, oggi, l’affermazione di Baudelaire ... che la critica debba essere passionale e parziale»[33].
Una posizione neo-accademica
Non è immediato cogliere la posizione di Fossati quale si manifesta
negli interventi di critica d’arte tra 1964 e 1970 e confluisce nell’intervento Il poi viene dopo, laconico già nel titolo[34]. Interessi e irritazioni degli anni giovanili tornano peraltro a orientare ricerche successive. La scena in cui Fossati si inserisce è quella aperta dalla Biennale del 1964 e caratterizzata dalle discussioni che seguono l’affermazione di orientamenti neo-figurativi[35].
La fase più innovativa delle neoavanguardie New Dada e Pop gli sembra essersi conclusa: subentrano «stanchezza» e «ripetizione».
L’approccio a opere, temi, problemi è tecnico e formalizzato. Storicismo, strutturalismo, fenomenologia, pragmatismo offrono prospettive di indagine non fuorviate da principi «moralistici». Riconosce meriti storici e sociali alla Pop americana, osserva a distanza minimalismo e Op, interloquisce con tempestività con gli artisti che nel 1967 confluiscono nel movimento dell’Arte povera. Potremmo parlare di una posizione di “attesa” adottata deliberatamente, aperta all’indecifrabilità del momento presente, appresa non in astratto, dalla lettura di questo o quel testo di teoria, critica o storia dell’arte, ma dall’assidua frequentazione di un artista avvicinato come interprete elettivo: Lucio Fontana.
Il carattere impervio, a tratti involuto della scrittura del critico torinese stupisce già i contemporanei[36]: la frase si distende solo sporadicamente, nelle stroncature. Considerare la circostanza aiuta a ricostruire un punto decisivo nella vicenda mai chiarita del rapporti tra Fossati e la neoavanguardia. Esiste come un sottotesto artaudiano negli interventi del critico, in parziale controtendenza rispetto ai propositi di “informazione”; un teatro della crudeltà inscenato al cospetto del lettore per indurlo a distaccarsi da logore consuetudini interpretative. Il tema della “crudeltà” torna frequentemente: certo la pubblicazione, da parte di Sanguineti, di Letteratura della crudeltà sul primo numero di “Quindici” (rivista per cui lo stesso Fossati collabora) non è episodio irrilevante[37]. Sanguineti è riferimento elettivo: proprio l’autore di Laborynthus introduce Fossati al “plurilinguismo” New Dada e Pop, sorta di “grado zero” figurativo cui il poeta, critico e teorico della neoavanguardia si riferisce in brevi testi critici e soprattutto nel romanzo Il gioco dell’oca, pubblicato nel 1967. Fossati si appropria del tema della “crudeltà” volgendolo in senso didattico e civile: l’istanza, crociana e gobettiana in origine, è quella di contribuire alla «sostanza e serietà» culturali di un paese, l’Italia, che ne è ai suoi occhi privo. Le prospettive critiche si definiscono in opposizione a egemonie culturali e di mercato in via di consolidamento. Alla «facilità con cui la nostra cultura e critica [...] si è lasciata intimidire», scrive nel 1969, colpito dalle strategie di internazionalizzazione subalterna dell’Arte povera, corrispondono da parte sua una mobilitazione crescente sul piano filologico o editoriale e l’impegno a ricostruire in chiave problematica la storia culturale italiana. La polemica antipoveristica diviene esplicita con la mostra L’azione concreta, tenutasi a Como nel settembre 1971: raccoglie orientamenti concettuali che potremmo chiamare neo-accademici[38]. Gli artisti invitati, Marco Gastini, Giorgio Griffa, Maurizio Nannucci, Claudio Parmiggiani, non si pongono in termini antiformali né dismettono per così dire gli abiti da lavoro[39]. Riflettono sul quadro mentre si astengono dal dipingere, muovendosi sul margine di una sua possibile reintegrazione; e prendono parte a un dialogo sovranazionale che ha interlocutori in Francia e negli Stati Uniti. Vengono meno la celebrazione dell’«artista-sciamano», il «misticismo naturalista» (che Fossati attribuisce all’affermazione di Beuys più che a vagues floreali controculturali[40]) o le concessioni anti-artistiche alla «bigiotteria del fare arte, ... [a]l simbolico e l’espressionistico»[41]. Il punto, per il critico, non è l’eccezionalità dei pochi, che si afferma a svantaggio della coesione e progettualità della compagine sociale, ma il cambiamento dei molti[42]. Le tradizioni culturali stabiliscono alvei o contesti normativi entro cui occorre collocarsi, sia pure in modo «dialettico», per modificare e destabilizzare. «Smetterla di fare i sacerdoti, i ‘grandi’ sacerdoti, e ancor peggio gli iniziati, i ‘grandi’ iniziati», sbotta su “Nac” in tagliente polemica con le due ex allieve di Longhi invitate a partecipare al dibattito, Lonzi e Volpi[43]. «Per fare le rivoluzioni bisogna saper guidare i tram, azionare la distribuzione del gas, distinguere tra una vena e un polmone». Se Lonzi ha scritto di «vie di salvezza» che sono individuali e «non trasmissibili»[44], la replica di Fossati pone enfasi su regole, principi, protocolli pubblici di progettazione e ricerca, “verifiche” storiche e linguistiche. «‘Alta coscienza’ in Malevic e non in Achille Funi: va bene, ma perché?»,
si chiede ironicamente, contestando in una provocatoria chiave neonovecentista il primato dell’«intuizione»[45]. Regolarità, ripetibilità, trasparenza dei processi artistici e compositivi, in breve razionalità: sono attributi che Fossati può in parte trovare nei decaloghi di Ad Reinhardt, l’artista all’origine della svolta “analitica” cui è interessato. Ma è l’orizzonte storico e politico-pedagogico a caratterizzare il suo intervento. I destinatari della critica, questo il presupposto, sono lo studente e l’utente generico, e l’esercizio dell’interpretazione ha utilità e necessità sociali (se e) perché promuove emancipazione[46].
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[1] G. Celant, Per una critica acritica, in “Nac,” 1, ottobre 1970, pp. 29-30. Celant pubblica una prima e ridotta versione del saggio su “Casabella” nel dicembre 1969 (Per una critica acritica, in “Casabella”, 1969, 343, pp. 42-44).
[2] Ibid., p. 29.
[3] g. Celant, Arte povera, Mazzotta, Milano 1969. Sulla plasticità delle narrazioni poveristiche cfr. L. Conte, Materia, corpo, azione. Ricerche artistiche e processuali tra Europa e Stati Uniti 1966-1970, Electa, Milano 2010, p. 243 e ss.
[4] C.L. Ragghianti, Postilla, in “Nac”, 3, marzo 1971, pp. 3-4; P. Fossati, Il poi viene dopo, in “Nac”, 2, febbraio 1971, p. 4.
[5] Se è il “mercato”, ci si chiede, a creare fama e costruire carriere, quale può essere il ruolo della critica? Per le posizioni anti-mercato emerse nel corso della discussione cfr. A. Natali, Se la critica tace, in “Nac”, 2, novembre 1970, pp. 4-5; M. Volpi, Critici si nasce, in “Nac”, 3, dicembre 1970, pp. 4-5; P. Raffa, Consigli minimi alla critica, ivi, p. 7; L. Caramel, Critica come cooperazione, in “Nac”, 1, gennaio 1971, pp. 5-6; I. Tomassoni, Per una critica reazionaria, in “Nac”, 2, febbraio 1971, pp. 5-6; V. Fagone, Seduzioni/sedizioni, ivi, pp. 6-7.
[6] T. Trini, Critica e identità, in “Nac”, 1, gennaio 1971, p. 4.
[7] C. Lonzi, La critica è potere, in “Nac”, 3, dicembre 1970, p. 5. Per reazioni e commenti cfr. T. Trini, Critica e identità…, p. 4; L. Caramel, Critica come cooperazione…, p. 5; P. Fossati, Il poi viene dopo…, p. 4; C.L. Ragghianti, Postilla…, p. 4. Fossati non si astiene dal formulare sarcasmi: lo contraria il frequente ricorso al termine «intuizione», che trova (e di fatto è) «neo-spiritualistico». Nomina ipotetici riferimenti lonziani (Sedlmayer, Zolla, Ceronetti) come membri di un’efferata congiura. Sparsi accenni sui temi lonziani della «purezza», «santità» e «piccola verità» in M.L. Boccia, L’io in rivolta, La Tartaruga, Milano 1990, p. 151 e ss. Sull’interesse lonziano per «i libri autobiografici di sante» cfr. M. Disch, L. Iamurri, Nota sull’immagine di copertina, in C. Lonzi, Autoritratto (1969), et al./edizioni, Milano 2010, pp. 303-306.
[8] C. Lonzi, La critica è potere…, p. 5.
[9] Lonzi non rifiuta le tesi di Celant, ma le accoglie con una qualche distaccata regalità, come conferma di proprie posizioni precedenti. Rigetta peraltro schieramenti e «poetiche», anche le più recenti. La polemica contro la critica come forma di «dominio» non è nuova. L’«idealtipo» del «critico» istituzionale conserva agli occhi di Lonzi il volto di Argan. Sullo scontro tra Lonzi e Argan cfr. M. Dantini, “Ytalya subjecta”. Narrazioni identitarie e critica d’arte 1937-2009, in Il confine evanescente. Arte italiana 1960-2010, a cura di G. Guercio, A. Mattirolo, Electa Maxxi, Milano 2010, pp. 263-72.
[10] S. Sontag, Against Interpretation, in Against Interpretation and Other Essays (1966), Penguin, Londra 2009, p. 14.
[11] Ibid.: «nostro compito non è quello di trovare quanto più possibile
significato in un’opera d’arte, né tantomeno di spremere dall’opera più significato di quanto essa in effetti contenga. Nostro compito è di focalizzare l’interpretazione per tornare a vedere la cosa stessa».
[12] «La nostra è una delle epoche in cui l’idea dell’interpretazione è generalmente reazionaria e soffocante», insorge Sontag nel passaggio citato in Per una critica acritica. «Come le esalazioni dell’automobile e dell’industria pesante inquinano l’atmosfera, così le emanazioni delle interpretazioni artistiche avvelenano oggi le nostre sensibilità. In una cultura dove il problema ormai endemico è l’ipertrofia dell’intelletto a scapito dell’energia e della capacità sessuale, l’interpretazione è la vendetta dell’intelletto sull’arte». Per una storia degli orientamenti ambientalistici e il dibattito su ecologia e «natura» nella cultura americana degli anni Sessanta cfr. M. Dantini, Arte contemporanea, ecologia, sfera pubblica. Per una nozione ampia e integrata di “ambiente”, Electa Mondadori, Milano 2008, pp. 85-107.
[13] Le performance duchampiane con tonsura in forma di stella cometa rimandano a temi tutt’altro che desueti nelle cerchie orfiche che il giovane Duchamp frequenta in giovinezza e da cui prende le mosse, cioè il “silenzio” d’artista (inteso come sospensione e autointerrogazione) e la riflessione sulla propria attività, destinata a trovare forma allegorica. Esiste dunque un Duchamp che riflette sull’origine pre-sociale e pre-culturale dell’arte: la sua attività non è descrivibile in termini esaurienti con il ricorso alla categoria della provocazione. Nel 1967, tuttavia, alla data cui risalgono i primi testi sull’Arte povera, la ricezione celantiana di New Dada e Pop è esclusivamente sociologica: al pari di molti altri, in Italia (ma non Lonzi), il critico guarda ai più recenti orientamenti americani (e a Duchamp, che ne è considerato l’origine) attraverso due decisive mediazioni continentali, quella novorealistica (orientata ai materiali) e l’altra, persino più decisiva, neoavanguardistica, costruita attorno a propositi di “aggressione” dell’istituzione culturale. Celant appare particolarmente vicino a Sanguineti teorico e critico d’arte. I temi del “terrore” o della “tautologia” (nel senso brechtiano dello straniamento) traggono origine dall’interpretazione sanguinetiana di Alberto Burri (il testo sanguinetiano su Burri, apparso su “Marcatré” nel 1964 (6/7), è oggi ristampato in E. Sanguineti, Cultura e realtà, a cura di E. Risso, Feltrinelli, Milano 2010, pp. 221-227. Per Sanguineti interprete di Burri cfr. M. Dantini, Edoardo Sanguineti critico d’arte, in “Il Giornale dell’arte”, http://www.ilgiornaledellarte.com/articoli/2011/1/106431.html).
[14] Cfr. M. Dantini, “Ytalya subjecta”..., pp. 264-272.
[15] Cfr. G. Celant, Per una critica acritica…, p. 29: «il critico ... non sembra più credere nel moralismo del suo oggetto, ... ma credere nell’estrema moralità del proprio fare e agire». L’affermazione sposta sì la dimensione politica dell’arte dall’ambito (realistico-sociale) dei “contenuti” all’ambito dei processi di produzione, ma interpreta questi ultimi in termini fideistici e autoreferenziali (l’«estrema moralità del proprio fare e agire» critico). Per una recente rivendicazione della filologia in chiave critica e di teoria culturale radicale cfr. E.W. Said, Humanism and Democratic Criticism, Columbia University Press, 2004; trad. it. Umanesimo e critica democratica, Il Saggiatore, Milano 2007. La Seconda considerazione inattuale nietzscheana, Dell’utilità e il danno della storia, pubblicata nel 1874, è il modello teorico-critico cui Said si richiama esplicitamente. Sul tema M. Dantini, Genealogie. Critica, storiografia e cosmopolitismo decoloniale, in Id., Arte contemporanea, ecologia e sfera pubblica, Aracne, Roma 2011, pp. 105-107.
[16] Carla Lonzi: intervista a Luciano Fabro, in “Marcatré”, 1966, 19/22, p. 375: «D. Per la tua mostra della primavera scorsa a Milano, hai scritto sul catalogo didascalie per ciascuna opera esposta. Rileggendo, mi accorgo che si tratta di pure e semplici descrizioni. Cosa intendevi suggerire allo spettatore? R. Veramente volevo suggerire di non prendere atteggiamenti particolari o convenzionali, semplicemente mettere il visitatore davanti a quello che vede. Di per sé non sarebbe una cosa necessaria se in genere avessi notato che le persone vedono come sono le cose».
[17] Ennesima pone ironicamente il tema della difficoltà di una “descrizione” verbale di un’opera d’arte figurativa. Nel giocare con alfabeti inventati e scritture corsive, l’artista sembra optare progressivamente per una scrittura ideografica e non fonetica. Finisce così per suggerire che la “descrizione” più accurata di un’immagine (o “equivalenza”, in senso longhiano) è quella che si autosopprime come testo funzionale per divenire essa stessa “immagine”. In modo analogo, la critica più efficace è quella che abbandona la pretesa di decifrazione e controllo delle immagini e si fa arte, attraverso e oltre la filologia. Nel dibattito consegnato alle pagine di “Nac” sono Natali e Raffa a esprimersi sulla “descrizione”: il primo la considera «problema oggi assai secondario» (Se la critica tace…, p. 4), il secondo invece ne rivendica l’utilità (Consigli minimi alla critica…, p. 7).
[18] I riferimenti possibili sono molteplici, da Soffici a Longhi a Testori e il giovane Arbasino, dal Brandi prebellico a Villa e Arcangeli. La discussione è caratterizzata dalla scarsità di riferimenti culturali, cui suppliscono in parte Ragghianti, Volpi e Trini. È evidente la difficoltà a estendere l’orizzonte della ricognizione e a valicare a ritroso la cesura storica costituita dal fascismo. Considerata l’offensiva sferrata da Celant alla critica di idee (e dunque direttamente o indirettamente alla scuola venturiana, da cui, allievo di Eugenio Battisti, lui stesso proviene), il silenzio lonziano su Longhi è per più versi enigmatico. Reagisce forse alla tagliente indifferenza dello storico per tutto quanto è “quotidiano” e “biografico” e riflette una distanza crescente dal mondo dell’arte, i suoi dibattiti e i suoi rituali – disinteresse perfino più pronunciato di quanto Lonzi stessa nell’occasione lasci intendere. Consideriamo le date: La critica è potere appare nel dicembre 1970, quando tanto il Manifesto di Rivolta femminile (pubblicato collettivamente, ma scritto da Lonzi) quanto Sputiamo su Hegel sono già apparsi ed è in preparazione Assenza della donna dai momenti celebrativi della manifestazione creativa maschile. Sono gli scritti che avviano «la presa di coscienza» datata da Lonzi stessa «dalla primavera del 1970 ai primi del 1972». La partecipazione al dibattito promosso da “Nac” deve apparire a Lonzi qualcosa come un compito postumo. La critica è potere impegna peraltro parole chiave di un dizionario che non è storico. Ragghianti suggerisce connessioni tra l’avversione di Longhi alla storia dell’arte intesa come storia culturale e la posizione “intuizionistica” dell’ex allieva (Postilla…, p. 4). Su Longhi, Anna Banti e la proscrizione del “quotidiano” cfr. M. Volpi, Un “grido lacerante”: idealizzazione e verità, in L’opera di Anna Banti, a cura di E. Biagini, Olschki, Firenze 1992, pp. 191-197. Banti si esprime in maniera sprezzante sulla «critica militante» in una lettera a Alberto Arbasino del febbraio 1962. La lettera è pubblicata in A. Banti, Lettere a Alberto Arbasino, Archinto, Milano 2006, p. 49.
[19] Piero Raffa, studioso di estetica e teorico culturale, interviene nel dibattito proprio per liquidare la «boutade da cui ha preso avvio la discussione ... Il senso delle quattro righe [di Sontag] citate da Celant è lontano mille miglia da quello che egli ha scritto ... Sontag possiede intelligenza da vendere: sarebbe ozioso ... ricordarle che la semplice percezione delle opere è già implicitamente interpretazione...» (Consigli minimi alla critica…, p. 7). Anche Aurelio Natali, al tempo critico d’arte di orientamento marxista-critico, interessato alla trasformazione o “distruzione” delle culture popolari per effetto del «dominio dei mezzi di comunicazione di massa», stigmatizza «l’inclinare verso una posizione romantica che propone l’artista non nei termini di un uomo calato anch’egli nei condizionamenti della realtà, ma come figura magica, creatrice di verità, di atti irripetibili, estranea al suo stesso tempo storico» (Se la critica tace…, p. 4).
[20] Per una critica acritica si chiude con una postilla di ringraziamenti e omaggi. L’autrice di Autoritratto figura tra i modelli di «critica come conservazione e catalogazione dei residui o tracce degli artisti o dei prodotti artistici». Così stilizzata, l’attività di Lonzi accenna a ridursi alle dimensioni della cronaca o della conservazione intesa in senso tecnico-burocratico: agli occhi di Celant, è evidente, il contributo di Lonzi non raggiunge le soglie dell’«evento».
[21] «L’adesione agli artisti», scrive Lonzi su “Nac”, «è stata per me fin dall’inizio una sensazione di affinità a cui ho dato fiducia» (La critica è potere…, p. 6). L’assunzione di partenza, rievocata in maniera sommessa in La critica è potere, vacilla già al momento della stesura di Autoritratto. Entra definitivamente in crisi nel 1970 con la mobilitazione in senso femminista e la scelta di una diversa comunità di appartenenza. Cfr. nota 14.
[22] Sul Sessantotto in chiave sessista cfr. A. Bravo, A colpi di cuore, Laterza, Bari 2008. Lonzi è tra le prime a sostenere che il movimento femminista non nasce grazie, ma contro il Sessantotto e l’ideologia.
[23] Cfr. M. Dantini, Carla Lonzi, “Vai pure”, in “Alfalibri”, 2, giugno 2011, pp. 10-11.
[24] Cfr. G. Celant, Knot Art, in The Knot Arte povera at P.S.1, catalogo della Mostra (New York, P.S.1, ottobre-dicembre 1985), Allemandi, Torino 1985, rist. a cura di C. Christov-Bakargiev, Arte povera, Phaidon, Londra 1999, p. 229; trad. it. Un nodo/Arte nodale, in G. Celant, Arte povera, Allemandi, Torino 1985, pp. 8-14; Un’arte nodale, in Id., Storia e storie, Electa, Milano 2011, pp. 114-121. Con la metafora del “nodo”, morbida al punto giusto da non afferrare alcunché di filologicamente circostanziato, si compie il processo di autoistituzionalizzazione poveristica. La molteplicità delle differenze (tra artisti che non di rado si detestano, e che appaiono seguire ognuno percorsi radicalmente diversi), le cesure storiche, i complessi negoziati con contesti culturali né torinesi né italiani sono sacrificati al racconto mitografico di una Sacra famiglia, e le ragioni dell’esistenza di quest’ultima sono poste al di là della discussione pubblica. A questa data la “mediazione” storico-culturale è ripristinata de facto: si chiude il tentativo celantiano di disgiungere la singola individualità artistica dalle semplificazioni sociologiche e dalle “poetiche” di gruppo.
[25] Gian Enzo Sperone riporta frammenti di conversazione di Castelli, e ricorda: «Leo si occupava della nuova leggenda dell’arte americana ... Però, paradossalmente non si impegnava soltanto con il genio squisitamente commerciale di un Vollard o di un Duveen, ma inventava altro, convinto com’era di essere al servizio di una grande causa. ‘Noi creiamo miti su tutto’ [affermava]. ‘La mia responsabilità consiste nel creare miti a partire dal materiale che crea miti – questo, gestito con talento e fantasia, è il mestiere del mercante, il mestiere che devo fare fino in fondo’» (in A. Cohen Sohal, Leo & C., Johan & Levi, Monza 2010, pp. 335-336). Appare significativo che nel breve testo pubblicato in occasione della mostra Identité italienne (e in modo più esplicito in appunti manoscritti, non destinati alla pubblicazione) Lonzi prenda esplicite distanze da Celant ed esprima riserve sugli artisti «in cui ho creduto, che ho scelto tra infiniti altri, che ho ‘scoperto’ quando erano senza avvalli, senza curriculum, senza opere, quasi». C. Lonzi, testo senza titolo in Identité italienne. L’arte en Italie depuis 1959, catalogo della Mostra (Paris, 7 settembre - 25 giugno 1981) a cura di G. Celant, Centro Di, Firenze 1981, p. 31.
[26] Cfr. G. Celant, testo senza titolo pubblicato in “Domus”, 496, marzo 1971, p. 27, ristampato senza note in Arte povera. Storia e storie, Mondadori Electa, Milano 2011, p. 154; cit. anche in Arte povera, a cura di C. Christov-Bakargiev, Phaidon, Londra 1999. Mitografia e “critica acritica” si intrecciano intimamente: per una critica della precoce “museificazione” del contemporaneo cfr. P. Fossati, Di cose accadute a Torino, in Un’avventura internazionale. Torino e le arti 1950-1970, catalogo della mostra (Rivoli, 5 febbraio - 25 aprile 1993) a cura di G. Celant, P. Fossati, I. Gianelli, Charta, Milano-Firenze 1993, p. 33.
[27] Cfr. G. Celant, Una storia tra le storie, in Id., Storia e storie…, pp. 19-20: l’argomento antiuniversitario, riformulato a distanza di decenni in assenza di elementari considerazioni sul mutamento sociale dell’università e in un momento di particolare vulnerabilità del diritto allo studio specie umanistico, finisce per collocarsi vicino a campagne di stampa denigratorie e politiche neoliberiste interessate a ridurre, con gli investimenti pubblici in ricerca e formazione, gli ambiti di partecipazione e discussione democratica.
[28] La mostra Arte Povera - Im Spazio si apre nel settembre 1967 alla galleria La Bertesca di Genova. Il primo testo di Celant dedicato al movimento risale alla stessa data.
[29] M. Calvesi, Le due avanguardie, Lerici, Milano 1966, rist., con uguale titolo, Laterza, Bari 1971 (le citazioni nel presente saggio sono dalla ristampa).
[30] Ibid., pp. 23-24.
[31] Ibid., p. 37.
[32] Ibid., p. 37, pp. 368-376.
[33] Ibid., p. 41.
[34] P. Fossati, Il poi viene dopo…. Allievo di D’Arco Silvio Avalle e autore di una tesi sul “plurilinguismo” nelle letterature romanze, già collaboratore dell’“Unità”, al tempo dell’intervento su “Nac” Fossati è redattore della casa editrice Einaudi e responsabile della sezione storico-artistica. Cfr., per un profilo biografico, M. Panzeri, Paolo Fossati. Prime note per un profilo biografico, in P. Fossati, Officina torinese, a cura di G. Contessi, M. Panzeri, Aragno, Torino 2010, pp. 629-649; R. Barilli, Una dialettica continua tra linea analitica e linea sintetica, in Filiberto Menna: il progetto moderno dell’arte, a cura di A. Bonito Oliva, A. Trimarco, Bruno Mondadori, Milano 2010, p. 10. Per un’introduzione alla sua attività di critico cfr. M. Dantini, Paolo Fossati, in “Alfalibri”, 4, settembre 2011, in corso di pubblicazione.
[35] Se consideriamo la produzione di D’Arco Silvio Avalle tra la fine degli anni Cinquanta e i primi Sessanta realizziamo che l’importanza del periodo di formazione come filologo romanzo è per Fossati considerevole: lo strutturalista D’Arco Silvio Avalle trasmette un metodo “scientifico” e un orientamento culturale all’allievo. Per la posizione del filologo, contrario allo «sfrenato, inconseguente ideologismo di un’epoca come la nostra», cfr. in particolare D.S. Avalle, Tre saggi su Montale, Einaudi, Torino 1970, p. 7. Il testo raccoglie saggi editi tra 1965 e 1968: per indicazione dello stesso autore (p. 11) i testi risultano essere trascrizioni di seminari tenuti nei primissimi anni Sessanta alla facoltà di Lettere dell’università di Torino, con il giovane Fossati disciplinatamente tra i banchi.
[36] Fossati espone le ragioni di una scrittura tecnica ostile ai luoghi comuni in una lettera a Vincitorio verosimilmente di poco successiva alla conclusione del dibattito (la lettera è citata da Miriam Panzeri in Paolo Fossati. Prime note per un profilo biografico…, p. 646, nota 30). Cfr. la citazione dei Minima moralia di Adorno in Il design in Italia 1945-1972: «l’espressione rigorosa strappa un’accezione univoca, impone lo sforzo del concetto, a cui gli uomini vengono espressamente disabituati e richiede da loro, prima di ogni contenuto, una sospensione [> epoché] dei giudizi correnti, e quindi il coraggio di isolarsi, a cui resistono accanitamente» (P. Fossati, Il design in Italia, 1945-1972, Einaudi, Torino 1972, p. 60).
[37] E. Sanguineti, La letteratura della crudeltà, in “Quindici”, 1, giugno 1967, p. 1 (rist. in E. Sanguineti, Ideologia e linguaggio, Feltrinelli, Milano 1969, pp. 132-135; Quindici. Una rivista e il Sessantotto…, pp. 15-18).
[38] «Azione concreta», nelle intenzioni di Fossati, sta per «azione pittorica» o meglio ancora «metapittorica», tale da attestare disciplina tecnica e perdurante fedeltà alle ragioni di compostezza interna dell’immagine. Il tema è quello, neoavanguardistico e prima ancora fortiniano, di un’«ordinarietà» dell’«avanguardia». Nell’introduzione in catalogo Fossati scrive: «è possibile configurare ... un territorio operativo ... attento a non cedere alla tentazione mentalistica, concettuale, d’arte povera o di interventismo sulla natura». L’azione concreta. Fossati, Gastini, Griffa, Nannucci, Parmiggiani, catalogo della Mostra (Como, settembre 1971) Como 1971, s.p. Su “Domus” Trini riconosce a L’azione concreta il proposito di costruire alternative alla proposta poverista. Sul tema dell’habitus funzionariale e professionistico cfr. R. Barilli, La neoavanguardia italia, Il Mulino, Bologna 1995, pp. 200-201.
[39] Interessato al teatro sociale e di strada al tempo dell’Azione concreta, Pistoletto è un obiettivo polemico primario. In Vetrina (1965-1966) l’artista biellese dismette programmaticamente la tuta da pittore per trovarsi libero di esplorare eclettismi, “dematerializzazioni” e infedeltà tecnico-stilistiche di ogni genere – tra queste appunto il teatro.
[40] Cfr., sul tema della fortuna beuysiana in Italia, G. Celant, Beuys. Tracce in Italia, Amelio, Napoli 1978.
[41] P. Fossati, I dilemmi del designer, in “Libri nuovi”, VI, 3, 12.1974; adesso in P. Fossati, La passione del critico, a cura di G. Contessi, M. Panzeri, Bruno Mondadori, Milano 2009, p. 70.
[42] Fossati lo afferma con decisione con riferimento a Paolini, l’artista che più stima del movimento Arte povera e la cui attività segue con interesse costante, in occasione di una personale dell’artista tenutasi nel marzo 1970 alla galleria Notizie (P. Fossati, Officina torinese…, pp. 603-605).
[43] Longhi è un modello per Fossati sotto più profili, metodologici e di scrittura; al tempo stesso è un problema (un “nodo”) ideologico. Introdotto all’arte e alla critica d’arte da Italo Cremona, amico da una vita di Longhi e titolare di una rubrica fissa su “Paragone”, il neoilluminista Fossati si mostra a tal punto animoso contro Volpi e Lonzi da indurre a ritenere che la competizione attorno all’eredità dello storico dell’arte da poco scomparso sia per lui, alla data dell’inchiesta di “Nac”, di estremo rilievo politico-culturale. Sulla polemica Fossati-Lonzi cfr. anche L. Iamurri, Prefazione a C. Lonzi, Autoritratto…, pp. xiv-xv. La recensione fossatiana al libro di Lonzi è pubblicata in “Nac”, 27, dicembre 1969.
[44] Cfr. C. Lonzi, La critica è potere…, p. 6.
[45] Ibid., p. 5.
[46] La posizione di Fossati, con l’oscillazione tra istanze progressiste e rifiuto della società consumistica e di massa, è come attraversata sin dall’inizio dalla costitutiva duplicità cui proprio D’Arco Silvio Avalle, nell’introdurre al tardo Montale degli scritti sul “Corriere della Sera” e delle Sature, offre una genealogia culturale. «Il problema [dei rapporti tra il poeta e la realtà storica] riguarda il posto occupato da Montale in quella generazione di resistenti e non conformisti che erano di fatto dei conservatori, per cui la tragedia più vera, il trauma decisivo non è stato, come generalmente si crede, il fascismo, ma il dopoguerra con le sue speranze deluse, dopo la caduta di ogni superstite illusione sulla possibilità di un rapido rinnovamento (giocato sul difficile compromesso fra restaurazione e progresso) della società italiana» (D’Arco Silvio Avalle, Tre saggi su Montale…, p. 106). Il passaggio citato potrebbe naturalmente riferirsi a Longhi o a Brandi, autori non meno importanti di Montale per la formazione di Fossati; e integra rimandi neoavanguardistici e francofortesi. Sappiamo peraltro come per il Brandi critico e teorico culturale postbellico, autore del pamphlet La fine dell’avanguardia (1949), la tradizione idealistica, antiromantica e antidecadente, «impegn[i] la responsabilità morale e civile dell’artista non meno che quella di qualsiasi altro uomo».
[47] P. Fossati, Il design in Italia…; Id., Il design, Tattilo, Roma 1972; A. Steiner, Il mestiere di grafico, Einaudi, Torino 1978 (introduzione di P. Fossati).
[48] P. Fossati, Il design in Italia…, p. 64 (con riferimento a Enzo Mari). Per il tema “italiano” in Fossati (nel contesto atlantico degli anni Sessanta) cfr. M. Dantini, “Ytalya subjecta”…, pp. 283-287.