«L’opera di Kafka – sostiene Benjamin in una lettera a
Scholem del giugno del 1938 – è un’ellissi con due fuochi molto
distanti tra loro, che sono determinati rispettivamente
dall’esperienza mistica (che è innanzitutto esperienza della
tradizione) e dall’esperienza dell’uomo che vive nella grande
città moderna»[1].
La grande città moderna di cui Kafka ebbe esperienza è
innanzitutto, e in modo pressoché esclusivo, Praga. Molto minore
incidenza sulla sua vita ebbero altre grandi città che pur
visitò, da Monaco a Zurigo, da Budapest a Milano; o metropoli
quali Berlino, Vienna, Parigi. L’esperienza della città moderna
resta fondamentale per lui, innerva l’intera trama delle sue
opere. Anche se non ne è l’unica dimensione com’è ovvio: non è
essa sola a motivare ciò che condiziona la vita di Josef K.:
la paura, i sensi di colpa, i tormentosi interrogativi, e le
ansie di liberazione che la percorrono.
È scontato
ricordare che Kafka a Praga non solo nasce, ma trascorre tutta
la vita – salvo i pochi mesi trascorsi a Berlino tra il 1923 e
il 1924; e qualche antecedente breve soggiorno a Vienna, nei cui
pressi morì. Praga è ossessivamente presente nella vita di
Kafka, come risulta dai diari, dalle lettere, dalle
testimonianze. Vi è inestricabilmente legato, malgrado qualche
velleità di fuga: Praga «ha gli artigli», e «non molla», scrive
a un amico. Come sintetizza efficacemente Ripellino, l’amore per
la sua città «si accompagna in Kafka a un basso continuo di
insofferenza e di maledizione»[2].
Nei diari e nelle lettere, «Kafka indica minutamente le strade,
i caffè, i teatri, le sinagoghe, i dintorni»; e «con quanta sete
di favola coglie, nella sfera praghese, i momenti pierrotici, i
guizzi di incantamento, le bizzarrie da panoptikum, che
coincidono con l’incolumità dell’infanzia»[3].
Tracce esplicite della città si possono trovare nei suoi
racconti, in particolare in Descrizione di una battaglia;
in una «lirica breve» di Kafka Praga, «sebbene non nominata,
traluce da una buia filigrana»[4].
Evocazioni consistenti della città non mancano nei romanzi, già
in America[5];
nel Castello Praga è presente sotto traccia. Ma v’è un
romanzo in particolare che si svolge interamente a Praga: Il
Processo è il «più praghese dei romanzi cechi e tedeschi»,
anche se «Praga non è mai nominata»; «la capitale boema è velata
e anonima», eppure «molti punti reali sono identificabili»[6].
Ma il termine
“Praga” racchiude in sé esperienze molteplici, e risvolti
variegati: luoghi, ambienti, figure, certo; ma anche
un’organizzazione sociale e giuridica, e un mondo di gesti e di
parole, un’atmosfera, una cultura – tutto quello che fa la vita
in una città, che segna le modalità del suo esserci. Nel
Processo la città avvolge tutta la vicenda; ma non è tanto
presente nell’incanto degli scorci offerti al nostro immaginario
turistico, tanto meno nelle sue straordinarie bellezze
artistiche e paesaggistiche, nelle suggestioni urbanistiche che
conosciamo. È presente piuttosto nei suoi aspetti meno
accattivanti, per nulla accoglienti: periferie squallide,
bassifondi malsani, interni soffocanti, ambienti sporchi, uffici
trasandati; e scorci inquietanti, atmosfere cupe, fredde,
piovose, spesso irrespirabili. Cifre esse stesse del clima
vissuto dai protagonisti, veri correlati oggettivi dello
squallore che impregna di sé la loro vicenda.
Per il
Tribunale e per i luoghi della città che lo ospitano vale quanto
Ripellino scrive del Castello: più che un castello
riconoscibile come tale, il castello del romanzo è
«un’accozzaglia di casupole fatiscenti, serrata l’una
sull’altra» (come peraltro è la Viuzza d’Oro, in alto
vicino a San Vito, e al Castello praghese appunto, in cui Kafka
abitò)[7].
«Il pigia pigia di fantesche e di aiutanti nella camera
surriscaldata di K. all’Osteria del Ponte nel Castello
kafkiano sembra riflettere l’accatastarsi di molti inquilini in
un vaso esiguo nei vili pertugi di Josefov»[8],
il quartiere ebraico “risanato”, la cui memoria persiste vivida
in Kafka, come riferisce Janouch[9]
– questo vale anche per gli ambienti in cui si svolge il
processo. In entrambi i romanzi dominano condizioni di vita
inquietanti: un potere accentratore e tentacolare, una
burocrazia accanita, pervasiva; e interni conturbanti, casamenti
sordidi, dove sempre si trovano gli uffici in cui viene
esercitato il potere. Si potrebbe in generale vedere in Praga il
luogo dell’estraneità. Lì vive l’uomo «che sa di essere in balia
di un apparato burocratico impenetrabile la cui funzione è
diretta da istanze che non sono chiare agli stessi organi
esecutivi, per tacere di coloro che subiscono passivamente. (È
noto che è questo uno degli strati del significato dei romanzi,
specialmente del Processo)»[10].
La città è spazio di ramificazioni estreme, di accadimenti che
si intersecano e si inibiscono vicendevolmente, fatti apposta
per complicare anziché rendere più agevole la vita dei
cittadini. Come osserva ancora Benjamin, l’abitante della grande
città moderna è «il contemporaneo dei fisici attuali»;
riprendendo un brano di Eddington, evoca l’immagine dell’uomo
che vive “sulla soglia, in procinto di” compiere l’impresa
banale, in realtà assai complessa, di “entrare in una stanza”,
esposto ai mille condizionamenti che complicano il suo agire, e
che la fisica moderna appunto ben conosce[11].
«Coi rimandi kafkiani si può rinvenire lo stesso disagio di
creatura sui margini in ogni creatura praghese, straniera nella
sua terra e soggetta agli abusi di autorità inaccessibili, a una
solerte e sfuggente inquisizione, che scruta e traccheggia e
manipola l’uomo. Intrappolato in tortuose macchinerie, il
pellegrino non può decidere della propria sorte, di lui decide
una burocrazia misteriosa»[12].
Talché a Josef K., non meno che a Josef Sveik[13],
«non resta che cercare sotterfugi e stratagemme ingegnose, per
passare attraverso il soffocante rituale di regole e di
imposizioni»; «l’accusato non ha alternative: deve acquietarsi
alle risoluzioni e ai soprusi di arcani giudici e funzionari,
contro cui nulla valgono i criteri della consuetudine, i
razionali argomenti. Non solo, ma, nel subire l’arbitrio, ovvero
l’assurda logica dei loro cavilli, lui stesso finisce col
credere che la sua anima sia imbrattata di imperscrutabili
colpe. E così accade che accetti la propria colpevolezza e,
sentenziato a morte, si faccia persino complice dei suoi
manigoldi».
Il tribunale
poi pervade la città in modo simile al castello del romanzo
omonimo: si «continua nel villaggio con la sua falsa sacralità,
col suo morto rituale oppressivo, con la sua fitta di agenti e
di segretari», e coinvolge tutti coloro con cui il protagonista
ha a che fare. Vale anche nel Processo quanto leggiamo
nel Castello: i messaggi stessi «mutano continuamente di
valore, le riflessioni a cui danno materia sono senza fine, il
caso soltanto determina i punti di fermata»[14].
E Josef K., non meno che l’Agrimensore K., «si
aggira e smarrisce nei consolati scurrili» di un «occhiuto
potere», veri «luoghi di trivialità metafisica».
Chi vuol
arrivare al Castello (e al Tribunale), e penetrarne le leggi,
dovrà radicarsi «nel male, nella servitù, negli orrori» di un
labirinto, dove gli stessi «abitanti dalla mente ormai distorta
lo accolgono con raccapriccio e superstizione». E se «non saprà
orientarsi nel groppo delle assurdità e accattivarsi i potenti,
la colpa sarà ancora sua: è il sorcio la tirannia delle gatte».
Josef K. è un pellegrino «braccato dagli occulti segugi
di un tribunale invisibile, viaggio tra malintesi e cavilli»; e
non saprà mai per quale colpa[15].
Tutto gli sarà inutile, fino alla fine: nel momento
dell’esecuzione ancora si chiederà dove siano il giudice e il
tribunale che mai aveva incontrato. Si rivelerà illusorio (e
persino sfiorato da un senso di vergogna) anche l’attardarsi a
stendere un memoriale a sua difesa. Leni lo esorterà a
non insistere nel suo atteggiamento di ricerca senza fine, ma ad
accettare il non senso e stare alle regole del gioco: «non sia
più così rigido, contro questo tribunale difendersi non si può,
bisogna confessare. Faccia la sua confessione, appena può. Solo
dopo se la potrà cavare, solo dopo»[16].
Ma quella di cavarsela è una possibilità anch’essa illusoria,
come i meccanismi di difesa nei processi staliniani ampiamente
mostrano (e a Praga il processo Slansky già si affaccia a un
orizzonte non così lontano…).
Kafka
appartiene al mondo dell’«ebreo praghese di lingua tedesca, che
vive come in contumacia in un mondo slavo. Che soffre
tragicamente la sua alterità, estraneo in ugual misura ai
tedeschi, di cui pur condivide il linguaggio, e ai cechi, dai
quali è considerato un tedesco, un forestiero»[17].
Praga è
infatti anche, e in modo tutt’altro che trascurabile, le lingue
che vi si parlano: il ceco, predominante, che Kafka conosceva
bene e considerava anzi la lingua che più gli stava nel cuore,
anche se non era la sua lingua madre[18].
Kafka conosce la letteratura ceca, anzi vi si ispira per episodi
quali quello di Amalia; il ceco si riflette anche in alcuni
nomi, quali Klamm[19]
o Odradek (oltre che in Kafka come noto). Ma soprattutto per
Kafka l’atmosfera di Praga è condizionata dall’isola di un
tedesco quasi artificioso in cui vive, e di cui si nutre il suo
stesso tedesco: «A render più arcana e più onirica la città
vltavina nel Processo concorre la stessa scrittura sobria
e precisa, la scrittura monodica, vitrea, aliena da orpelli, la
secca, oggettuale argomentazione talmudica»; un «linguaggio
disadorno, monodico, di un rigore implacabile, che è quasi un
vitreo rigor mortis, questa avvocateria metafisica, così diversa
dal fiammeggiante e dal febbrile di altri scrittori ebraici di
Praga»[20].
La città è
dunque lo sfondo su cui si muove Il Processo; oltre a
esser la trama non taciuta su cui si disegna l’intera vita di
Kafka. Nel romanzo Praga sono scorci senza nomi, un clima spesso
solo adombrato, sempre attivo tuttavia. Inseguire puntuali
riscontri locali sarebbe ozioso; lo faremo solo occasionalmente;
quello che più importa è ricostruire un’atmosfera, in cui certo
si riflette anche un modo personale di vivere la città.
Sappiamo bene
l’inizio: una congettura più che un dato di fatto: Jemand
mußte Josef K. verleumdet haben, denn ohne daß er etwas Böses
getan hätte, wurde er eines Morgens verhaftet. Qualcosa
resta da subito in sospeso: non si sa chi, né perché, abbia
calunniato il protagonista; e la presunzione della sua innocenza
verrà presto smentita dai fatti.
Del tutto
sconcertante resta poi la circostanza di partenza, l’arresto:
strano, immotivato, e tuttavia greve di conseguenze: Josef K.
viene lasciato a piede libero e continua la sua vita
apparentemente normale. Ciononostante la sua vita cambia
radicalmente (come la vita di Giobbe, o di Ivan Il’ič, di
chiunque venga inopinatamente colpito da una grave disgrazia); e
muta l’atteggiamento degli altri nei suoi confronti.
L’andamento è
da giallo rovesciato: quello che in un giallo dovrebbe essere
l’epilogo (l’identificazione e l’arresto del colpevole) è messo
sotto gli occhi del lettore fin dall’inizio, inequivocabilmente.
Salvo poi sfaldarsi a poco a poco, e confondersi del tutto
nell’evolversi della storia, fino all’esecuzione, degno
coronamento del verdetto iniziale, che dichiara da subito il
protagonista colpevole, certo; ma essa stessa problematica,
forse superflua. La condanna è infatti ampiamente anticipata,
come è chiaramente detto nel testo: «La sentenza non viene a un
tratto, è il processo che a poco a poco si trasforma in
sentenza»[21];
l’iter stesso della vicenda si trasforma in colpevolizzazione
accumulata; si fa di per sé verdetto ed espiazione. Senza
contare che la truce esecuzione, per taluni più incubo che
evento reale, non costituisce neppure il punto terminale del
romanzo, che è dato piuttosto dalla vergogna, che sola gli
sopravvive[22].
Nel secondo
capitolo, qualcuno convoca Josef K. per telefono (e si
dovrebbe indagare il ruolo delle telefonate nei romanzi di
Kafka). C’è un Tribunale con cui deve fare i conti, e ogni tanto
deve presentarsi a esso. Di fatto s’imbatte sempre in ambienti
che ad esso riconducono; e in personaggi apparentemente estranei
ad esso, ma che si rivelano sue emanazioni.
Il sedicente
Tribunale in cui K. viene convocato non ha nulla della
maestosità dei tribunali che subito riconosciamo; non è un
palazzo, rientra perfettamente nello scalcinato paesaggio
praghese, che Ripellino tratteggia magistralmente.
«Dell’architettura inquietante della città vltavina sono
illustri esempi le afose e malconce casacce»; «collusione tra un
sordido casamento operaio e una catapecchia del ghetto, intrico
di scale buie, corridoi soffocanti, ballatoi, sgabuzzini – il
tribunale a cui Josef K. vien chiamato per la prima volta il
mattino di una domenica. Il quartiere in cui sorge quel
palazzaccio, insieme fondaco e ufficio e lavanderia, con le
botteguzze sotto il livello delle strade, le finestre piene di
materassi e gli inquilini che si parlano dai davanzali, tiene
del proletario quartiere di Zizkov e a un tempo della Città
ebraica.
Altrettanto
praghese, con le sue strette scale senza spiragli e sulle scale
una frotta di ragazzine petulanti, è il casamento […] di sporco
sobborgo nella cui soffitta risiede l’imbrattatele Titorelli».
Vi regna la
stessa «stantia pragheità» che grava sulla «stanza a pigione
abitata da Josef K.», che incontriamo all’inizio; non
meno peraltro che sulle vie in cui abitò Kafka.
Qualcosa di
simile si ritrova nell’abitazione di Brunelda in America,
e il «sentimento di angustia e reclusione che è frequente negli
scrittori praghesi» è rintracciabile anche in Durante la
costruzione della muraglia cinese[23].
In termini
similari Ripellino già aveva anticipato:
Il quartiere
nel quale si acquatta l’enorme edificio, dove Josef K. subisce
il primo interrogatorio, con le sue informi catapecchie, con le
sue finestre piene di materassi, con le sue botteguzze al di
sotto del livello stradale, benché sia detto che sorge in
periferia, fa pensare alla diroccata Città ebraica. L’ancor più
sudicio e grigio sobborgo in cui, arrampicata in cima a ripide
scale, si annida l’opprimente bicocca di Titorelli, potrebbe
essere quello proletario di Zizkov, amato da Kafka”. Può “darsi
che, nella raffigurazione del sordido tribunale, Kafka avesse in
mente gli uffici praghesi in genere”, rintanati “in taccagne
stamberghe da sorci, con bui corridoi, con ciurmaglia di
scartabelli ingialliti, con tanfo di muffa e di polvere.
«Ma la
pragheità del Processo si appalesa in molte altre
minuzie»: ad es. «il rapporto tra l’affittacamere e l’inquilino,
un rapporto che avvince sovente l’inventiva kafkiana». Ma
ancora: l’accidia, il malessere della città vltavina, un’accidia
che collima con la sua ritrosia, con le sue ombrose ripulse, con
le sue estenuazioni. Il continuo ricorso di letti e giacigli,
l’odore di letto non rifatto», «l’universo molliccio di
materassi nei quali i personaggi, sempre spossati, sprofondano».
Dove si riflette non solo «l’infermità che serpeggia nel corpo
di Kafka», ma anche l’«abulia», la «forzata indolenza di una
metropoli, i cui impulsi sono perpetuamente stroncati»[24].
La parabola Davanti alla legge, che il sacerdote narra
verso la fine della storia, in certo modo ne concentra il senso,
e ne accentua l’«arcaicità»[25].
È sintomatico che Orson Wells nel suo film[26]
prenda l’avvio proprio dalla lettura[27]
del breve racconto scritto nella seconda settimana di dicembre
del 1914[28]
e inserito poi nel nono capitolo del Processo, che Bruno
Schulz considerava «la chiave di volta di tutto il romanzo»[29].
Come osserva Steiner, può esser considerata «il nucleo del
romanzo e della visione di Kafka»[30];
e Benjamin: la «breve storia Davanti alla legge è per me
una delle migliori che ci siano in tedesco, oggi come dieci anni
fa»[31].
Come Il messaggio dell’imperatore (che è parte del più
ampio Durante la costruzione della muraglia cinese, e in
questo va contestualizzato), così Davanti alla legge è
stato dapprima pubblicato come racconto a sé[32].
Possiamo considerarlo come il nucleo intorno a cui si aggrumano
le diverse dimensioni della città, lo scrigno di luce accecante
in cui si custodisce la chiave della vicenda – e forse
dell’intera vita di Kafka.Se quella del romanzo è la storia di
una condanna immotivata e degli sforzi infruttuosi,
continuamente ostacolati, di scoprirne le ragioni e di
scongiurare la pena, Davanti alla legge narra dei
tentativi disperati di penetrare nel mondo dei principi che
dominano non solo la situazione dell’uomo di campagna e, di
riflesso, di Josef K.; ma, in senso più ampio,
l’esistenza dell’uomo contemporaneo, che vive assediato dal
«negativo dei suoi tempi». Ha una conclusione sconcertante,
tipica di Kafka, ma insieme costituisce una delle chiavi di
volta del Processo. Il quale a sua volta ha un finale
imprevedibile, che non coincide con quello che per solito passa
per essere la sua conclusione (cioè l’esecuzione del
protagonista). Entrambi i finali sembrano rimettere tutto in
gioco, forse confermano soltanto il succo della vicenda, ma
contengono anche qualcosa di eccedente e di incongruo rispetto
alle storie di cui fanno parte. Di fatto la parabola dichiara
l’inaffidabilità del Tribunale e, nel caso particolare, la
diffidenza anzi l’ostilità del sacerdote cattolico; ma insieme
l’ambigua evanescenza dell’intera vicenda. Prepara, non toglie
l’esecuzione, che è già nelle cose, ma si concreterà di lì a
poco in uno scenario grottesco e macabro, a tratti
marionettistico, come lo sono gli attori coinvolti. Lasciando
tuttavia aperta l’ulteriore, decisiva, questione su cui si
chiude il romanzo.
Ma di quale
legge si tratta nella parabola? Gesetz, Lehre, o
Halacha, è a tutta prima quella in base alla quale Josef
K. viene arrestato e condannato; le svariate letture[33]
del Processo sono anche interpretazioni dei principi che
decretano un destino individuale. Non ci soffermeremo qui sulle
letture impegnate su di un piano filologico o storico-letterario,
né su letture astrattamente metastoriche.
La Legge è
cifra di una situazione sfuggente, simbolo del senso sommerso
che avvolge la vicenda, e certamente intride il tessuto
cittadino. Ha valenze più estese, psicologico-esistenziali,
metafisiche, comunque più implicate di quanto non si creda
nell’esperienza della città. La legge può essere l’insieme di
principi della Tradizione (quelli che invano il messaggero
dell’Imperatore cerca di diffondere), che reggono la vita delle
società; e che Josef K. anche senza volerlo e senza
saperlo ha violato. Ma che gli sono sconosciuti (si sono
perduti, gli sono stati nascosti?), e che vuole sapere, su cui
si interroga tormentosamente. Kafka darebbe voce dunque alla
«malattia della tradizione» (secondo la felice formula
benjaminiana) da cui è afflitto l’uomo contemporaneo –
all’eclissi della Legge, che ha smarrito il proprio senso, ma
serba pur sempre una sua atroce efficacia[34].
La città è
anche le religioni che vi si praticano[35].
Il cattolicesimo dei più, l’ebraismo o altre fedi di minoranze.
Kafka stesso è visto da taluni come uomo di fede, o al contrario
come testimone di un mondo in cui si è persa ogni fede, di
quell’assenza di Dio così ben presente ai deportati costretti ad
assistere all’agonia atroce del bambino in La notte[36].
L’eclissi della Legge sarebbe in generale metafora dell’esistere
umano tout-court, chiuso tra orizzonti di radicale insicurezza,
di incertezza, di impenetrabile oscurità; minacciato dal
naufragio di ogni via d’uscita, ma anche paradossalmente animato
da pur infondate speranze.
L’evanescenza
della legge condiziona lo smagliarsi infelice dei rapporti di
Kafka col padre, la famiglia, le donne, la società; e vota al
fallimento una vita. Elias Canetti in L’altro processo[37]
vede nel romanzo l’eco di una vicenda personale: il
fidanzamento con Felice Bauer (che nel romanzo sarebbe
addirittura raffigurata da Fr. Bürstner), e del
“processo” che ne seguì – il “tribunale” dell’Askanischer Hof di
Berlino, di fronte al quale Kafka si vede imputato. E sullo
sfondo preme una comunità coi suoi costumi e le sue leggi,
radicata in una città. In una diversa prospettiva, agirebbe nel
mondo kafkiano la colpa decretata dal tribunale dell’inconscio,
individuale e collettivo insieme. Le leggi sarebbero quelle
disperanti imposte da una patologia psichica, da pulsioni
inconsce incontrollabili dal singolo, spesso indotte
dall’ambiente. Un senso di colpa atavico, prodottosi
nell’oscurità della vita psichica individuale, ma anche radicato
nel destino di una comunità; e che condanna a una vita senza
gioia, non vissuta. Per Orson Welles il romanzo mette in scena
un “sogno, incubo”, che esprime angosce e responsabilità
indecifrabili; tanto che del protagonista alla fine «non
sappiamo perché lo giustiziano»[38].
Il suo stesso film ha sfondi autobiografici, che insieme
riflettono terrori diffusi nell’immaginario contemporaneo:
atmosfere da lager, la catastrofe atomica del finale.
La legge
potrebbe poi essere l’insieme delle leggi di una natura matrigna
ben radicata anche nella città. Kafka descriverebbe la realtà
vissuta da chi vede la propria vita, i rapporti umani, sconvolti
dall’insinuarsi improvviso di un male incurabile – come accade a
Ivan Il’ič nel magistrale racconto di Tolstoj[39].
L’arresto
simbolizzerebbe il momento in cui ci si scopre assaliti da una
malattia mortale. Spaini aveva torto a vedere nel romanzo il
riflesso della malattia che non era ancora stata diagnosticata a
Kafka mentre scriveva Il Processo.
Ciononostante
si possono vedere operanti nel romanzo le dure leggi che
condannano immotivatamente a una vita stentata e infelice, e a
una morte rapida – incubi da cui la normalità urbana abitua a
distogliere gli occhi.
Legge per
antonomasia è quella che regge le fila della convivenza civile:
presiede all’organizzazione di una società, di uno stato, di una
città. Di essa Kafka ebbe diretta esperienza negli uffici in cui
lavorò a Praga, oltre che nei suoi studi giuridici.
Un’interpretazione diffusa è quella che vede nel romanzo lo
specchio della società asburgica nella fase del suo declino, con
la sua burocrazia lenta, elefantiaca, emanazione di un potere
imperscrutabile. La legge decreta i principi in base a cui
operano gli uffici pubblici, dove le pratiche subiscono
interminabili rinvii e assurde complicazioni, magari vengono
perse, e ogni volta si deve ripartire da zero. Gli utenti si
sentono a priori colpevolizzati; intere vite si consumano, sono
intralciate da un feroce legalismo. Ogni certezza del diritto,
ogni fiducia nella giustizia sono messe a dura prova; ogni
ragione si disperde e i torti non vengono puniti (uno dei sensi
dopotutto di un processo che già di per sé si fa sentenza e
condanna).
Più in
generale c’è chi coglie in Kafka lo specchio realistico della
società capitalistica, l’alienazione e la disumanizzazione che
le appartengono. La legge sarebbe la dura, violenta legge che
vige nel mondo borghese-capitalistico, che nei suoi ingranaggi
stritola l’uomo. È la lettura che ne hanno dato studiosi quali
Gyorgy Lukács, Ernst Fischer, da noi Lucio Lombardo-Radice; e
insieme i socialisti “dal volto umano” dell’Est europeo (che
quanto meno non hanno incitato a “bruciare Kafka”, come qualche
zelante ortodosso non ha mancato di proporre), dissidenti
presenti a un celebre convegno tenuto a Praga nel ’63[40],
preludio della primavera che sarebbe stata soffocata di lì a
qualche anno.
In causa
potrebbero poi essere le leggi tenute celate (la gestione del
potere se ne avvantaggia, tenendo così in ostaggio i cittadini)
di una comunità che condanna senza mai motivare; e di fatto
soffoca la vita dovunque si manifesti, e comunque.
Con
sotterranea quando non scoperta violenza, tanto più umiliante
quanto più ammantata da bon ton o da apparente benevolenza.
Le leggi di
un iter che tacitamente decreta l’emarginazione e il fallimento
di quanti non sanno adeguarsi a comportamenti prescritti o
soltanto ammissibili. Tipica da questo punto di vista è la
situazione di un popolo separato nei ghetti, vittima di violenze
senza fine: della comunità ebraica praghese in particolare,
emersa da un passato doloroso, e con il genocidio all’orizzonte.
Kafka vive separato in una comunità che parla un’altra lingua,
ma in quanto ebreo è isolato anche nel mondo che parla la sua
stessa lingua. L’ebreo assimilato, inoltre, viene a contatto con
la vita piena di fascino degli ebrei orientali (impersonati
dall’attore Löwy), da cui si sente profondamente attratto, ma
che gli resta estranea, incomprensibile; come lui risulta
incomprensibile a loro (una situazione analoga si ripresenterà
nei campi di sterminio). Un’interpretazione a portata di mano è
quella che considera prefigurati nella legge i principi
insensati e disumani, ma terribilmente operanti nella situazione
in cui si sono venuti a trovare gli ebrei di Praga (ed europei
in genere) durante l’occupazione nazista. Quella di Kafka
sarebbe anche un forma di premonizione circa il destino degli
ebrei, strappati con inaudita violenza alle loro case, alle loro
consuetudini e affetti; mandati senza colpa e senza motivo nei
campi di sterminio – come in un passato non lontano già vittime
di pogrom, di persecuzioni ingiuste, e ciononostante tragiche
nei loro esiti. Ad Auschwitz furono deportate le sorelle di
Kafka, e perirono quasi tutti i nipoti, non pochi conoscenti; la
stessa Milena, pur non ebrea, ne seguì il destino morendo a
Ravensbrück[41].
Kafka dovette in certo modo presentirlo, non pochi lo leggono in
questo senso. E in gioco a tutta evidenza è una situazione
politico-sociale in cui ogni legalità è messa in discussione,
sono abolite le garanzie dello Stato di diritto (Rectsstaat);
come sa lo stesso Josef K.[42]
Non a caso un amore per Kafka si può accompagnare a
un interesse altrettanto vivo per la Shoah[43];
Kafka sembra prefigurare modelli di comportamento, forme della
(in)sensibilità e della mente, che fanno terra bruciata di ogni
valore etico, religioso, civile, e preparano il terreno alla
visione del mondo da cui trae linfa lo sterminio nazista.
Tipicamente praghese è l’ambientazione della fase conclusiva
della vicenda. Lo scenario in cui avviene l’incontro col
sacerdote è un non identificato ma identificabile duomo: «Il
duomo è San Vito e, nel duomo, la ‘statua d’argento di un santo’
è il sepolcro del Nepomuceno»[44].
Siamo nella cattedrale di Praga, su in alto nel castello. Anche
se qualcuno ha scorto in essa tratti che rinviano più
all’interno del Duomo di Milano, che Kafka aveva visitato nel
1911, e di cui conservava cartoline[45].
La stessa
scena dell’esecuzione è ambientata a Praga: «Al supplizio
Josef K. si reca, passando per un ‘ponte’, che è il Ponte
Carlo, al di sopra di un’isoletta, che è Kampa. Le ‘strade in
salita’ corrispondono a quelle di Mala Strana, l’arena
dell’esecuzione coincide con la cava di Strachov». Ripellino
immagina altrove che «in senso contrario [a quello che va per il
Ponte Carlo verso la Città Vecchia], ancor oggi, la notte, a
lume di luna, due guitti lucidi e grassi, due manichini da
panoptikum, due automi in finanziera e cilindro accompagnano
per lo stesso ponte Josef K., verso la cava di Strachov
al supplizio»[46].
Ma noi già
sappiamo che la frase finale del Processo contiene un
termine che ne decreta esso sì la chiusura, ed è innescato da
quanto da ultimo si coglie sulle labbra di Josef K.:“Wie
ein Hund”, sagte er, es war, als sollte die Scham ihn überleben.
Il motivo della vergogna sopra ogni altro risuona a lungo
nell’animo del lettore smarrito e lascia il campo a
interrogazioni, che non investono solo il senso del romanzo, ma
si estendono fino ad includere il senso dello scriverlo da parte
del suo autore.
Sintomaticamente l’ombra della vergogna ricorre anche a
proposito del memoriale che Josef K. progettava a sua
difesa[47].
C’è motivo di ritenere che il progetto mai condotto in porto dal
protagonista avesse un seguito poi e, sia pur in una luce
diversa, nella scrittura del romanzo da parte del suo autore, e
nella sua incompiutezza.
Nella
parabola l’uomo di campagna tenta disperatamente di difendersi,
cerca di individuare gli ostacoli che di volta in volta si
oppongono alla sua salvezza; vede in ognuno di essi,
simbolizzati dal guardiano della Legge, il nemico da affrontare.
Alla fine scopre (e lo si evince dalla conclusione della
parabola, dal dialogo che ne segue, e anche dalle parole
conclusive del romanzo) che era tutt’altro in gioco: qualcosa
che sembrava piuttosto stare dentro lui stesso, nel suo modo di
vivere la propria vicenda. E su questo si doveva innanzitutto
agire. In un passo famoso dei Quaderni in ottavo[48]
Kafka ripone il compito di rispondere al negativo dei suoi tempi
non nel combatterlo, ma nel rappresentarlo (ed è vertreten
nell’originale, non vorstellen) scrivendo.
Un
rappresentare che è testimoniare qualcosa che altri non sanno, o
non hanno potuto, vedere; ma ci si annida una pur paradossale
speranza, di cui la felicità della riuscita artistica è segno.
In questa luce si può considerare la stessa vergogna finale[49].
Alla violenza
inaudita esercitata dal potere e dai suoi complici, assecondati
dalla vasta zona grigia dei conniventi – che di fatto portano
acqua al mulino dei carnefici (giustificando magari la loro
violenza come una inevitabile costrizione storica, o del sacro,
o come violenza motivatamente imposta dalla circostanze) – fa da
controcanto (e questo è decisivo per Kafka e per noi che in lui
ci riconosciamo) chi non subisce passivamente, ma risponde,
sente il dovere morale di testimoniare, ricorrendo a mezzi
espressivi inediti, che sa predisporre.
Il problema
della testimonianza è certo complesso; per un primo bilancio di
esso posso qui solo richiamare un recente numero della “Rivista
di estetica”[50];
e in esso in particolare (per intima adesione), la bellissima
intervista concessa da Aharon Appelfeld a Daniela Padoan. Una
testimonianza non è un documento storico in piena regola, ma
alla ricostruzione storica (pure imprescindibile, com’è ovvio)
offre materiali irrinunciabili; ne è un necessario complemento,
che non può venir sottovalutato né tanto meno cancellato. Scrive
significativamente Appelfeld:
Ogni parola
che non sia concreta è per me un pericolo; ogni speculazione,
quando si parla dell’essere umano, è un pericolo. I tedeschi
sono molto bravi nel linguaggio astratto. Eichmann era solito
citare Kant; il suo linguaggio era astratto, così come lo è
stata la sua testimonianza. Ingaggiare una battaglia per
giungere a una lingua non astratta è una questione etica[51].
Giuliana
Tedeschi raccomanda di leggere prima «le testimonianze, poi gli
storici. Prima è necessaria una fase conoscitiva, e poi una fase
meditativa. La storia e la testimonianza sono due aspetti
diversi che vanno integrati, ma certo non si può prescindere dai
testimoni»[52].
Efficacemente sintetizza Daniela Padoan:
Nei discorsi
delle discipline umanistiche, intransigenza, oggettività e
distacco sono le virtù della ragione. Che questo si traduca in
cecità, quando non in crudeltà, è qualcosa che va messo tra
parentesi di fronte alla grandezza della costruzione teorica[53].
È proprio
questo rischio mortale che deve essere contrastato, se si vuol
un’immagine, veritiera in senso pieno, accettabile, della Shoah.
Accanto alle
cose denunciate, ovviamente, un ruolo decisivo svolgono i modi,
le forme (e anche questa è una ben ardua questione) in cui il
testimoniare si esprime[54].
Di cui una, volendo esemplificare, è quella di Paul Celan[55];
ma anche è da tener presente Un viaggio di Hans Günther
Adler, un tentativo che «non serve a dire esplicitamente, ma a
rappresentare», appunto; e per questa via a testimoniare[56].
Il “tono spezzato” di cui il testimoniare si avvale è
indubbiamente preannunciato dallo stesso stile di Kafka.
[1]
G. Scaramuzza (a cura di),
Walter Benjamin lettore di Kafka,
Unicopli, Milano 1994, p. 53.
[2]
A.M. Ripellino, Praga
magica, Einaudi, Torino
1973, p. 48. In questo
affascinante libro, che terremo
presente, il nome di Kafka
ricorre spesso.
[3]
Ivi, pp. 46-47.
[4]
Ivi, p. 41.
[5]
Ivi, p. 40. Lo stesso «Rossmann
rivela con nostalgia di esser
nato nella città vltavina».
[6]
Ivi, pp. 46 e soprattutto
61.
[7]
Ivi, p. 114.
[8]
Ivi, p. 149. E qualcosa
certo qui richiama i ghetti.
[9]
F. Kafka, Confessioni e
diari, a cura di E. Pocar,
Milano, Mondadori, 1972, p.
1086: «Dentro di noi vivono
ancora gli angoli bui, i
passaggi misteriosi, le finestre
cieche, i sudici cortili, le
bettole rumorose e le locande
chiuse. Ora passeggiamo per le
ampie vie della città
ricostruita, ma i nostri passi e
gli sguardi sono incerti. Dentro
tremiamo ancora come nelle
vecchie strade della miseria. Il
nostro cuore non sa ancora nulla
del risanamento effettuato. Il
vecchio malsano quartiere
ebraico dentro di noi è più
reale della nuova città igienica
intorno a noi. Svegli,
camminiamo in un sogno: fantasmi
noi stessi di tempi passati».
[10]
G. Scaramuzza (a cura di),
Walter Benjamin…, p. 53.
[11]
Ivi, pp. 53-54.
[12]
Ivi, p. 61.
[13]
Hasek non meno di Kafka
presenta «una sfuggente
burocrazia disumana, che
sotterra gli inermi sotto
fastelli di pratiche e
pentateuchi di leggi,
impigliandoli in cavilli
procedurali, affibbiando le
colpe a casaccio». Un “caos
amministrativo” analogo, frutto
di “freddi e letargici
funzionari”, si trova anche nel
Castello: «la congerie di
pratiche e di formulari e di
carte legate come fascine che
ingombra la casa del sindaco, le
cataste di pacchi di documenti
che gli inservienti, portandoli
su carrettini, distribuiscono
porta per porta ai segretari»
(A.M. Ripellino, Praga magica,
pp. 312-313).
[14]
Cit. da Ripellino, pp.
61-62.
[15]
A.M. Ripellino, Praga
magica, pp. 46-48, 61-63 per
tutto quanto citato sopra.
[16]
F. Kafka,
Il Processo,
trad. it. di P.
Levi, Einaudi, Torino 1983, p.
107.
Da questa
edizione sono tratte le nostre
citazioni dal romanzo.
[17]
A.M. Ripellino, Praga
magica, p. 60.
[18]
Ivi, pp. 42-44.
[19]
Ivi, p. 61.
[20]
Ivi, pp. 46 e 63.
[21]
F. Kafka, Il Processo,
p. 201.
[22]
Rinvio per questo al mio
Il Processo e la colpa,
in “Persona e danno”, 2011,
all’indirizzo on line
http://www.personaedanno.it/CMS/Data/articoli/020789.aspx?abstract=true.
[23]
A.M. Ripellino, Praga
magica, pp. 210-211, per
quanto da ultimo citato.
[24]
Ivi, pp. 46-47, per i
brani ripresi sopra da ultimo.
[25]
Ivi, Praga magica,
p. 215. Per una discussione
intorno a essa, cfr. H. Binder,
“Vor dem Gesetz”. Einfürung
in Kafkas Welt,
Stuttgart-Weimar, J. B. Metzler,
1993.
[26]
Si tratta de Il
Processo (1962), con Anthony
Perkins, Jeanne Moreau, Orson
Welles, Elsa Martinelli, Suzanne
Flon, Romy Schneider, Madeleine
Robinson, Arnoldo Foà; girato
non a Praga ma in Jugoslavia e a
Parigi (la Gare d’Orsay in
disarmo), ambientato ai nostri
giorni: «sulla civiltà delle
macchine, sull’uomo-massa, e
sulla crisi d’identità,
risolvendo la vicenda con una
esplosione atomica», come
sintetizza Morandini nel suo
Dizionario dei film 1999,
Zanichelli, Bologna 1998, p.
1027.
[27]
La voce fuori campo, nella
versione italiana, è quella di
Arnoldo Foà, con l’Adagio
di Albinoni sullo sfondo.
[28]
Vor dem Gesetz
apparve sulla “Selbstwehr.
Unabhängige jüdische
Wochenschrift” (9, n. 34) del 7
settembre del 1915.
[29]
B. Schulz, Le botteghe
color cannella, Einaudi,
Torino 2008, p. 441.
[30]
G. Steiner, Una nota
sul Processo di Kafka,
“Nessuna passione spenta. Saggi
1978-1996”, trad. it. di C.
Béguin, Garzanti, Milano 1997,
p. 165.
[31]
G. Scaramuzza (a cura di),
Walter Benjamin…, p. 8.
[32]
Questo vuol dire che gode
di una relativa autonomia
rispetto al contesto del
romanzo, cui resta tuttavia
funzionale. Possiamo ritenere
che abbia un senso a sé, più
ampio del senso che assume nel
Processo: un senso cioè
che coinvolge l’intero universo
kafkiano, e forse qualcosa di
noi che leggiamo. Esso resta una
sorta di estrema sintesi del
romanzo (che con esso inizi il
film è sintomatico, perché ne
propone a mo’ di prologo la
paradigmaticità in ordine al
romanzo), ma insieme esprime un
motivo tra i più decisivi
dell’intero mondo kafkiano
[33]
Per un panorama generale
cfr. E. Pocar (a cura di)
Introduzione a Kafka. Antologia
di saggi critici, Il
Saggiatore, Milano 1974; A.
Flores (ed.) The Kafka
Problem, Gordian Press, New
York 1975; E. Gini (a cura di)
Franz Kafka. Antologia critica,
Led, Milano 1993.
[34]
Mi permetto qui di
rinviare al mio Malattia
della tradizione e tramonto del
narrare, in “Forma e
memoria. Scritti in onore di
Vittorio Stella”, Quodlibet,
Macerata 2005, pp. 263-274.
[35]
E Kafka scrive: «Praga.
Le religioni si perdono come gli
uomini» (Confessioni e diari,
cit., p. 760).
[36]
E. Wiesel, La notte,
prefazione di F. Mauriac, trad.
di D. Vogelmann, Giuntina,
Firenze 1980, pp. 66-67.
[37]
E. Canetti, L’atro
processo, trad. di A.
Ceresa, Longanesi, Milano 1973.
[38]
Cfr. O. Welles-P.
Bogdanovich, Io, Orson Welles,
a cura di J. Rosenbaum,
prefazione di P. Mereghetti,
Baldini & Castoldi, Milano 1996,
pp. 280-295. Sui rapporti tra
Welles e Kafka cfr. A. Costa,
Immagine di un’immagine. Cinema
e letteratura, Utet, Torino
1993, pp. 161-172.
[39]
Che Kafka ben conosceva:
cfr. Lettere, a cura di
F. Masini, Mondadori, Milano
1988, p. 442.
[40]
I cui Atti sono editi in
Aa.Vv., Franz Kafka da Praga
1963, prefazione e trad. di
S. Vertone, De Donato, Bari
1966.
[41]
Cfr. M. Buber-Neumann,
Milena, l’amica di Kafka,
trad. di C. Zaccaroni, Adelphi,
Milano 1986.
[42]
F. Kafka,
Il Processo, p.
8.
[43]
È anche il mio
caso, tra molti, se
posso aggiungere; e
di nuovo mi permetto
di ricordare qui il
mio
L’inenarrabile e la
testimonianza,
in “Rappresentare la
Shoah”, a cura di A.
Costazza, Cisalpino,
Milano 2005, pp.
69-84.
[44]
A.M. Ripellino,
Praga magica,
p. 47.
[45]
H. Binder,
Kafka Kommentar zu
den Romanen,
Rezensionen,
Aphorismen und zum
Brief an den Vater,
München, Winkler,
1976, pp. 239-240.
Un’articolata
conferma ci è
offerta da G.
Massino, Kafka a
Milano, in “Cultura
tedesca”, 23/2003, pp. 77-92.
[46]
A.M. Ripellino, Praga
magica, pp. 5, 47, e
313-314.
[47]
F. Kafka,
Il Processo, pp.
123-124.
[48]
Ho cercato di
riprenderlo e
commentato nel mio
Franz Kafka: la
speranza e l’oblio,
“Millenarismi nella
cultura
contemporanea”, a
cura di E.I.
Rambaldi, Franco
Angeli, Milano 2000,
pp. 117-132.
[49]
Su questi temi
rinvio al mio
Situazioni estreme
ne Il processo
di Kafka, in
“Paideutika”,
n. 12 Nuova Serie,
dedicato a Forme
di confine,
anno VI 2010,
pp. 23-37.
[50]<
“Rivista di
estetica”, n.
45/2010, a cura di
D.
Padoan, dedicato
appunto a “il
paradosso del
testimone”.
[51]
Ivi, p. 28.
[52]
Testimonianza
raccolta in D.
Padoan, Come una
rana d’inverno.
Conversazioni con
tre donne
sopravvissute ad
Auschwitz,
presentazione di F.
Colombo e la
postfazione di D.
Padoan, Bompiani,
Milano 2004, p. 174.
[53]
Così nella sua
introduzione alla “Rivista di
estetica”, cit., p. 17.
[54]
Daniela Padoan richiama a
questo proposito Imre Kertész:
«nel tono spezzato che da
decenni domina l’arte moderna in
Europa, è implicita la rottura
portata dall’Olocausto; non può
anzi esistere “alcuna arte vera
e autentica in cui non si
percepisca questa rottura; per
così dire, come se uno, rotto e
irresoluto, si guardasse intorno
nel mondo dopo una notte di
incubi» (ivi, p. 30).
[55]
Cfr. ora, di
P. Gnani,
Scrivere poesie dopo
Auschwitz. Paul
Celan e Theodor W.
Adorno,
prefazione di P.
Stefani, Firenze,
Giuntina, 2010. Mi
permetto di rinviare
anche al mio
Kafka e Celan negli
scritti di George
Steiner, in
La parola in
udienza. Paul Celan
e George Steiner,
a cura di S.
Raimondi e G.
Scaramuzza, Cuem,
Milano 2008, pp.
199-230. Sul tema
della testimonianza
cfr. anche E. Wiesel,
Tutti i fiumi
vanno al mare,
trad. di V. Accame e
L. Prato Caruso,
Bompiani, Milano
2002, passim.
[56]
H. G. Adler,
Un viaggio,
con una lettera di
E. Canetti, trad. di
M. Pugliano e J.
Rader, Fazi, Roma
2010, p. 16; e cfr.
la Postfazione
di M. Pugliano alle
pp. 379-383.