Esiste per
Winckelmann uno stile sublime? La questione nasce
fondamentalmente in relazione al secondo dei quattro stili
individuati da Winckelmann nella sua trattazione dello
svolgimento dell’arte greca[1]
[2],
quello che segue allo stile antico e che Winckelmann
chiama lo stile elevato (der hohe Stil). Per
spiegare in che cosa questo stile differisce da quello
successivo, lo stile bello (der schöne Stil),
Winckelmann ricorre a un paragone: «io accosterei le opere del
primo periodo a quelle di Demostene, e quelle del periodo
successivo a quelle di Cicerone: il primo ci trascina quasi con
veemenza, l’altro ci conduce docilmente con sé»[3].
Si tratta con
tutta evidenza di una riformulazione del paragone che era già
stato usato dallo Pseudo-Longino[4]
(XII, 4), secondo il quale Demostene è sublime perché si erge
perlopiù ad altezze impervie (en hýpsei tò pléon apotómo),
laddove Cicerone si effonde profusamente (en chýsei); e
mentre il primo è una folgore improvvisa, l’altro si propaga
come un incendio che si accresce via via.
Possiamo
perciò legittimamente affermare che Winckelmann attribuisce alle
opere dello stile elevato i tratti del Sublime longiniano.
Ma è possibile inferire da ciò che il Sublime si dà per
Winckelmann solo nello stile elevato, e quindi coincide
di fatto con esso? Ovvero: è corretta l’equazione stile
elevato ≈ stile sublime, o esiste la possibilità di
attingere il Sublime anche al di fuori di tale stile?
Se vogliamo
cercare di acclarare questo punto, bisogna cominciare
coll’osservare che Winckelmann chiama questo secondo stile
sempre hohe e mai erhabene. Quest’ultimo aggettivo
– quello che più propriamente corrisponde in tedesco a
sublime – ricorre in più punti della Geschichte (e,
prima ancora, nei Gedanken[5]),
e quindi anche laddove si parla di artisti e opere del periodo
dello stile elevato, ma mai in funzione classificatoria,
con riferimento a uno stile preciso. Mai, in altri termini,
ricorre nella Geschichte l’espressione erhabene Stil.
Vi si parla sempre e soltanto di hohe Stil.
Giova
insistere su questo punto, anche per sgomberare il campo dai
possibili equivoci originati dal fatto che la costruzione
storico-estetica di Winckelmann è stata conosciuta e divulgata
inizialmente non tanto attraverso il testo originale (se non nei
paesi di lingua tedesca) quanto attraverso le traduzioni; e i
traduttori hanno spesso reso hohe Stil con stile
sublime. Così avveniva nella prima traduzione (non
autorizzata) francese apparsa ad Amsterdam (l’indicazione del
luogo è probabilmente fittizia) nel 1766[6]
e poi anche nella prima traduzione italiana, curata dall’abate
Amoretti nel 1779[7].
Nel
ripubblicarla qualche anno dopo a proprio nome, Carlo Fea –
antiquario di indiscussa competenza – la emendò in più punti[8],
ma mantenne la traduzione stile sublime. E nonostante che
Huber nella sua traduzione francese nel 1781[9]
avesse già utilizzato la più corretta espressione haut style,
anche in ambiente francese si continuò a proporre la vecchia
traduzione del 1766[10].
Del resto, neppure uno dei maggiori specialisti francesi di
Winckelmann dei giorni nostri si perita di usare l’espressione
style sublime[11].
In Italia la locuzione stile sublime è stata resa
familiare da una fortunatissima opera divulgativa del nostro più
influente storico dell’arte classica, Ranuccio Bianchi
Bandinelli, il quale, nonostante sicuramente leggesse la
Geschichte nel testo originale tedesco[12],
nel riassumere l’esposizione di Winckelmann definisce appunto
tale il secondo dei suoi stili[13]
(è pur vero, tuttavia, che nella prima traduzione italiana
moderna, ad opera di Maria Ludovica Pampaloni[14],
hohe Stil è reso fedelmente con stile elevato, ed
anche in quella più recente di Fabio Cicero[15]
si preferisce comunque stile nobile a stile sublime).
In ambiente anglofono, infine, la classica traduzione del Lodge[16]
ha accreditato la traduzione grand style, mentre la nuova
traduzione ad opera di H.F. Mallgrave opta per un più letterale
high styl
[17].
Questa preliminare messa a punto terminologica era
necessaria, ma non ci porta ancora al cuore della questione che
ci siamo prefissi di affrontare. Prima di concentrarci sul
Sublime in Winckelmann occorre però fare alcune premesse di
ordine più generale.
Nelle storie
dell’estetica o della critica d’arte si attribuisce per solito a
Winckelmann il merito di avere abbandonato per primo il vecchio
armamentario dell’antiquaria e di avere finalmente indagato
l’arte antica basandosi non più soltanto sulla cronologia degli
artisti – desunta dalle fonti letterarie – ma su un criterio
intrinseco alla forma artistica, ossia appunto sullo stile[18],
ricavato dall’esame delle opere superstiti. In questo egli è
indubbiamente originale, e sovrasta di ben più di una spanna
tanto i suoi predecessori quanto i suoi contemporanei. E
tuttavia spesso viene sottovalutato il ruolo che nella
definizione dei suoi stili (antico, elevato,
bello, degli imitatori o della decadenza) giocano le
vecchie classificazioni degli stili della retorica antica. La
cosa non deve stupire: in fondo Winckelmann non fece che
applicare alla storia dell’arte il criterio che consigliava agli
artisti del suo tempo – imitare gli antichi per diventare
inimitabili. Dai suoi taccuini sappiamo con quanta attenzione
aveva studiato Dionigi e Demetrio e Longino[19],
e oltretutto, dal momento che – come onestamente dichiara egli
stesso[20]
– non era disponibile all’epoca una sufficiente documentazione
archeologica per l’arte greca dell’età arcaica e proto-classica,
fu praticamente obbligato ad appoggiarsi a una consolidata
tradizione retorica antica e a modellare l’evoluzione stilistica
delle arti visive sul paradigma della classificazione degli
stili letterari[21].
Winckelmann
muove in effetti dall’assunto che letteratura e arti figurative
abbiano avuto in Grecia una evoluzione parallela. Esso è
compiutamente esplicitato nei Monumenti Inediti,
pubblicati nel 1767[22]
e nelle Anmekungen dello stesso anno[23],
ma è già presente e operante nella Geschichte, pubblicata
tre anni prima[24].
Una
valutazione esaustiva dell’apporto della retorica antica nella
costruzione della teoria winckelmanniana richiederebbe troppo
spazio. Ci limiteremo qui alle considerazioni più pertinenti
alla tematizzazione del Sublime in rapporto agli stili.
Cominciamo
per comodità di analisi dallo stile bello. Risulta a
prima vista evidente che per definirlo Winckelmann ha preso a
modello lo stile elegante (charactèr glaphyrós[25])
del Perì hermenéias di Demetrio[26].
Elemento caratterizzante di entrambi è la cháris, la
grazia[27].
La grazia sta per Winckelmann nei gesti e nel movimento del
corpo[28]
[29],
così come per Demetrio e Dionigi essa nasce dal ritmo dei
cola del periodo. In virtù della grazia lo stile bello,
del quale in scultura fu iniziatore Prassitele, supera la
residua angolosità della fase precedente e con la sua maggiore
fluidità e ‘leggerezza’ riesce a dissimulare l’akríbeia
(precisione, ricerca della perfezione) e il pónos
(fatica), come nella castiglionea sprezzatura[30].
È importante
anche sottolineare – come non manca di fare Giovanni Lombardo –
che per gli antichi la grazia è connotata dalla reciprocità[31],
e pertanto questa nozione appare «più idonea a definire non solo
l’assetto formale dell’eleganza ma anche il suo
effetto sull’ascoltatore»[32]
(nel caso delle arti visive, sull’osservatore). L’eleganza e la
piacevolezza di questo stile hanno un effetto sulla modalità
percettiva dell’osservatore, in modo non dissimile dall’Anhemlichkeit
(‘bello attraente’) di Kant. Lo stile bello, tuttavia,
non è quello a cui dobbiamo indirizzarci in prima battuta per
trovare il Sublime. Nel passo della Geschichte citato
all’inizio di questo saggio si dice che il linguaggio formale
degli artisti di questo periodo è assimilabile all’eleganza
pacata di Cicerone, non certo alle sublimi arditezze di
Demostene, che ricordano invece i maestri dello stile
precedente. È dunque proprio allo stile elevato che
converrà rivolgerci; ed è nella trattazione di quest’ultimo[33]
che l’influenza delle teorie retoriche antiche appare più
rilevante. Esso infatti è caratterizzato in Winckelmann
da grandiosità (Grossheit) ed elevatezza (Erhabenheit)
ma più ancora da un’altra categoria molto importante in Demetrio
(al punto che nel suo trattato dà il nome ad uno stile a sé
stante), quella di deinótes. L’aggettivo deinós
deriva dal verbo déido (temere), e definisce qualcosa che
incute soggezione, che è sì temibile, ma al tempo stesso, e
perciò stesso, estremamente efficace[34].
In italiano può essere reso con ‘impressionante’ o
‘formidabile’. In Demetrio esso indica la cifra di uno stile
potente, che colpisce e sbigottisce[35],
lascia di sasso come Medusa[36].
Lo stesso Pseudo-Longino (XII, 4-5; XXXIV, 4) lo ascrive alla
tavolozza del Sublime quando, descrivendo la forza dello stile
di Demostene che si caratterizza per lo hýpsos apótomon
(sublime scosceso), ne sottolinea la deinótes[37].
Ma mentre il Sublime longiniano ha tra le sue componenti la
nobiltà e la compostezza, la deinótes – come ha ben visto
Morpurgo-Tagliabue – si apparenta più al Sublime di Burke (‘delightful
horror’)[38].
Lo stile
elevato è dunque il terreno elettivo dell’incontro tra
Winckelmann e il Sublime. Ma procediamo per gradi. Nello
stile elevato Winckelmann trova un residuo della durezza,
della rigidità dello stile antico, anche se ciò non va
confuso con una carenza di maestria: al contrario, la nettezza
del contorno, che contrasta con la transizione fluida dello
stile bello, è la positiva manifestazione di una bellezza
austera e solenne. Ancora una volta Winckelmann ricalca il metro
di valutazione di Demetrio. Questi, parlando dello stile dei
tempi antichi (§ 14-15), osserva che esso ha un qualcosa di
periexesménon e di eustalés che ricorda le statue
antiche, le quali erano caratterizzate da systolé e
ischnótes; mentre lo stile dell’epoca avanzata assomiglia
alle opere di Fidia, che hanno qualcosa di grandioso (megalêion)
e di molto accurato (akribés). I termini usati da
Demetrio sono assai significativi. Ischnótes vuol dire
propriamente ‘asciuttezza’, ossia parsimonia di ornamento (è il
tratto caratterizzante dello stile semplice, in
latino oratio extenuata). Systolé invece vuol dire
‘compattezza’. I due concetti sono rafforzati dagli aggettivi
periexesménon e eustalés.
Il primo
deriva dal verbo perixéo, che significa ‘raschiare
tutto attorno’ (da esso deriva il suo nome anche lo xóanon,
il simulacro arcaico che si otteneva sbozzando un tronco di
legno), e ribadisce l’idea di una forma sobria, essenziale. Il
secondo – che non v’è necessità di correggere in eustathés[39]
– è evidentemente antitetico ad akribés, così come
megaleiótes si oppone a ischnótes, e mentre
akribés significa qualcosa di portato a perfezione
attraverso la rifinitura dei particolari, eustalés indica
qualcosa di meno sofisticato, ben fatto ma senza fronzoli. È
abbastanza vicino come significato a tetrágonos (in
latino quadratus), altro termine entrato a far parte del
lessico della critica d’arte (in quanto rimanda alla teoria
delle proporzioni)[40]
[41],
ma che ha innanzi tutto il senso di solido, ‘quadrato’ anche in
senso traslato (tanto che si può applicare ad una persona
‘affidabile’)[42].
Demetrio vuol
dire in sostanza che le statue arcaiche avevano forme semplici e
compatte, erano prive di effetti ornamentali e non esibivano una
particolare raffinatezza, ma erano comunque ben costruite e
comunicavano una sensazione di autorevolezza. Proprio sulla
scorta di queste suggestioni demetriane – più che dei pochi
monumenti a lui noti – Winckelmann attribuisce allo stile
elevato una persistenza della linea retta, e suppone che i
contorni delle figure «si chiudessero ad angolo, il che sembra
evidenziato dalla parola quadrato o angolato»[43].
Si sarebbe ottenuta in tal modo «quella grandiosità che
tuttavia, nel confronto con i contorni ondulati dei successori
di questi grandi maestri, può avere mostrato una certa durezza.
Sembra essere questa la durezza della quale fu fatta colpa a
Callon, a Egia, a Canaco e a Calamide e perfino a Mirone»[44].
Qui
Winckelmann allude a un passo di Quintiliano, un altro autore
antico interessato alle analogie tra retorica e arti visive,
dove si mette in parallelo la storia degli stili oratori con
quella degli stili pittorici e scultorei. Il discorso di
Quintiliano è costruito in base a una scala di durezza: per gli
scultori più antichi gli aggettivi usati sono rigidus e
durus, per quelli più tardi mollis. La scultura si
sarebbe evoluta dalla ‘durezza’ dello stile che oggi chiamiamo
‘severo’[45]
(prima parte del V sec. a.C.) alla morbidezza delle opere
dell’età classica[46]
[47].
Si tratta probabilmente del riecheggiamento di una dottrina del
tardo ellenismo, che taluno ha ritenuto di attribuire a
Posidonio[48],
ma che potrebbe anche essere stata rielaborata da Pasitele, lo
scultore e critico d’arte magnogreco attivo a Roma nel I sec.
a.C.[49]Ma
basti ciò sul rapporto tra stili winckelmanniani e retorica
antica. Converrà solamente sottolineare che la differenza tra
gli stili di Winckelmann in ogni caso non si traduce in una
scala assiomatica. Anche se lo stile elevato precede
cronologicamente quello bello, non per questo gli è
qualitativamente inferiore. Anzi, riferendosi alla sopraccitata
‘durezza’ dello stile elevato, Winckelmann afferma
che un disegno «dai contorni virili (männliche), anche se
un po’ duri» conduce nondimeno «alla verità e alla bellezza
della forma»[50]
[51].
È ora invece
di ritornare sul parallelo tra Demostene e Cicerone che, come
abbiamo visto, Winckelmann mutua da Longino per trasferirlo ai
suoi stili elevato e bello. Mette conto infatti
evidenziare che, nel farlo suo, Winckelmann vi introduce un
elemento nuovo: dopo aver detto che Demostene «ci trascina quasi
con veemenza» mentre Cicerone «ci conduce docilmente con sé»,
prosegue affermando che «quello (scil. Demo-stene) non ci
lascia il tempo di pensare alle bellezze dell’esecuzione, mentre
in Cicerone esse appaiono spontanee e si diffondono con luce
uniforme sugli argomenti dell’oratore»[52].
Trasferito sul piano della creazione artistica, questo discorso
equivale a dire che, come le opere di Demostene, le sculture
dello stile elevato hanno sul destinatario un impatto
tanto forte da fare passare in secondo piano i caratteri formali
dell’opera (in qualche modo l’accento è spostato, per dirla in
termini semiologici, dal destinatore al destinatario).
La stessa cosa non avviene nelle opere dello stile bello,
paragonate al bello stile di Cicerone, dove invece il fruitore è
sempre conscio della compiutezza formale, e ne è
intellettualmente gratificato. Sintetizzando, potremmo dire che
il tratto sublime dello stile elevato si configura come
rapimento e violenza, mentre in quello bello, dove il
Sublime non si manifesta, c’è seduzione e rapporto consensuale.
Il Sublime – che rappresentato in questi termini dovrebbe essere
prerogativa esclusiva dello stile elevato – viene insomma
definito non solo in base alle sue caratteristiche formali ma
anche attraverso i suoi effetti.
La stretta
connessione che nel suo sistema teorico esiste tra Sublime e
stile elevato risulta con chiarezza dalla descrizione che
nella Geschichte Winckelmann dà dell’opera a suo parere
più rappresentativa di quello stile, la Niobe di Villa
Medici. La bellezza di questa figura è come «un’idea concepita
senza l’aiuto dei sensi, quale sorgerebbe in un intelletto
elevato e in una felice immaginazione (Einbildung)[53]
che potesse innalzarsi fino a contemplare da vicino la bellezza
divina. Essa splende in una così grande unità di forma e di
contorno che sembra essere stata creata non con fatica ma
concepita come un pensiero e soffiata con un alito». Non è chi
non veda dietro questa ispirata formulazione un preciso
riferimento al Sublime longiniano. Mi sembra però che qui
Winckelmann faccia sua anche la lezione di Boileau[54]
[55],
secondo cui il più grande pensiero in un semplice linguaggio è
la più alta forma di Sublime, perché così il pensiero opera
direttamente riempiendo la mente di stupore e suscitando intense
emozioni. E appunto questo è il nodo che avevo indicato
all’inizio e su cui torno per concludere. In Winckelmann, lo si
è già detto, il Sublime non si definisce solo in rapporto alle
qualità formali, ma anche o soprattutto in rapporto all’effetto
che ha sull’osservatore.
La Niobe
è da questo punto di vista esemplare perché non mostra segni di
emozione sul suo volto, solo uno stupefatto annichilimento di
fronte all’incontenibile potenza distruttrice degli dèi.
Possiamo parlare, a proposito di questa figura come paralizzata,
di stille Grösse, ma non certo nel senso di quieta,
serena grandezza. Non si dimentichi che still è lo stesso
aggettivo che composto con Leben indica la natura morta,
l’assenza di vita.
In questo
caso l’immagine, purgata di sensualità, di espressività, e come
privata della vita, è tuttavia sublime perché in essa il
significato è tanto potente e terribile – deinós – da
cancellare il significante. L’osservatore è posto senza
mediazione di fronte all’esperienza del Sublime, entra
empaticamente in contatto con esso proprio perché non è
distratto dalla grazia e dal patetico.
Il contrario
avviene invece nel celeberrimo Laocoonte, che Winckelmann
colloca nell’ultimo periodo dello stile bello, dunque
verso la fine del IV secolo. Il volto di Laocoonte è altamente
espressivo, il suo dolore esposto in modo quasi didascalico.
Vediamo
l’uomo soffrire ma non entriamo in contatto con la divinità che
quel dolore ha provocato, perché il ritmo della composizione e i
fluidi contorni ci distraggono, perché – come osserva
Winckelmann – le parti dove è rappresentato il dolore più grande
sono quelle di più grande bellezza. Nella Niobe siamo
accecati dalla stessa folgore che annienta l’eroina, nel
Laocoonte vediamo l’agonia, il lento soccombere dell’eroe,
ma il suo dolore è straniato, e la visione non ci coinvolge
altrettanto direttamente a livello emotivo[56].
È questo spiega come Winckelmann, che pure nei Gedanken
lo aveva grandemente esaltato, nella Geschichte possa
arrivare a dire che nel Laocoonte il Sublime «non ha
avuto luogo»[57].
Il Sublime
che manca al Laocoonte c’è invece – per esplicita
affermazione di Winckelmann – nell’Apollo del Belvedere.
Perché? Se il Sublime fosse esclusivo dello stile elevato,
esso non avrebbe motivo di ritrovarsi nell’Apollo, che a
quello stile non appartiene[58].
Ciononostante, questa statua è il paradigma del Sublime. «Alla
vista di questa meravigliosa opera – dice Winckelmann –
dimentico tutto il resto, e io stesso attingo una condizione
sublime (einen erhabenen Stand) per contemplarla
degnamente»[58]. L’effetto
della visione è appunto quello di riversare il Sublime
nell’osservatore: «la mia visione – continua infatti Winckelmann
– sembra ricevere vita e moto come la beltà creata da Pigmalione».
È una
possessione e un trasporto verso l’alto (l’aggettivo latino
sublimis esprime appunto l’idea di un moto ascensionale[59]),
un invasamento trasumanante: tant’è che l’osservatore, che si
sente trasportato a Delo e negli altri luoghi sacri ad Apollo,
tenta a sua volta di farsi demiurgo, «di diventare il creatore
di una natura celeste»[60].
L’Apollo, in sostanza, è un’opera paradossale perché
riesce ad essere sublime nonostante sia bella. Il miracolo, per
così dire, è effetto della agency di cui questa statua è
index[61]. La
capacità unica di quest’opera è quella di mettere in moto – a
prescindere dal suo inquadramento stilistico e a dispetto della
sua bellezza – una dialettica tra referente e segno
intrinsecamente diversa da quella operante nella percezione del
bello. Il bello è piacere, ma il Sublime, come dice anche
Boileau, è energia. Nel bello c’è la grazia che diletta i sensi
ma ottunde le emozioni e fa schermo all’idea; il Sublime fa leva
sull’emozione e trasporta al di là del bello sensibile verso
l’idea.
* Il 7
novembre 2003 il Centro internazionale di Studi di Estetica
tenne a Capo d’Orlando – dunque nei luoghi di Cecilio di Calatte,
autore del perduto trattato Sul Sublime con cui polemizza
lo Pseudo Longino – un seminario dal titolo “E la luce fu. Il
Sublime alla vigilia del futuro”, moderato da Luigi Russo (per
l’elenco completo dei partecipanti vedi http://www.unipa.it/~estetica/_home.html,
alla rubrica Storia). In quell’occasione feci un breve
intervento orale, che sono lieto di riprendere e ampliare ora
per “teCla”.
[1]
La Geschiche der Kunst
des Altertums (d’ora in
avanti: Geschichte der Kunst…)
fu pubblicata a Dresda nel 1764.
Nel presente lavoro essa viene
citata secondo la paginazione
originale di quella prima
edizione, che è stata mantenuta
nell’edizione italiana con testo
tedesco a fronte a cura di F.
Cicero (Storia dell’arte
dell’antichità, Rusconi,
Milano 2003). L’analisi dei
quattro stili è sviluppata nella
Sezione III del quarto capitolo
della prima parte (pp.
213-248.), dal titolo
Sviluppo e decadenza dell’arte
greca, nella quale si possono
distinguere quattro epoche e
altrettanti stili.
[2]
J. J.
Winckelmann, Geschichte
der Kunst…, p. 228.
[3]
Cfr. Pseudo Longino, Il
Sublime, a cura di G.
Lombardo, Aesthetica, Palermo
19922, p. 44 e p. 89,
nota 147. Su questo testo
fondamentale dell’estetica
antica vedi anche L. Russo (a
cura di), Da Longino a
Longino. I luoghi del Sublime,
Aesthetica Palermo, 1987; e G.
Lombardo – F. Finocchiaro,
Sublime antico e moderno. Una
bibliografia, Palermo,
Aesthetica Preprint, 1993.
[4]
J. J.
Winckelmann,
Gedanken über
die Nachahmung der griechischen
Werke in der Malerei und
Bildhauerkunst,
1a ed.
Dresda 1755. Per una moderna
edizione italiana commentata,
vedi J. J. Winckelmann,
Pensieri sull’imitazione, a
cura di M.
Cometa, Palermo,
Aesthetica, 2001.
[5]
J. J.
Winckelmann,
Histoire de
l’art chez les Anciens,
2 voll., Amsterdam 1766.
[6]
J. J. Winckelmann,
Storia delle arti del disegno
presso gli antichi, 2 voll.,
Milano 1779 (condotta
sull’edizione viennese del
1776). In generale, sulle più
antiche traduzioni italiane,
vedi S. Ferrari, I traduttori
italiani di Winckelmann, in
G. Cantarutti, S. Ferrari, P.M.
Filippi (a cura di),
Traduzioni e traduttori del
Neoclassicismo, Franco
Angeli, Milano 2010, pp.
161-174.
[7]
Originariamente stampata
in 2 voll. a Roma nel 1783, fu
poi ripresa senza modifiche in
Opere di G.G. Winckelmann.
Prima edizione italiana completa,
12 voll., Prato 1830-1834, a
cura dello stesso Fea.
[8]
J. J.
Winckelmann,
Histoire de l’art de l’antiquité,
2 voll., Leipzig 1781.
[9]
Come nell’edizione
stampata a Yverdon 1784. La
traduzione di Huber fu invece
ripresa in un’edizione parigina
del 1801.
[10]
Cfr. E.
Pommier,
Winckelmann et la vision de
l’antiquité classique dan la
France des Lumières et de la
Révolution, in
“Revue
de l’art”,
1989, n. 83, pp. 9-20.
[11]
La copia appartenutagli è
oggi nella Biblioteca della
Facoltà di Lettere
dell’Università di Siena.
Ricordiamo che per questo
studioso il tedesco era una
seconda madrelingua.
[12]
R. Bianchi Bandinelli,
Introduzione all’archeologia
classica come storia dell’arte
antica, Laterza, Bari-Roma
1976, p. 14.
[13]
J. J. Winckelmann,
Storia dell’arte nell’antichità,
trad. it. a cura di M. L.
Pampaloni, Boringhieri, Torino
1961 (ried.
Milano 1990).
[14]
Cfr.
supra, nota 1.
[15]
J. J.
Winckelmann,
The History of Ancient Art,
trad. di G.H. Lodge, Boston 1849
(più volte riedita).
Vedi la recensione di A.A.
Donohue in “Bryn Mawr Classical
Review”, n. 38, July 2007 (on
line su
http://bmcr.brynmawr.edu/2007/2007-07-38.html,
cons. il 28 ottobre 2011).
[16]
J. J.
Winckelmann, History of
the Art of Antiquity,
Introduction by Alex Potts,
Translation by Harry Francis
Mallgrave,
Getty Research Institute,
Los Angeles 2006.
[17]
Valga per tutte
l’affermazione di Jakob
Burckhardt: «La storia dello
stile comincia con Winckelmann,
che per primo distinse i periodi
dell’arte antica e collegò la
storia dello stile alla storia
del mondo. Solo dopo di lui la
storia dell’arte divenne un
settore della storia della
cultura» (citato da H. Dilly,
Kunstgeschichte als Institution:
Studien zur Geschichte einer
Diziplin,
Suhrkamp, Frankfurt am Main 1979,
p. 86). Una buona discussione
sul concetto di stile in
Winckelmann si trova in S.
Caianello, Scienza e tempo
alle origini dello storicismo
tedesco, Liguori, Napoli
2005, pp. 52 e sgg.
[18]
Si veda C. Justi,
Winckelmann und seine
Zeitgenossen, Vogel, Leipzig
1898, vol. 1, p. 165, nota 22,
che fa riferimento al Ms. 4263
della Bibliothèque Nationale di
Parigi.
[19]
J. J.
Winckelmann, Geschichte
der Kunst…,
p. 227.
[20]
Cfr. A.
Potts, The
verbal and visual in
Winckelmann’s analysis of style,
in “Word&Image”, 6, n. 3 (1990),
pp. 226-240; Id.,
Flesh and the Ideal.
Winckelmann and the Origins of
Art History,
Yale University Press,
New Haven and London 1994,
specialmente pp. 67 e sgg.
[21]
J. J. Winckelmann,
Monumenti antichi inediti
spiegati e illustrati da
Giovanni Winckelmann, prefetto
delle antichità di Roma, I,
Roma 1767, p. LXXVI: «Essendosi
perdute totalmente l’opere di
Lisippo, né rimanendovi speranza
di ricuperarne alcuna, per
essere state tutte in bronzo,
non possiamo giudicar de’ lavori
di questo artefice se non per
via d’induzione, vale a dire
dalla poesia (attesa la stretta
connessione ch’ella ha con
l’arte) e dalle commedie di
Menandro in ispecie, come
coetaneo di lui […]. Sicché
l’arte, la quale camminò sempre
di passo pari con la poesia, e
con l’eloquenza, e con quelle si
conformò al genio del secolo,
dovrà pe’ tempi di Fidia vedersi
qual’ell’era dalle immagini
ardite e sublimi d’Eschilo e di
Pindaro. E dall’eroica maestà di
Sofocle, siccome lo stile di
Prassitele sarà stato mosso da
quelle medesime grazie, e da
quella stessa purità che
ammirasi in Senofonte e in
Platone, scrittori
rispettivamente coetanei all’uno
e all’altro scultore: e per
conseguenza l’idea più sicura
che ci possiamo formare
dell’arte di Lisippo, si dovrà
trarre dal talento del
sopraccitato Menandro».
[22]
J. J.
Winckelmann,
Anmekungen über die Geschichte
der Kunst des Alterthums,
Dresden 1767, p. 32.
[23]
Cfr. per es. ivi, pp.
222-223, 231 e 346.
[24]
Il significato originario
dell’aggettivo glaphyrós
è “incavato
artificialmente”; in seguito
esso prende quello di “polito”,
“reso lucido” e, per estensione,
“elegante”.
[25]
Tra le recenti edizioni si
segnalano quelle di G.
Morpurgo-Tagliabue (Demetrio,
Dello stile, Edizioni
dell’Ateneo, Roma 1980), di P.
Chiron (Demetrios, Du Style,
Les Belles Lettres, Paris 1993)
e di G. Lombardo (Demetrio,
Lo Stile, Aesthetica,
Palermo 1999). Di quest’ultimo
autore si veda anche il saggio
Il Sublime di Demetrio,
in “Aevum Antiquum”, n.s. 3
(2003), pp. 135-154.
[26]
Per una sintetica
trattazione dell’idea di grazia
nell’estetica antica vedi J. J.
Pollitt, The Ancient View of
Greek Art: Criticism, History
and Terminology,
Yale University Press,
New Haven and London 1974, p.
205 ss.
[27]
La flessuosità delle pose
e il movimento erano considerati
all’epoca di Winckelmann i
fondamenti della bellezza. Nel
1753 William Hogarth aveva
pubblicato The Analysis of
Beauty, dove veniva
enfatizzato il valore estetico
della linea ondulata nella
composizione delle figure. Sulla
grazia come bellezza in
movimento – un concetto
propugnato da Joseph Spence nel
suo Polymetis del 1747 –
vedi W. G. Howard, Reiz ist
Schöneit in Bewegung, in
“PMLA”, a. 24, n. 2 (1909), pp.
286-293.
[28]
Nel Cortegiano la
sprezzatura è definita come
qualcosa “che nasconda l’arte e
dimostri ciò, che si fa e dice,
venir fatto senza fatica e quasi
senza pensarvi… Da questo credo
io che derivi assai la grazia”.
Si veda in proposito P.
D’Angelo, “Celare l’arte”.
Per una storia del precetto “ars
est celare artem”, in
“Intersezioni” 9/2 (1986), pp.
213-235; e id., Ars est
celare artem. Da Aristotele a
Duchamp, Quodlibet, Macerata
2005.
[29]
In età ellenistica le
Grazie (Chárites)
sono rappresentate come tre
giovani donne che si abbracciano
l’una con l’altra, a formare un
cerchio. Seneca (De benef.,
I, 3), spiega che tale
iconografia allude ai tre
momenti implicati dalla grazia:
la concessione, l’accettazione,
il contraccambio: «Alii quidem
videri volunt una essem, quae
det beneficium, alteram quae
accipiat, tertiam quae reddat;
alii tria beneficiorum esse
genera, promerentium, reddentium,
simul accipientum reddentiumque».
Si veda anche il noto saggio di
E. Wind, Le grazie di Seneca,
in Misteri pagani nel
Rinascimento, Adelphi,
Milano 1971 (ed. orig. 1958),
pp. 33 e sgg.
[30]
Demetrio, Lo Stile,
p. 143, nota 309.
[31]
J. J.
Winckelmann, Geschichte
der Kunst…,
pp. 225-227.
[32]
Come dimostrò L. Voit,
Deinótes.
Ein antiker
Stilbegriff,
Inaug.-Diss. Universität,
München 1934.
[33]
Al § 283 Demetrio afferma
che tutto ciò che colpisce è
formidabile, perché incute
timore (pâsa dè ékplexis
deinón, epeidé phoberón).
[34]
Cfr anche Demetrios, Du
Style, pp.
XCVII-CVII; e
B. Saint Girons,
Fiat lux.
Una filosofia del Sublime,
Aesthetica, Palermo 2003 (ed.
orig. Paris 1993), pp. 231-234,
529-530.
[35]
Vedi supra, nota 3.
[36]
Un’ottima traduzione
italiana commentata è quella a
cura di G. Sertoli e G.
Miglietta (E. Burke,
Inchiesta sul Bello e il Sublime,
Palermo, Aesthetica, 1998). In
generale sulla storia dell’idea
di Sublime dall’antichità ai
moderni, oltre al volume della
Saint Girons citato supra
a nota 34, si segnala della
stessa autrice Il Sublime,
Il Mulino Bologna 2006. Vedi
anche i saggi raccolti in G.
Casertano, (a cura di), Il
Sublime. Contributi per la
storia di un’idea. Studi in
onore di G. Martano, Morano
Napoli 1983 e in T. Kemeny - E.
Cotta Ramusino (a cura di),
Dicibilità del Sublime,
Campanotto, Udine 1990. Molto
utili, inoltre, P. Giordanetti -
M. Mazzocut-Mis (a cura di),
I luoghi del Sublime moderno.
Percorso antologico-critico,
Led, Milano 2005; e G. W. Most,
Sublime degli Antichi,
Sublime dei Moderni, in
“Studi di estetica” 12, 1-2,
n.s. 4/5 (1984), pp. 113-29.
[37]
È uno dei rari casi in cui
non concordo con l’ottimo
commento di G. Lombardo (p. 97,
nota 47).
[38]
S. Ferri,
Nuovi contributi esegetici al «cànone»
della scultura greca,
in “Rivista dell’Istituto
nazionale di Archeologia e
Storia dell’Arte” 7 (1940), pp.
117-152.
[39]
R. W.
Johnston - D. Mulroy,
Simonides’ use of the term
tetragonos, in
“Arethusa” a. 37, n. 1 (2004),
pp. 1-10.
[40]
Cfr. supra e nota
36.
[41]
J.
Winckelmann, Geschichte
der Kunst…, pp.
224-225.
[42]
L’aggettivo streng
è usato varie volte in
Winckelmann nella descrizione di
opere di scultura, ma mai in
funzione classificatoria,
riferito a una precisa fase
dell’arte greca. In questo senso
fu usato per la prima volta da
G. Kramer nel 1837. Cfr. Le
osservazioni di D. Mertens in N.
Bonacasa (a cura di), Lo
stile severo in Grecia e in
Occidente,
«L’Erma» di Bretschneider,
Roma 1995, p. 207 e sgg.
[43]
Quinitiliano,
Institutio oratoria, XII,
10, 7 e sgg: «Similis in
statuariis differentia. Nam
duriora et Tuscanicis proxima
Callon atque Hegesias, iam minus
rigida Calamis, moll passo della
mette iora adhuc supra dictis
Myron fecit. Diligentia ac decor
in Polyclito supra ceteros, cui
quanquam a plerisque tribuitur
palma, tamen, ne nihil
detrahatur, deesse pondus putant.
Nam ut humanae formae decorem
addiderit supra verum, ita non
explevisse deorum auctoritatem
videtur. Quin aetatem quoque
graviorem dicitur refugisse
nihil ausus ultra leves genas.
At quae Polyclito defuerunt,
Phidiae atque Alcameni dantur.
Phidias tamen diis quam
hominibus effingendis melior
artifex creditur in ebore vero
longe citra aemulum, vel sinihil
nisi Minervam Athenis aut
Olympium in Elide lovem fecisset,
cuius pulchritude adiecisse
aliquid etiam receptae religioni
videtur ; adeo maiestas operis
deum aequavit.
Ad veritatem
Lysippum ac Praxitelen
accessisse optime adfirmant. Nam
Demetrius tanquam nimius in ea
reprehenditur et fuit
similitudinis quam
pulchritudinis amantior».
[44]
Anche perché un disegno
evolutivo molto simile, sebbene
meno articolato, è esposto nel
Brutus (69-71) da
Cicerone, che di Posidonio fu
allievo: «Quis enim eorum qui
haec minora animadvertunt non
intellegit Canachi signa
rigidiora esse quam ut imitentur
veritatem? Calamidis dura illa
quidem, sed tamen molliora quam
Canachi; nondum Myronis satis ad
veritatem adducta, iam tamen
quae non dubites pulchra dicere;
pulchriora Polycliti et iam
plane perfecta, ut mihi quidem
videri solent. similis in
pictura ratio est: in qua Zeuxim
et Polygnotum et Timanthem et
eorum, qui non sunt usi plus
quam quattuor coloribus, formas
et liniamenta laudamus; at in
Aetione Nicomacho Protogene
Apelle iam perfecta sunt omnia».
[45]
Vedi A.
Rouveret,
Histoire et imaginaire de la
peinture ancienne (Ve
siècle avant J.-C. – Ier
siècle après J.-C.),
Bibliothèque des Ecoles
Françaises d’Athènes et Rome,
274, Roma 1989,
p. 459. Per una
disamina del pensiero estetico
degli antichi in relazione alla
scultura vedi G. Pucci,
L’antichità greca e romana,
in L. Russo (a cura di),
Estetica della Scultura,
Aesthetica, Palermo 2003, pp.
9-46, 129-145, 241-246.
[46]
J. J. Winckelmann,
Geschichte
der Kunst…,
p. 222.
[47]
Ivi, pp. 228-229.
[48]
Si avverte qui un’eco
della dottrina della
phantasía, presente anche in
Longino, e in particolare di
quel passo (VI, 19) della
Vita di Apollonio di Tiana
di Filostrato dove a Tespesione,
che chiede ironicamente se
artisti come Fidia e Prassitele
siano per caso saliti in cielo a
prendere il calco degli dèi per
poterli scolpire, il sapiente
Apollonio risponde che «a creare
quelle statue fu la phantasía,
che è artefice più sapiente
della mímesis». Su questa
tematica si vedano, oltre al
classico studio di G. Watson,
Phantasia in Classical Thought,
Galway University. Press
1988, il lavoro di G. M.
Rispoli, L’artista sapiente.
Per una storia della fantasia,
Liguori, Napoli 1985 e quello di
A. Manieri, L’immagine
poetica nella teoria degli
antichi.
Phantasia ed
enargeia,
Istituti Editoriali e
Poligrafici Internazionali,
Pisa-Roma 1998.
[49]
.
Boileau-Despréaux,
Réflexions critiques
sur quelques
passages de Longin
(1694),
in Œuvres
complètes,
Paris, La Place,
Sanchez e Cie. 1873
(ed. orig., 1713).
[50]
A. Potts,
The verbal and
visual, p. 237
sgg., osserva che la
differenziazione tra
stille elevato
e stile bello
frantuma in realtà
l’unità del concetto
di bello ideale, in
quanto la bellezza
della figura
significante e
l’idea significata
non coincidono più
necessariamente.
[51]
J.
J. Winckelmann,
Geschichte der
Kunst…,
p.
154. Cfr. B.
Saint Girons,
De l’interpretation
du Sublime chez
Winckelmann,
in
Winckelmann et le
retour à l’antique,
Entretiens de la
Garenne Lemot, Actes
du Colloque 9-12
juin 1994, Paris
1995, pp. 73-84,
spec.
81 sgg.
[52]
Per la verità, Winckelmann
non dice mai chiaramente come si
colloca l’Apollo. Non ne
parla nella sezione sui periodi
e gli stili, e la famosa
descrizione che ne fa arriva del
tutto inattesa nel capitolo
dedicato alla decadenza
dell’arte in età romana (p. 392
ss). L’unica cosa chiara è che
per lui l’Apollo è opera
greca e anteriore a Nerone.
[53]
F. Cicero (in
Storia
dell’arte
dell’antichità,
2003, p. 393)
traduce «io stesso
assumo una posizione
elevata per
contemplarla con la
dignità che merita»,
come se Winckelmann
parlasse di uno
sgabello su cui
salire per vedere
meglio la statua.
[54]
Cfr
Ernout-Meillet,
Dictionnaire
étymologique de la
langue latine,
Paris 20014,
s.v.
[55]
Tutta questa
celeberrima pagina
di Winckelmann è in
fondo una
straordinaria
parafrasi di Longino,
dove si legge:
«L’effetto del
Sublime non è la
persuasione ma il
trasporto fuori di
sé (ékstasis)
[ I, 4]; «la natura
del vero Sublime è
tale che la nostra
anima si eleva, e
traendone una
magnifica
esaltazione, si
riempie di gioia e
di eccitazione, come
se essa stessa
avesse generato ciò
che ha ascoltato»
[VII, 2].
[56]
Utilizzo la
terminologia
dall’antropologia
dell’arte di Alfred
Gell. Vedi G. Pucci,
Agency, oggetto,
immagine.
L’antropologia
dell’arte di Alfred
Gell e l’antichità
classica, in
“Ricerche di Storia
dell’Arte”, n. 94
(2008), pp. 35-40.